18 Agosto 2022

“Tutto ciò che vivo, lo vivo con ardore, a morsi”. Il diario di Edna St. Vincent Millay

Il 13 aprile del 1911, Edna St. Vincent Millay concupì il primo amore. Aveva 19 anni e si fidanzò con quest’uomo, con un anello che “trovai in una torta della fortuna… era il simbolo di tutta la felicità terrena”. La Milley si era appena diplomata, si occupava di gestire la casa mentre la madre, infermiera itinerante, lavorava fuori. Preparava la cena per le sorelle minori, lavava, rammendava i loro vestiti, all’occasione intratteneva gli ospiti. Il suo amante non aveva nome né corpo: era un’invenzione, evocata per superare la solitudine, le difficoltà di una adolescenza presto sfiorita. Questo primo amante, un’ombra, non viene catalogato insieme agli altri, tanti, autentici, avuti dalla Milley, ma è stato fondamentale per vivificare i giorni estenuati della sua prima età adulta. In una nota al suo amore, descrive lo scaldavivande con cui ha preparato la cena per i fratelli, e prosegue, “Perché non vieni qui una sera a mangiare qualcosa con noi?”.  

L’amore immaginario della Millay è il solo analizzato in dettaglio nelle pagine del suo diario, raccolto per la prima volta da Daniel Mark Epstein come Rapture and Melancholy. Nel 1923, dodici anni dopo quei giorni da madre surrogata, diventò la prima donna a vincere il “Pulitzer for Poetry”: era assai nota per la vita altamente pubblicizzata, i numerosi amanti in carne e ossa, la fatale dipendenza dalla morfina. Eppure, il diario non registra questi eventi, neanche quelli più drammatici. La Millay che emerge da queste pagine non è la famosa poetessa, performer e mantide, ma un’altra, il cui mondo interiore aiuta a comprendere la vita autentica. Qui osserviamo la mondanità della vita invisibile, la porzione d’esistenza che nessun critico o lettore vede, tra momenti di estasi e malinconia.

Nel 1912, mentre viveva ancora a Camden, inviò una sua poesia, Renascence, che aveva iniziato a scrivere l’anno prima, a un prestigioso concorso di poesia. Tornata a casa dopo aver raccolto mirtilli per cena, trovò la lettera di un editore di New York: la informava che la sua poesia era stata selezionata per essere pubblicata in “The Lyric Year”. I critici erano entusiasti della sua poesia, presto il pubblicò cominciò a corteggiarla. Caroline Dow, preside della YWCA Training School di New York, sfibrò i propri contatti per finanziare gli studi della Millay al Vassar College; Charlotte Bannon, che conosceva il responsabile del dipartimento di inglese dello Smith College, arrangiò una borsa di studio. La Millay scelse il Vassar dopo un semestre preparatorio al Barnard College. Salì su un treno notturno, sbarcò a New York City a 21 anni, aveva perso il pettine nel viaggio, si profuse in trecce. La sua fama la precedeva.

A New York, seguì corsi di inglese, francese e latino per sopperire la carenza di crediti scolastici; bilanciò i compiti a casa con tè, pranzi, colazioni alla Poetry Society (con “alcune, diciamo così, celebrità”, annota lei) e incontri regolari con i suoi mecenati. Da lei si attendevano voti alti e che continuasse a scrivere versi. Tali dettagli sono menzionati di sfuggita, insieme a faccende domestiche: stirare e ripetere Orazio, fare il bucato e scrivere poesie in biblioteca.

Alla Vassar, la Milley era intoccabile. Negoziò il contratto per il primo libro, Renascence and Other Poems, uscito nel 1917, pubblicava poesie su riviste, prendeva parte a produzioni teatrali universitarie. Si metteva di continuo nei guai: saltava le lezioni, fumava, beveva nei dormitori, mollava il campus per fare gite con gli amici lungo il fiume Hudson. In un’occasione ha usato il tempo del test di geometria per scrivere una lettera a un’amica. “Forse sarò espulsa”, scherzava: fu sospesa poco prima della laurea, le concessero la possibilità di discuterla. Durante gli anni del college, inaugurò una relazione con il poeta e drammaturgo Arthur Davidson Ficke, che sarebbe sfociata in un’amicizia regolare, costellata da un decennio di lettere.

I diari rivelano la vita invisibile istante per istante: la storia segreta di una pera irregolare, il rubinetto che non funziona sono significativi quanto la vita pubblica della scrittrice. La Millay di questi diari è meno impelagata con il pubblico, i lettori, gli editori, i colleghi scrittori; si occupa del piacere privato di ammirare il mondo. Le lettere di un grande scrittore sono scritte con la consapevolezza che saranno lette da altri, oltre al destinatario cui sono rivolte. I diari, invece, sono motivati da impulsi più ambigui. Solo nei diari lo scrittore ha l’autentica libertà di non essere altro che un testimone del mondo, ha la libertà di non raccontare una storia, di non doversi giustificare. Interessarsi alla vita degli scrittori significa anche soffermarsi sul nulla che riempie quelle vite; di norma desideriamo esistenze eccitanti, ma l’osservazione intima di un luogo, la staticità, a volte, racchiude emozioni più profonde.

Tra il 1917 e il 1927 la Milley pubblica il primo, il secondo e il terzo volume di versi. Porta la madre a New York, deve mantenere la famiglia. Vince il Pulitzer, si sposa, si ammala gravemente. Una biografia tradizionale sarebbe certamente più vivace dei diari, scritti sull’onda di una languida estasi. Nel decennio più produttivo della sua vita la Milley non tiene nemmeno un diario. Le pagine brillano di un sentimento spontaneo, immagini che poco hanno a che fare con il corso fatale della vita. Ogni giorno pare compiuto in sé, senza alcun precedente, senza ascendenze.

Dopo il matrimonio con Eugen Jan Boissevain, dopo l’operazione all’appendicite, la Millay e il marito acquistarono una casa ad Austerlitz, New York: facevano giardinaggio, osservavano gli uccelli. Ospitavano spesso gli amici, ma la malattia rendeva la Milley costantemente stanca; dipendeva da Boissevain per le faccende domestiche, lui la metteva a letto, a volte, sotto dettatura, scriveva le pagine del diario. Per il resto della vita, lottò contro la dipendenza e la depressione, causata, in parte, dalla relazione tumultuosa con George Dillon poeta più giovane di lei, di cui si innamora nel 1928.

Fece un tour in Europa, lavorò per la Guggenheim Foundation, rivedeva i suoi manoscritti. Il diario brulica di vasti elenchi di fiori e di ortaggi, di uccelli ammirati o ascoltati: cardellini, regoli, gli “arpeggi da brivido” del tordo. Raccoglieva pelli di serpente, uccideva talpe. Non amava più le esibizioni pubbliche, non sapeva “che senso hanno le mie mani” durante una lettura. Ogni volta che menzionava il lavoro di scrittrice si lamentava che fosse “una noia”. Dovettero trascinarla fuori dal letto per incontrare Eleanor Roosevelt. Nonostante la depressione, continuava a sentirsi elettrizzata dalle cose quotidiane, come quando era ragazza. Rose, rondini, rubinetti, acquazzoni: nessuna sorpresa è troppo piccola, nessun piacere troppo semplice. Catturava farfalle, dava da mangiare alle cince sul suo letto, celebrava la marmellata di lamponi.

Verso la fine della vita, il diario è maculato di inquietudini. La Milley si intima di “non diventare sciatta”, di “non lasciare mai che un’altra persona ti veda mentre fai l’iniezione”. Redige un resoconto delle sostanze assunte – morfina, due sigarette, un bicchiere di birra e un cocktail col gin prima delle dieci del mattino. Il diario della Millay è quasi un negativo fotografico della sua vita, notissima: all’ombra della fama, l’amore per il giardino e per il focolare; all’ombra della depressione, l’irrefrenabile meraviglia, che non vacilla mai. Come annota la Millay nel novembre del 1927, “Questo libro non è scritto tranne quando non c’è niente da scrivere”.

Apoorva Tadepalli

*Si traduce qui una larga parte dell’articolo di Apoorva Tadepalli pubblicato su “The Nation” con il titolo: “The Wondrous and Mundane Diaries of Edna St. Vincent Millay”

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11 febbraio 1912

Non so cosa mi accadrà. Non vedo come possa vivere altri due giorni come gli ultimi mesi. So di essere in una situazione terribile. So che i pensieri che squarciano la mia mente sono pensieri terribili. Percepisco con accuratezza piena di orrore la potenza che alcuni pensieri hanno su di me. Non ho una religione a cui affidarmi, nessuna fede né altro sfogo, tutta l’intensità di me stessa è canalizzata verso un unico scopo, il solo, l’adorazione di te. C’è qualcosa di crudele in questa situazione – nessuno può capire da quale abisso io ti ami, amo chi mi manca con una tale acutezza, e ho paura che non potrò mai trovarti, mai averti – e così per ore…

Non credo che in altre donne le radici della passione siano così evidenti e profonde come in me. “I due elementi della passione: rapimento e malinconia”. Eccomi, io li incarno a perfezione – rapimento e malinconia. Non so ricordare un momento in cui non sia stata dominata da questi elementi. Io sono – e sono, sempre, con funambolica intensità. Sento intensamente ogni minima cosa. Ciò che per gli altri può sembrare insignificante, in me diventa simbolico, enorme, tremendo. Mi ammalo pentendomi di non aver fatto ciò che dovevo. Spesso credo di avere esperienza, in modo astratto, di emozioni che non ho fisicamente provato, ma che ho soltanto immaginato, con una forza così vivida da ferirmi. L’indifferenza è la sola cosa che non ho mai esperito né immaginato, e questo prova come non sia passato un minuto della mia vita senza che abbia sentito qualcosa di profondo, in me. Non sono mai stata indifferente, non ho mai provato assenza di sensazioni di fronte a qualcosa, qualsiasi cosa…

Il mio amore per te è più ampio del pensiero, di questo concetto, è l’amore di ogni donna per ogni uomo. È tutta la primordiale femminilità che desidera compagnia, tutta la fame del mondo che anela al cibo, tutta la stanchezza che sospira per un riparo, è l’istintivo protendersi dell’anima universale. Tutto ciò che vivo, lo vivo con ardore, a morsi.

Edna St. Vincent Millay

Gruppo MAGOG