27 Giugno 2022

La vita degli scrittori russi è magnifica!

Morì nell’ottobre del 1982, vecchio di gloria – era nato il 6 agosto del 1893, a Montevideo –, riconosciuto (nel 1973 l’Università di Buenos Aires gli aveva consegnato una laura honoris causa, proprio a lui che aveva abbandonato la scuola in quarta elementare), rabbioso, come mostrano le fotografie, con quel viso a spigoli, spiccato, sempre all’attacco. Elías Castelnuovo pare riprodurre in sintesi l’icona dello scrittore sudamericano tipico: figlio di povera gente, svariati lavori in serie – “ho fatto, tra l’altro, il tipografo, il linotipista, l’assistente di due chirurghi estetici francesi…” –, un talento naturale per l’osservazione, la scaltrezza, la scrittura, molato “nella redazione di innumerevoli giornali di sinistra, per lo più anarchici”. Secondo Castelnuovo, l’impegno artistico non è distinto da quello politico: uno scrittore scrivendo per sé serve il “popolo”. A questi intenti velleitari diede forma rituale e retorica, Castelnuovo, forgiando un codice pieno di buoni consigli, risaputi, come questi:

“Se non hai nulla di importante da dire, non dire nulla. Scrivere tanto per scrivere è incarcerare l’intelligenza in casa, gettando la stupidità dalle finestre”;
“Poi: impara a scrivere di continuo, senza tener conto dell’ora, del tempo che passa, dei rumori che fanno i vicini. A forza di cadere, di tintinnare, la goccia d’acqua trafigge la pietra”;
“Scrivi come parli. Chi parla in un modo e scrive in un altro o mente mentre scrive o è un bugiardo quando ti parla”;
“Evita il florilegio letterario, gli aggettivi a profusione, gli orpelli, il profluvio dell’esuberanza, la retorica ingombrante, insomma, l’artificio”;
“Niente è perfetto una volta uscito dal forno della mente. La perfezione accade – se accade – dopo un lungo e meticoloso lavoro di correzione”;
“Non è bene iniziare a scrivere senza un progetto, per quanto sommario. L’improvvisazione si paga: meglio peccare di cautela che perdersi per incoscienza”.

Altre norme, che ne definiscono la postura politica più che la poetica, letti oggi paiono agghiaccianti:

“Per raggiungere le masse è necessario usare il linguaggio delle masse. Chi rifiuta la lingua quotidiana, non vuole essere compreso. Importante non è come si dice ma cosa”;

“La letteratura è fatta dal popolo. Lo scrittore non fa che modellare un libro già scritto, sigillandolo con la sua firma”.

Per sempre anarchico, Castelnuovo flirtò con i comunisti – ma non si iscrisse al partito –, fu vicino al Partido Socialista de la Revoluciόn Nacional, si disse peronista (fu firma tra le più argute di “Mundo Peronista”); gli piaceva mormorare la parola “popolo”, lo eccitava, ma restò, di fatto, un indisciplinato, un individualista, un impenitente presuntuoso: “Ho coltivato ogni genere letterario – poesia, racconto, romanzo, saggio, critica giornalistica, teatro, cinema – senza mai deludere nessuno”.

Esordì alla letteratura nel 1923, con una raccolta di racconti, Tinieblas, che fece epoca: presto tradotta in tedesco e in russo, fu l’emblema di un nuovo modo di narrare il mondo, di sentirlo. La storia di Elías Castelnuovo è legata al “Grupo Boedo”, milizia di scrittori anarchici, socialisti, rivoluzionari, che miravano a una scrittura schietta, non priva di dialettismi, concentrata su temi “sociali”, spesso frugale, feroce. Il gruppo si incontrava presso l’Editorial Claridad di Antonio Zamora, fondata un secolo fa in calle Boedo 837, che stampava i libri del gruppo, e presso il Café El Japonés, poco lontano. Del gruppo, Castelnuovo era la penna più ardita; vi faceva parte anche Roberto Artl, il grande autore de Il giocattolo rabbioso, I sette pazzi, Le belve. Nel 1928, Castelnuovo e Roberto Artl fondano l’Uniόn de Escritores Proletarios, il Teatro Indipendiente e il Teatro Proletario, “il teatro più perseguitato della capitale, con un corpo di guardie giurate ad ogni replica, pronte alla minaccia”. I titoli dei libri di Castelnuovo – spesso dimenticati se non come sapido ‘segno dei tempi’ – ne indicano il gesto, la perentorietà civica: Animas benditas, Malditos, Vidas proletarias, Psicoanálisis sexual y social, Jesucristo y el reino de los pobres.  

Lui è Elías Castelnuovo (1893-1982)

Scrisse molto, molto viaggiò, Castelnuovo. Fu una specie di anti-Borges: all’erudizione preferiva l’adulazione del popolo, al frammento colto i filamenti di fango, all’onirico il proletario, ai labirinti la periferia. Il “Grupo Boedo” era l’opposto del “Grupo Florida”, di cui Borges, Victoria Ocampo, Ricardo Güiraldes e Leopoldo Marechal figuravano come membri di spicco: si riunivano in centro, presso la Confitería Richmond in calle Florida, o presso il Tortoni in Avenida de Mayo. Eppure, per uno dei primi numeri della rivista “Sur” (verano, 1932), ideata dalla Ocampo, Castelnuovo firmò un articolo su La vida de los escritores rusos – qui edito per la prima volta in Italia. Insieme a lui, avevano spazio in quel numero di “Sur” un saggio di Benjamin Fondane, Martin Heidegger ante la sombra de Dostoiewsky, legato a un estratto da Che cos’è Metafisica? di Heidegger; un testo di Charles Duff sull’Ulisse di Joyce, una “nota” sugli ultimi romanzi di Hemingway e di Faulkner, un articolo di Borges su El arte narrativo y la magia.

Castelnuovo era stato in Russia l’anno prima, nel ’31, ricavandone un libro, Lo que yo ví en Rusia, con i crismi dell’entusiasmo e della propaganda. Rispetto a molti altri viaggi ‘promozionali’ – quelli di Louis Aragon, di Romain Rolland, di André Malraux, quello disincantato di André Gide – il tour di Castelnuovo è più terreno, ingenuo, scoppiettante, umile. In qualche modo, Castelnuovo dà voce al clima elettrificato dalla dittatura proletaria, al vigore di una conquista, della continua messa in questione di tutto, dell’era rivoluzionaria di cui, diceva Boris Pasternak, “bisogna scrivere in modo da mozzare il fiato, da far inorridire”. Gli aspetti peculiari dell’epica intellettuale sovietica emergono con precisione al dettaglio: la vita in comune, la continuità delle assemblee rispetto alla meditazione solitaria, che sfocia nel solipsismo; la casa intesa come luogo di transito, neutro e non più spazio individuale, proprietà del proprio privato; gli abiti modesti rispetto all’affettata eleganza borghese (ma che, allo stesso modo, indicano un rango, uno stile); l’etica del lavoro manuale a contrasto con quello mentale; la necessità di una scrittura forgiata all’aria aperta, nei boschi e nelle industrie. Gli aspetti inquietanti di questo ‘sistema’ ammettono fedeli – assemblea/cenacolo; comunità/monastero; patria/dio; collettivizzazione/privazione; lavoro come missione – e dicono dell’indole di un popolo dalla quintessenza esagitata, diversa.

Quanto al resto, non possiamo che digrignare le interiora. Quando Castelnuovo scrive, Majakovskij si è da poco ammazzato, il suo cadavere è ancora caldo, fa odore; Boris Pasternak pubblica il suo grande poema, Le onde, e ammette, in una lettera, che

“Anche in questo sta la crudeltà dell’infelice Russia: quando dona a qualcuno il suo amore, l’eletto non trova più scampo ai suoi occhi. È come se si trovasse di fronte a lei in un’arena romana, costretto a ripagarla con uno spettacolo per il suo amore. E sa da questo non si è salvato nessuno, che cosa dovrei dire io…”.

Varlam Šalamov era già stato arrestato la prima volta. Ed è paradossale fino all’urlo quando Castelnuovo accenna che per fortuna nella Russia sovietica gli scrittori non sono “costretti a fare i lavapiatti, per vivere”: pochi giorni prima di impiccarsi, nell’agosto del 1941, Marina Cvetaeva aveva chiesto “di essere assunta come lavapiatti nella mensa del Litfond di prossima apertura”. Glielo negarono.

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La vita degli scrittori russi (appunti di viaggio dall’Unione Sovitica)

Tutto è cambiato radicalmente in Russia in seguito alla Rivoluzione. Anche la vita degli scrittori è cambiata. C’è stato un tempo in cui gli intellettuali erano perseguitati. Ridotti alla miseria, spesso erano gettati in prigione. Alcuni furono costretti a fare i lavapiatti, per vivere. Altri a inscatolare sardine nelle aziende di Stato. Certamente, questo è ciò che subisce l’intellettuale di un regime detronizzato. Con la Rivoluzione è cambiato tutto.

Oggi gli intellettuali in generale e gli scrittori in particolare, vivono molto bene. Quasi quanto gli operai che lì godono dei diritti maggiori, della più alta reputazione.

La vita economica dello scrittore è per lo più stabilizzata. Come gli altri lavoratori, anche gli intellettuali lavorano entro i confini del Soviet. La carriera di uno scrittore, dunque, risulta piuttosto facile. Appena una persona, donna o uomo che sia, rivela un talento letterario in qualche genere – romanzo, poesia, dramma – ha il pane assicurato, lo stigma di una vocazione riconosciuta.

Da noi uno scrittore, buono o cattivo, può pubblicare un libro a patto di accontentarsi di uno stipendio elementare, minimo. Horacio Quiroga, uno dei nostri più validi narratori, ha calcolato che in vent’anni di lavoro, sommando tutti i suoi scritti, ha guadagnato qualcosa come uno stipendio di 20 pesos al mese… Se dovessi mettermi a fare lo stesso conteggio, comprendendo i premi, arriverei forse a 7 pesos…

In Russia questo è inconcepibile. Uno scrittore, di qualsiasi risma – ce ne sono di peggiori dei nostri –, al quale la casa editrice di Stato pubblica un libro, può aderire al sindacato degli scrittori e consacrarsi proletario della penna. Da quel momento in poi, non dovrà più lottare per il sostentamento. D’improvviso, lo Stato gli facilita l’esistenza economica. Ti scardina cioè il chiodo dal cranio. Di cento scrittori che ho conosciuto, nessuno era afflitto da problemi finanziari. […] Scrivendo una pièce o un romanzo all’anno, un drammaturgo o uno scrittore possono vivere tranquillamente, occupandosi così della propria arte, senza sprecare energie in altri ambiti.

In altri Paesi è difficile che uno scrittore non si dedichi a qualcosa di diverso dalla propria missione, la letteratura. L’organizzazione sovietica permette questo lusso anche all’artista più modesto. Lo stesso accade ai pittori e agli attori. Tuttavia, lo scrittore resta un lavoratore autonomo. Non deve attenersi ad altro dettato che a quello della propria coscienza – nel rispetto del sistema in cui è inserito, va da sé. È impensabile supporre che uno scrittore pubblichi un romanzo contro il Soviet se è il Soviet a pagargli lo stipendio e a pubblicarlo. Mentre nell’altro mondo si mette al bando lo scrittore rivoluzionario, qui si contesta chi non lo è.

Occorre sapere, però, che l’orientamento letterario non è imposto dalla dittatura del proletariato, ma dagli stessi scrittori, che tengono congressi a questo scopo, interessati come tutti al processo della ricostruzione socialista. Nessuno ha chiesto a Vladimir Majakovskij di scrivere il suo celebre inno sui piani quinquennali né a Fëdor Gladkov Il cemento, il romanzo della ricostruzione. Sebbene abbondino gli scrittori comunisti, dottori in marxismo, non è obbligatorio essere comunisti per pubblicare. Basta essere ciò che in Russia è definito “una persona onesta”.

Nelle due grandi metropoli, Mosca e Leningrado, gli scrittori hanno case comuni. Tutti vi possono vivere, ma non è un obbligo. Di solito si mangia insieme: di rado si cucina in casa, questa è reputata un’usanza borghese che denota mancanza di spirito sociale. Nelle sale da pranzo russe puoi vedere più scrittori in un’ora che qui in due o tre anni.

Si vestono tutti modestamente. Nessuno si segnala per la propria eleganza. Ad eccezione di chi è stato in Francia o all’estero come Boris Lavrenëv, nessuno si distingue da un qualsiasi lavoratore. Alcuni vanno oltre misura e indossano tute e ciabatte. Sembrano mužik. Più di uno di loro mi ha accolto in maniche di camicia, barba di nove giorni, pantaloni legati con una corda, cranio rasato. Va di moda radersi il cranio con un rasoio. A volte, in sala da pranzo, entrava una palla da biliardo, altre volte un tipo con una spaventosa criniera di montone. Aleksandr Serafimovič e Maksim Gor’kij, per via dei loro vestiti più che notabili paiono due prigionieri.

Nessuno occupa più di due stanze, è la massima “estensione territoriale” possibile. Stalin medesimo non ne occupa di più. Per lo più, si vive in strada, al circolo, in biblioteca, in assemblea: ovunque c’è una stanza per leggere e una per scrivere. In questo modo, il senso di “casa” è completamente modificato: ci si va soltanto a dormire. La casa ha smesso cioè di essere un nido individuale: è un buco, un luogo di transito. Lo scrittore, d’altronde, cambia indirizzo a seconda del lavoro che è impegnato a svolgere. Se intende descrivere una fabbrica o un cantiere navale, si trasferisce e vive lì. I pittori sono ancora più transumanti: da Odessa vengono inviati a Baku, da Baku a Samarcanda e poi in Siberia. Sono mobilitati “artisticamente” come i soldati; tengono le loro mostre nei capannoni delle fabbriche.

D’estate, molti scrittori trascorrono i giorni nelle antiche residenze dei nobili, ora al servizio degli operai.

Invece di andare in treno, come noi, si mettono uno zaino in spalla e viaggiano a piedi, da Mosca e Leningrado, fino in Georgia. Gli scrittori russi amano raccogliere le proprie impressioni sul campo, sono sempre a contatto con gli uomini e la natura. Alcuni hanno scelto di lavorare in fabbrica o in una fattoria: nel tempo libero scrivono le loro opere.

Il lavoro manuale è esaltato, in Russia: tutti ritengono un onore vivere grazie al lavoro delle proprie mani.

Elías Castelnuovo

Gruppo MAGOG