28 Ottobre 2023

Vertigini di luci e ombre: “Elephant Man” di David Lynch

Con Elephant Man (1980) siamo fin da subito nella Londra cupa, rumorosa, della Rivoluzione Industriale, dove la caligine del cook e dei molti macchinari a vapore intorbida l’aria e vela il cielo… Pistoni, cilindri, componenti meccaniche e combustioni in perenne ansimante e sbuffante attività… Nella suggestiva fotografia in bianco e nero curata da Fred Francis, si assiste a contrasti forti di ombre e luci e quasi a una lotta delle une per prevalere sulle altre. Dice Lynch in un’intervista:

«Per me è stata una delizia lavorare in bianco e nero; ho una mia teoria balorda sulle storie ambientate nell’epoca vittoriana: siccome quella è stata davvero l’alba dell’era fotografica, credo fermamente che un pubblico che vede un film vittoriano con la fotografia in bianco e nero la accetti inconsciamente come l’atmosfera originale».

Già dall’incipit sembra di essere in un romanzo di Dickens o nella Londra dolente descritta da William Blake nella poesia omonima (Songs of experience, 1794). È una società già incipientemente capitalistica ma nella visuale del regista estranea all’entusiasmo del celeberrimo teorico Adam Smith – coevo della storia narrata nella pellicola – il quale identificava la ricerca dell’interesse economico personale con il bene pubblico.

Piuttosto, però, che a una rappresentazione impietosa del capitalismo alla Grosz (la quale si sarebbe affacciata artisticamente solo pochi decenni dopo l’epoca descritta nel film), zone della pellicola apparentemente votate ad un grottesco macabro e crudele – come la danza sfrenata da carosello in cui tutto sembra girare vorticosamente su dei cardini impazziti,  e in cui gli operai fanno ubriacare forzosamente il protagonista deforme che vedono come un fenomeno da baraccone da umiliare –, fanno pensare al degrado della classe operaia come descritto in Martin Eden di Jack London, un degrado figlio del sequestro di corpi e anime operato dal capitalismo nel quadro del lavoro salariato, al quale segue, dopo il duro e alienante lavoro di una settimana, la deriva della dipendenza da alcol, vero anestetico sociale delle coscienze, e di tutti quegli usi “bruti” tipici di una classe che non può permettersi un’istruzione né riscattare una coscienza sociale.

Il film (di un registro più classico e composto di molti altri lavori di Lynch) sembra seguire, fin dai primi snodi, un filo rosso rousseauiano: il protagonista, Joseph Merrik (interpretato da un intenso John Hurt che si affida all’espressività della voce piuttosto che alla maschera del viso per evidenti ragioni di trucco) è in fondo un selvaggio cresciuto senza nessuna guida e allo stato brado, ma ha un’innata bontà e un’intelligenza viva; un po’ come il Caspar Auser di Herzog di cui abbiamo parlato altrove.

Un filantropo benestante di nome Treves si imbatte in lui visitando un circo che è stata la sua sola, crudele e cinica famiglia: esposto al ludibrio del pubblico come uno scherzo della natura il cui volto terrifica, viene riscattato per una somma di denaro dal gentiluomo che vuole offrirgli una seconda vita. Viene istruito e vestito elegantemente come un dandy di città, incontra spiriti liberali dell’alta società che lo vezzeggiano e sostengono, e apprende tutto molto in fretta mostrando attitudini fuori dal comune.

Ma viene da chiedersi: non è ora, egli stesso, un nuovo fenomeno per il voyeurismo libertario della classe agiata? Egli, in effetti, sembra evaso da una gabbia lercia per entrare in una dorata che detta nuove regole ma non offre schietta umanità e empatia, comprensione per il suo spirito angelico e ferito dall’ignoranza e bestialità degli uomini, la sua profonda solitudine e tristezza; e così la sua presenza è di nuovo esibita: paradigma sociale buono per un pezzo sul giornale che faccia sensazione e dia lustro a chi lo accoglie fino in seno all’alta società. Va però precisato che Lynch sembra non voler sottolineare questo aspetto, quanto la reale filantropia di spiriti eletti appartenenti alla classe alta, e in questo resta forse un po’ schematico: proponendo una sorta di dicotomia tra benestanti e proletari, per il verso di una celebrazione della sensibilità dei primi e messa in scena della rozzezza e cattiveria belluina dei secondi.

Ciò non di meno è una parabola tristissima quella che imbastisce Lynch, e in cui l’uomo comune è crudele e deforme nell’anima, nelle sue pieghe nascoste e non sintomatiche, proprio come sembra dire Coleridge nella sua poetica, anche se stavolta il gabbiano è l’uomo elefante; ci piace pensare che Lynch abbia suggerito anche, seppur velatamente, che Merrik sia doppiamente vittima, cioè vittima anche, seppure ingenuamente grata, di un mondo che celebra l’apparenza, barbaro anche quando evoluto, nemico di una condizione più evoluta della ricerca di un pedissequo riflesso sullo specchio delle brame gesuitiche dei benpensanti. Ma, ciò detto, il filantropo Treves (interpretato da un misurato Anthony Hopkins) resta una figura positiva, mossa da reale gentilezza d’animo e sincera benevolenza nei confronti della creatura sensibile e sfortunata dal volto di mostro e dal cuore angelico, un cuore non intossicato dalle scorie di una civiltà sempre più artificiale e disumana, negatrice di sentimenti di solidarietà e empatia, scevra di una reale evoluzione di pensiero laddove i diseredati, i poveri, l’altra faccia della civilissima Londra, sono altrettanti freaks ma senza un’occasione di riscatto. Joseph è sinceramente grato a Treves, e in uno dei momenti più toccanti del film gli si rivolge dicendo di essere felice ogni giorno, ringraziandolo e aggiungendo che non avrebbe potuto nemmeno dimostrargli a parole la sua gratitudine se non fosse stato per la sua ala protettrice.

V’è anche un’altra figura assai positiva nel film, la signora Kendall, vera benefattrice d’alto rango e sensibile amica del protagonista. Dopo aver assistito entusiasta ad uno spettacolo teatrale fantasmagorico – che sembra preludere alla magia del cinema – la vede alzarsi e raggiungere il palco per incitare il pubblico ad applaudire Merrik, considerato ospite d’onore. Merrik, col suo cuore da sognatore, inebriato dallo spettacolo teatrale e colmo di appagamento per sentirsi finalmente accettato, decide di abbandonarsi a una morte per soffocamento, togliendo dal proprio letto i molti guanciali adibiti a sopportare il peso della sua enorme testa e muore sereno col viatico di quel picco di felicità che probabilmente sa non potersi ripetere in modo così magico e lustrale. Merrik si spegne accompagnato dalla visione della propria perduta e amata madre che pronuncia le parole: «Niente muore». E niente muore davvero se puro e in armonia con il creato.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG