25 Novembre 2021

Il mondo è malato: non puoi che impazzire. Elémire Zolla & la schizofrenica

E comunque, la pazzia si addice alle donne. Forse – più orfiche che Euridice – perché hanno la lucidità di emergere, un lucore d’inferi sul viso, la bava di chi ha visto. Esasperata eredità di baccanti, genetliaco legato a Proserpina, figure semplicemente in eccesso, fastidiose, al Salpêtrière, per lo più, capitavano isteriche – ovvero: anormali rispetto al codice della società normata. Chi sviene, sul braccio di Jean-Martin Charcot, nel quadro che ne celebre le gesta sanitarie, è una donna, ‘Blanche’: gli studenti osservano, stupefatti; è una donna quella che bacia le mani di Philippe Pinel, pioniere della psichiatria, nella pittura agiografica che lo ritrae, siamo nel 1795, è una donna, pallida, sghemba, disastrata, quella che gli è condotta, una donna, seno in fuori, quella svenuta, poco oltre, una donna quella che grida, ossessa, inchinata, semivestita, in catene. Il denudamento della psiche si lega alla nudità del corpo, allo svanire delle inibizioni, a un eros labirintico. Cambiano le macchine ma non gli esiti: le fotografie di Paul Regnard – si veda lo studio di Georges Didi-Huberman, L’invenzione dell’isteria, edito da Marietti – ritraggono, acconciate da indemoniate, donne; nel 2016, come Melanconia con stupore, per l’editore Raffaelli, Karen Venturini ha raccontato la storia di “trentaquattro donne ricoverate in manicomio fra Ottocento e Novecento”. La pazzia, in ogni modo – e spesso in modi subdoli – ci attrae, come qualcosa che magnetizza a un’origine perduta, come il pericolo di perdere irrimediabilmente tutt’altro.

“Il mondo schizofrenico è un mondo di partecipazione mistica; ‘una indescrivibile estensione del sentimento interiore’… Le definizioni sono confini; gli schizofrenici vanno oltre il principio di realtà ed entrano in un mondo di relazioni simboliche… Gli schizofrenici vanno oltre il linguaggio ordinario per giungere a un linguaggio più vero, più simbolico… Il linguaggio di Finnegans Wake. James Joyce e sua figlia, la pazza Lucia, sono la stessa cosa. Il dio è Dioniso, la folle verità”, scrive Norman O. Brown in Corpo d’amore. Era il 1966. Nel libro, è citato lo studio di Marguerite Séchehaye, Journal d’une schizophrène, epocale, da cui Nelo Risi, nel 1968, trae un film, Diario di una schizofrenica. La percezione è quella di sfiorare l’inattingibile, una profondità che ammutolisce.

In questo sfondo, nel 1958, Barbara O’Brien pubblica negli Stati Uniti Operators and Things: The Inner Life of a Schizophrenic. Il libro, al principio quasi ignorato, racconta, con linguaggio granitico, senza mediazione medica, il percorso di una schizofrenica, in un mondo schizoide, schizzato dall’epica del lavoro. Non siamo al Salpêtrière, dove le donne venivano rinchiuse e ispezionate; l’etica è sempre quella della normalizzazione, del reintegro alla normalità. Il libro è tradotto in italiano sessant’anni fa, nel 1961, da Longanesi, con copertina lisergica e titolo differente, La schizofrenica; ora ritorna per Adelphi nel gergo originario, Operatori e Cose. Confessioni di una schizofrenica. Diversa la traduzione – allora di Olga Borsini Ceretti, oggi di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini – medesima la postfazione, di Michael Maccoby, psicoanalista di pregio, già collaboratore di Erich Fromm. All’edizione odierna, tuttavia, manca il ‘pezzo forte’, per così dire: la Prefazione all’edizione italiana (Longanesi) di Elèmire Zolla, che apre inaugurando un confronto tra il testo della O’Brien e quello, d’altro tono, della Séchehaye. Il testo – di cui riproduciamo gli ultimi brani, sia lode a Paolo Masetti per la gentilezza – tocca alcuni temi chiave del pensare di Zolla: i rapporti sconfinanti, sconfitti, tra mania e norma, follia e legge; il perturbante nella letteratura; la rivolta contro il mondo moderno, alato al progresso. Zolla scorge che nell’era della pubblicità e del mercato anche la donna ‘strana’, stralunata, derelitta, diventa moda, che la musa è in vendita.

Chi è attento, scorgerà nelle figure femminili – evanescenti, avvelenate, recondite – citate da Zolla alcuni lari di Cristina Campo. Djuna Barnes, ad esempio. La Campo scrive di lei nel 1966, sul “Giornale d’Italia”, dettagliandone l’aristocrazia (“è, tra i vivi, colei che meglio abbracciò questo trappismo della perfezione… lo stesso suo nome trova il modo, ogni volta, di cader fuori dai repertori, potrebb’essere, per quel che ne sa la gente, la sconosciuta del secolo XVII, una sorta di Inez de la Cruz, di Contessa di Winchilsea”); Zolla l’aveva importata nel 1959, scrivendone su “Studi americani”. Poi c’è Margot Ruddock, l’incoerente, cupa, scapigliata poetessa che fece perdere la testa a William B. Yeats: di lei, morta nel ’51, sappiamo quasi nulla; Yeats la installa nell’Oxford Book of Modern Verse, tra W.H. Auden, T.S. Eliot, Tagore, Joyce, Ezra Pound, Kipling e vari altri. Svanì dopo aver pubblicato un libro, The lemon tree, probabilmente contraffatto da Yeats; alla Campo piacevano queste storie interrotte (fu lei a donare la Ruddock, per così dire, a Zolla), subiva la magia dell’anello che non tiene, della clausura in una alterità antartica, abbacinante, in abominio al tempo, dunque appropriata per rivelazione.

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Il mondo sano e normale è già un Sistema schizofrenico, dove convivono le stasi dell’ebetudine e la ferocia della guerra perpetua… E poiché è un mondo malato, la malattia che ne è generata appare paradossalmente come una sorta di sanità, di negazione del mondo negativo, di denuncia della sua disumanità… Perché dunque leggiamo queste pagine? Nella speranza che dai frantumi di un’umanità smarrita possa nascere un cosmo coerente. La follia deve essere la disgregazione di un ordine inadeguato, preparazione d’una sanità: corruptio pessimi optima. Nella storia letteraria la creazione di un’opera nuova è preceduta dal ritorno al caos primordiale, nella vita pratica ogni nuova instaurazione è preceduta dalla critica radicale del passato. In queste pagine si dimostra come l’esaurimento dei simboli linguistici minacci di rendere senza ritorno il viaggio agl’inferi.

Ma anche un altro motivo spinge alla lettura. La schizofrenica è, oltre ad una figura pratica clinica, una sorta di mito. È l’erede della donna macabra e ciondolante dei romantici; stilizzata, vegetale, blaterante, nella letteratura degli anni Venti ella piglia il posto della donna angelicata e svanente; in modo oscuro nel suo disordine si crede d’intravedere la possibilità di liberazione da una certa società tutta attivistica e razionalizzata. Il caso delle donne di Scott Fitzgerald, avvolte dal fascino segreto che la schizofrenia emana, è il più evidente. Le eroine di Djuna Barnes sono vezzose catatoniche, imprendibili e preda di ognuno. Yeats additò all’ammirazione i versi di Margot Ruddock, autrice di The Lemon Tree, dove alla bellezza s’aggiungeva anche l’attrazione perversa che esercitava quella figura di donna vagolante per i porti del Mediterraneo in preda ai suoi deliri, affidata al caso dei più orribili incontri, murata nella sua fumosa ed elegante immaginazione. Questa mitologia moderna fu poi sviluppata quasi meccanicamente da Shirley Jackson in una short story abilissima, The Tooth, che segna l’assimilazione da parte della mezza cultura (il midcult) del tema al modo stesso del romanzo pre-beat di Paul Bowles, The Sheltering Sky.

La donna angelicata e la dark lady finiscono col coincidere: nella schizofrenica si danno tanto la inattingibilità quasi sacrale dell’angelo innocente quanto la perversità multiforme e senza freni della dark lady. La moda letteraria trapassa nel costume, il trucco funebre, le gote scavate e imbiancate, gli occhi bistrati e allungati a simulare l’attonita fissità della demente, il gesto stereotipo e manierato diventano a poco a poco uno dei moduli fissi dell’industria del trucco e dell’abbigliamento. Un merito di questo libro potrà essere di guarire dai residui del lungamente coltivato amore per questo tipo di vergine promiscua e stolta: ne svela le connessioni ormai scoperte con la vita dell’organizzazione, mostra che si tratta semplicemente del vero volto, faticosamente raggiunto attraverso le metamorfosi della perversione dell’impiegata perfetta. Oppure: è la mera presentazione dell’oggetto, sacco di juta, pezzo di catrame, coccio, rotella, lembo di manifesto che soppianta la finzione del quadro astratto. Oppure: è la registrazione di sciabordii, trapanazioni, gocciolii e boati che per successioni legittima piglia il posto della manipolazione atonale dei suoni.

La via d’uscita? Maccoby parla della “precisa volontà d’adirarsi”. Contro il mondo com’è e non dovrebbe essere.

Elémire Zolla

Gruppo MAGOG