“Mi innamorai e mio padre morì annegato”. Elogio di Charles Simmons, uno scrittore per pochi
Letterature
Raoul Precht
«Io ho diverse vite: quella letteraria, quella politica, addirittura quella mistica, e, naturalmente, quella privata. Il destino però non ha voluto che mi sistemassi: le varie famiglie che ho cercato di metter su si sono sempre sgretolate. E ora vivo in questo modo: vado a prendere le ragazze alla stazione Lelingradskaja o, altrimenti, trascorro lunghi mesi da solo in compagnia del mio topo» (Zona industriale)
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Apprendo ora della sua morte. Il fiato incespica di fronte al ricordo di una giornata dicembrina, pochi mesi orsono. L’eccitazione di fronte alla notizia del suo ritorno in Italia, la gioia al suo ingresso sul “palcoscenico” della conferenza stampa (lui che era un attore shakespeariano nato), l’onore nel poter intrattenere una conversazione, seppur breve, con lui, il disappunto nel riconoscere la sua dura freddezza slava, la serenità, di poco successiva, nell’esperienza del pathos della distanza – quello che Nietzsche insegna, pochi comprendono, ancor meno praticano. Emmanuel Carrère ha tentato di coglierlo, con esiti letterari straordinari, arrivando a creare un esteso fenomeno culturale: al proletario anarchico ed elitista che ha fondato Limonka – giornale dal titolo dadaista, “granata Limonov” – non risultò mai gradito.
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Ma il mio plurale sentire altro non era che un déjà vu, lucido nella sua vorticosità, del nostro precedente incontro, nella primavera del 2018: l’inseguimento del generoso editore Sandro Teti, per intervistare il titano del nazionalbolscevismo, le difficoltà logistiche dell’impresa, la dedica del suo splendido Zona industriale, il dono, da parte mia, di un volumetto collettaneo, Studi evoliani 2013, che conteneva una mia recensione del libro di Carrère, lo stupore nel saperlo in volo, con lui, per Mosca, infine l’atmosfera da queste, quasi che Limonov recasse in sé un Graal misterioso, quasi che dietro la sua prosa incalzante, sporca, bukowskiana, si dovesse celare lo sguardo escatologico della Madonna di Kazan’ – icona par excellence della Madre di Dio (Theotókos), cuore del Logos russo.
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Dietro il suo cipiglio, invece, nella sua voce carismatica, si nascondeva lo stigma della semplicità. Poca trascendenza – sebbene Il trionfo della metafisica, un suo capolavoro, parli apertamente dell’esperienza del sacro («vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un’assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza») –, nessun iperuranio, piuttosto una spaesante assenza di riduzionismi, dualismi, parcellizzazioni di sorta. Solo il reale, nella sua nuda, organica, provocante pienezza. Nella durezza del suo imporsi sulla fragilità dell’esistenza del singolo. La scrittura di Limonov, la sua poetica, rivendicava proprio questo potere: scorgere la bellezza nell’istante, vivere intensamente. Lui era un novello D’Annunzio russo: testa calda, occhi di ghiaccio, bizzosamente antipatico, talora empatico, narcisistico come lo è il mondo. I suoi schemi di geopolitica, animati da un’intransigente fusione di ideale e machiavellico pragmatismo, erano cartografie plastiche del suo animo, della sua irrequieta narrazione interiore. Uno stile del tutto diverso dal suo altrettanto geniale sodale giovanile, Aleksandr Dugin. Lo stesso vale per i suoi progetti politici: visioni comunitarie fatte di pura estetica, in cui le «armate rivoluzionarie dei falliti» avrebbero mostrato la bancarotta di tutto quanto odora di capitalismo, liberalismo e razionalismo. Non è caso che sia stato definito «un cinico sognatore».
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Sulla sua opera letteraria, sulla sua biografia e sul suo impegno politico molto è stato scritto. E molto dovrà esserlo, con il rigore e la profondità che sgorgheranno dal tempo e dalla maturità generazionale dei suoi studiosi futuri. Io stesso tentai, insieme all’amico Nicola Berti, la composizione di un denso “dossier” Limonov, per «L’Intellettuale Dissidente». Sciamano del culturalmente scorretto, lo definimmo nel titolo. Non so se il risultato fosse soddisfacente. Lo sembrava, finché l’eccedenza della vita dell’autore, la sua freschezza intellettuale e umana, ne alimentava l’altrimenti piana esposizione. Ora che ci ha lasciato – a 77 anni, età palindroma, quasi un vezzo estetico –, in questo preciso momento parlano ben più francamente gli scatti fotografici di cui è stato protagonista. La loro semplice presenza, per chi l’ha conosciuto, per chi ne ha forse ingenuamente fatto un mito, evoca un prisma incendiario.
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«Mi piace la follìa» scriveva nel Diario di un fallito, aggiungendo: «Tutta la mia vita ne è l’esempio. Coltivo non la logica, bensì il godimento. I miei dolori mi procurano il piacere». Seguiva, poche pagine dopo, un monito oscuro: «Fate scorrere il mio sangue, uccidetemi, torturatemi a morte, tagliatemi a pezzi! Non può esistere Limonov vecchio! Fàtelo nei prossimi anni. Preferisco che sia fatto di aprile o di maggio!». Un mese in anticipo, caro Eddy.
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In realtà, mentre scrivo queste righe non so nulla delle ragioni mediche del decesso. Né m’interessa. L’Eurasia di Limonov – ovunque essa si trovi – oggi è in lutto. È scomparso il cantore dell’«istinto al superamento della solitudine cosmica», quell’evento, fondamentale nella vita del singolo, in cui «unendosi con un altro essere, è come se lui (o lei) ricaricasse le batterie» della propria esistenza. Eppure vive ancora, con forza rinnovata, nelle sue opere – estroflessione narrativa di una vita dinamitarda.
Luca Siniscalco