27 Novembre 2019

Elizabeth Bishop, la poetessa imperscrutabile. “Aveva un talento per la vita – e dunque per la poesia – come nessuno”

L’intervista fu realizzata a Boston, il 28 giugno del 1978, da Elizabeths Spires. Fu pubblicata sulla “Paris Review”, numero 80, nell’estate del 1981. Troppo tardi. L’intervistata era già morta. Prima di lei, era morta la sua amante.

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Di Elizabeth Bishop, il vescovo della poesia americana del Novecento, si sa pochissimo. Eccelleva nell’arte dell’eludere, e poi se ne andò, decisamente, per un drastico lotto di anni. È difficile pensare a un grande poeta che abbia rivelato così poco di sé rivelandoci così tanto del mondo umano di cui siamo parte”, ha scritto, con un brillante aforisma, Scott Bradfield in un recente articolo pubblicato sul “Washington Post”.

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Nel 1951, la Bishop è in Brasile. Vi resterà 15 anni, perfezionando la poesia nell’estraneo, la lingua nel luogo alieno. La Bishop è una esegeta dello straniero, un teologo dello strano, della mistica dell’espatrio. “‘Quando scriverai il mio epitaffio, dovrai dire che ero la persona più sola che sia mai esistita’, chiedeva all’amico Robert Lowell nel 1948, non sapendo che l’avrebbe preceduta nella tomba. Il suo sembra un destino di eterna sfrattata, dagli affetti come dalle case o dai paesi; all’infanzia sballottata fra vari parenti segue una vita itinerante in età adulta, frutto di scelta e imposizione”, scrive Ottavio Fatica nella raccolta memorabile di Elizabeth Bishop, Miracolo a colazione (Adelphi, 2005).

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In Brasile, la Bishop vive con la sua amata, l’architetto Lota de Macedo Soares, da cui si separa, nel 1967, ritornando negli Stati Uniti. Nello stesso anno, Lota vola a New York per incontrare Elizabeth, e si uccide con una overdose di tranquillanti. Beh, nel 1978, a 67 anni, la poetessa dice al giornalista della “Paris Review”: “Voglio vedere il corso superiore del Rio delle Amazzoni, si parte dal Perù…”. Il poeta è proprio lì, mi dico, nel rincorrere il viaggio impossibile, in questo eccesso di vita. La Bishop, poeta perfezionista per antonomasia – lavorava le parole come modellando il vetro –, non immagina l’opera, ma l’esistere, vuole vincere il Rio delle Amazzoni, legarselo come una treccia sui capelli. Morirà l’anno dopo.

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Per particolarità biografica la Bishop mi viene addosso come l’altro me stesso che mi divora il viso. È morta nell’anno in cui sono nato, è nata il giorno in cui sono nato, l’8 febbraio.

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Lottare con la grammatica della poesia, alterarla, scindersi dalla consuetudine della conferma, significa scegliere, darsi una statura.

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Bisognerebbe, piuttosto, alterare il crocevia dei canoni: Elizabeth Bishop è il grande poeta del Novecento. Ad esempio, mi viene quasi da mettere in uno stesso chiostro la Bishop, Wallace Stevens, Boris Pasternak, Saint-John Perse, Anna Achmatova e Marina Cvetaeva, e ipotizzare filiazioni, genealogie liriche, sentieri. La Bishop ha scritto pochissimo, ha pubblicato un centinaio di poesie, sostanzialmente raccolte in quattro libri, North & South (1946), A Cold Spring (1956), Question of Travel (1965), Geography III (1976). Un libro ogni dieci anni, un Pulitzer – nel 1955 – un National Book Award – nel 1969 – in una vita fatta di poche, grandi amicizie (Mary McCarthy, Robert Lowell, a cui la lega un sontuoso rapporto epistolare pubblico in Italia come Scrivere lettere è sempre pericoloso, Adelphi, 2014), di scrittura maniacale. Era ossessionata dalle parole, dal suono della frase, dal simbolo che formano i versi più che dal senso. L’ultima stanza, di folle bellezza, de L’Uomo-Falena:

Se lo beccate,
puntategli una torcia nell’occhio. È tutto una pupilla scura,
una notte in sé compiuta, il cui orizzonte cigliato si restringe
mentre vi fissa e chiude l’occhio. Allora dalle palpebre una lacrima,
unico suo bene, come per l’ape il pungiglione, sfugge.
Furtivamente la raccoglie in palmo di mano e, se vi distraete,
l’ingoierà. Ma basta stare in guardia ed è pronto a consegnarla,
fresca come da fonte sotterranea e così pura da poterla bere.

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Agli amici scriveva poesie dal sentore alchemico. Così chiude l’Invito a Miss Marianne Moore:

Vieni come una luce nel bianco cielo a pecorelle,
vieni come una cometa diurna
con una lunga, innube coda di parole,
da Brooklyn, passando sopra il ponte, in questa bella mattina,
ti prego vieni volando.

Nel mondo anglofono esce una biografia della grande poetessa, Love Unknown. The Life and Worlds of Elizabeth Bishop, 400 pagine firmate da Thomas Travisano, presidente della “Elizabeth Bishop Society”. Ne viene fuori, al di là della riservatezza enigmatica, il ritratto di una donna vitale, d’altronde, “aveva un talento per la vita – e dunque per la poesia – che non ho mai visto in nessun altro”, diceva James Merrill, poeta, come John Ashbery, che a lei deve moltissimo. “La Bishop non ammetteva intrusioni nel suo privato, si vergognava a leggere in pubblico, eppure la sua vita si è rivelata una quieta avventura, resistendo alle continue richieste della sua amica, Adrienne Rich, di ostentare la propria ‘identità sessuale’. Ostentare ed essere disponibile non era l’atteggiamento della Bishop verso la vita, ed è per questo che le sue poesie abbracciano il lettore in modi sempre inattesi” (Scott Bradfield).

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Andava spesso a trovare Ezra Pound al manicomio criminale. Che incontro tra strampalati: l’antico, decapitato re della poesia, e quella regina che ha scelto di deporre la corona per una esistenza in viaggio – orfana di padre, madre ricoverata per instabilità mentale, la Bishop, con una piccola pensione, comincia a viaggiare, dagli anni Trenta, in Europa, Africa, Messico, Marocco, Ecuador, Perù, Norvegia, arsa da sfrenata foia –, indossando quel cognome vescovile. Ne scaturisce un reportage lirico, Visite all’ospedale St. Elizabeth, dall’incipit potente.

Ecco la casa dei matti.

Ecco l’uomo
che sta nella casa dei matti.

Ecco l’ora
dell’uomo tragico
che sta nella casa dei matti.

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La poesia della Bishop è piena di lacrime. “Un aneddoto riportato da James Merrill in visita alla poetessa mostra Elizabeth che una sera, accanto alla stufa, con un bicchiere di Old Fashioned in mano, al ricordo di un recente dolore scoppia in lacrime. Un suo ospite, un pittore brasiliano, rientrando la vede in quello stato e si arresta sulla soglia. Lei lo invita quasi allegramente a entrare e, passando al portoghese, gli dice: ‘Non farci caso, sto solo piangendo in inglese’. A riprova che una lacrima è una cosa intellettuale” (Ottavio Fatica). Così la chiusa di Sestina: “Tempo di piantar lacrime dice l’almanacco./ La nonna canta per la meravigliosa stufa/ e la bimba disegna un’altra imperscrutabile casa”. Già. Le lacrime sono oggetti di cristallo, monocoli attraverso cui leggere nel giusto spettro le poesie della Bishop. In ogni caso, io ritaglio quell’aggettivo, inscrutable: lì è riassunta l’integrità intera di Elizabeth Bishop. (d.b.)

*In copertina. Elizabeth Bishop dorme; tratto dal documentario “Welcome to this House”, 2015

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