Come se, in fondo, tutto tornasse all’Egitto, a quella sapienza millenaria, sintetizzata in piramidi e Sfingi, in divinità dal volto felino, che turba (Bastet, leonina e lunare, sfuggente), in costume di leopardo (Seshat, icona aritmetica), foggia di ibis, di falco, di coccodrillo. Tradotto in film, in grandi opere letterarie (ad esempio, il ciclo di Thomas Mann dedicato a “Giuseppe e i suoi fratelli”, che lega l’episodio biblico alla storia egizia), in gadget, l’Egitto è legato a doppio nodo all’Italia: il Museo di Torino, nato nel 1824 da scoperte e studi iniziati nel XVIII secolo, è notoriamente il più importante al mondo insieme a quello del Cairo. A censire gli “influssi egizi sulla cultura occidentale”, in un linguaggio non accademico, s’impegna l’ultimo numero di “Studi Cattolici” (715, settembre 2020), con testi di egittologi di pregio come Alessandro Roccati, Federico Contardi, Emanuele M. Ciampini. A coordinare il ‘quaderno’ Matteo Andolfo, autore di un articolo su L’idea dell’uomo nell’antico Egitto, già autore dalla notevole bibliografia (ricordiamo almeno, L’uno e il tutto. La sapienza egizia presso i Greci, 2008), che abbiamo interpellato. Il punto, come sempre, è capire – sfiancati dal ruggito della terribile e fascinosa dea Sekhmet, dal viso di leonessa – gli altri mondi, gli altri tempi, fare una gita nell’aldilà e nel suo immaginario, temperare la vita al nitore della morte.
La sapienza viene dall’Egitto. Ci spiega, sommariamente, che cosa Platone può presumibilmente aver recepito dalla sapienza egizia?
Egitto e Mesopotamia costituiscono le culture più antiche (si sviluppano già nel III millennio a.C. con radici che affondano addirittura nel IV millennio a.C.) e sono anche contenutisticamente profonde e ricche: i loro testi spaziano dalla religione all’epica, dalla letteratura sapienziale ai testi giuridici, dai testi storici a quelli politico-economici e amministrativi. Anche in assenza della rete virtuale odierna, le idee circolavano molto nel mondo antico e l’influsso orientale è pervenuto anche alla Grecia. Tra le concezioni di Platone che possono aver risentito dell’influenza egizia e delle quali si parla nel quaderno e in altre mie pubblicazioni, in primo luogo vi è la tripartizione dell’anima umana in razionale, irascibile e concupiscibile, che trova corrispondenze in testi sapienziali egizi. In secondo luogo, menziono i tratti caratterizzanti delle due età che si alternano nel divenire ciclico del cosmo, di cui si parla nel grande mito del Politico (268 D-274 E), dal rilevante significato metafisico: l’età di Zeus in cui il tempo procede in avanti e che vede una degenerazione progressiva del mondo e della società, e quella di Crono, il cui tempo è retrogrado e così riconduce tutto all’integrità originaria. Nella religione egizia è il mondo terreno a divenire verso la corruzione, mentre nell’Aldilà sotterraneo il tempo inverte la propria direzione: è per questo che il dio Sole, l’Artefice di tutti gli enti, tramonta ormai vecchio e morente immergendosi nell’Aldilà, in cui durante la notte ringiovanisce e può così rinascere al mattino fanciullo e rigenerare quotidianamente tutto l’esistente.
La vulgata vuole che la sapienza egizia sia proiettata nell’aldilà: si vive per pensare alla vita oltre la vita. Quanto c’è di vero in questa affermazione?
È vero che gli egizi hanno avuto a cuore la questione della sopravvivenza nell’Aldilà e che si sono dedicati a elaborare a fondo la propria concezione del mondo ultraterreno e della vita oltre la morte. Si doveva evitare dapprima la corruzione del corpo del defunto, che gli avrebbe precluso la vita nell’Aldilà, e poi si dovevano assicurare già in vita le condizioni per il superamento del giudizio ultraterreno attraverso la cosiddetta “pesatura del cuore” (di fatto la comparazione tra le norme della verità e della giustizia [Maat] e il comportamento tenuto in vita dal defunto), poiché la condanna avrebbe significato la distruzione di ogni forma di sopravvivenza: la “seconda morte”, definitiva. Nondimeno, per le ragioni dette, la sentenza del tribunale divino ratificava la condotta tenuta in vita. Perciò, la vita terrena assume anch’essa una grande importanza. L’idea di giustizia dell’etica egizia è che a un’azione buona segue una conseguenza positiva e che a un’azione cattiva segue una conseguenza negativa: i ricchi devono provvedere ai poveri, i forti non devono sopraffare i deboli; la protezione del superiore verso l’inferiore dev’essere ricambiata dalla lealtà e dall’obbedienza dell’inferiore nei riguardi del superiore. All’interno di questa visione è impensabile che il male possa aver successo e che il bene possa fallire; anzi, le nozioni di “giusto”, di “bene” e di “successo” sono equivalenti. A ciò, a partire dal Nuovo Regno, si aggiunge la pietas verso gli dèi: l’obbedienza (in cambio della solidarietà di Dio) diviene sottomissione alla volontà di Dio.
Che cosa muore dell’uomo che ha vissuto, secondo gli egizi, e cosa di lui rivive, eventualmente, nell’altrove?
Nel mio articolo nel quaderno spiego come per gli egizi l’uomo sia l’insieme di molteplici componenti, fisiche, psichiche e spirituali, relativamente indipendenti, il cui grado di unità relazionale aumenta nel corso dello svolgimento del pensiero egizio. Resta sempre fermo, però, un punto: l’uomo è sempre tutte queste componenti e non una sola, sicché per sopravvivere nell’Aldilà tutte devono essere preservate dalla corruzione, anche quelle spirituali.
Ka, Ba, Ren: l’individualità egizia pare svolgersi entro questi tre termini. Ce li spiega, che relazioni hanno tra loro?
Il ka è una componente statica dell’uomo, è la vita dell’individuo in condizione di potenzialità rispetto all’esistenza in atto, ma è anche il tipo di vita che l’individuo vive nell’Aldilà. Il ba, impropriamente tradotto con «anima» (si tratta di un’interpretazione obsoleta del termine) è uno degli aspetti di manifestazione dinamica e personale dell’uomo; è l’«energia» intesa come la capacità che la natura o essenza ha di far conoscere la propria esistenza e di renderla partecipabile. Per il suo dinamismo il ba è in grado di unirsi al dio Sole e, quando ogni notte quest’ultimo attraversa l’Aldilà, il ba si riunisce temporaneamente (ma perpetuamente) al cuore, il “centro” dell’individuo, garantendo la perpetua prosecuzione della vita del defunto come post-vita, ossia “vita dopo la morte”, ibrida di potenza e atto, inerzia e dinamismo, sonno e veglia. Il “nome” (ren) esprime la capacità di esistere dell’individuo (se una cosa esiste, deve necessariamente poter esser nominata), la sua identità di individuo differenziato dagli altri e perciò riconoscibile (l’essenza dell’individuo, la sua personalità) e il suo destino. Ogni volta che chi passa davanti a una tomba nomina il nome del defunto sepolto in essa contribuisce anche così a rievocarlo in esistenza, a farlo continuare a vivere concretamente, non solo nel ricordo dei posteri.
Nel suo studio trova analogie tra il pensiero egizio e quello indiano, hindù, cita Plotino e San Paolo: pare che sia esistita una specie di ‘comunità’ della sapienza e dei saperi, di cui l’Egitto (penso anche all’importanza che ha nella storia biblica) è stato il fulcro, il cardine, il passaggio necessario. È così?
Si può ammettere una “comunità” dei saperi, ma non tanto nel senso della prisca sapientia cara ai rinascimentali, che si sarebbe trasmessa di civiltà in civiltà, quanto nel senso di una forma mentis piuttosto condivisa nell’Oriente antico, anche se declinata diversamente nelle differenti culture. Per la loro antichità (si veda la risposta alla prima domanda), sia l’Egitto sia la Mesopotamia dei sumeri e dei babilonesi hanno svolto un ruolo primario e fondamentale di centri di diffusione delle elaborazioni di detta mentalità condivisa, ai quali si sono aggiunte le culture del II e del I millennio a.C., da quella indiana a quella ebraica, cananaica, aramaica, hittita ecc. Certamente, l’influsso egizio e mesopotamico è stato particolarmente rilevante per le culture occidentali più antiche (cretese, minoico-micenea, greca, etrusca e romana), che sono state raggiunte da tale influsso tramite le culture orientali più tarde dell’area egeo-anatolica e siro-palestinese.
In quali studi si sta avventando, ora?
Continuo ad approfondire i miei interessi e àmbiti di ricerca filosofico, teologico e orientalistico, poiché il loro studio conduce a una sorta di “spirale”: nel ripercorrere tali àmbiti si individua sempre qualcosa di “nuovo” o non sufficientemente notato e valorizzato in precedenza che ne costituisce un continuo approfondimento.
*In copertina: dettaglio del Papiro di Hunefer risalente alla XIX dinastia egizia, con il dio Thot