15 Aprile 2021

Interrogare il deserto. Qualche parola su Edmond Jabès

Più che scritti, vorremmo essere inscritti. Si scrive lo scempio della propria solitudine, la pochezza, l’assenza, l’imbarbarimento del compito, la reclusione nell’escluso; si è inscritti in una storia, in un destino, in una vastità. Scrivere è un gesto, eventualmente, gettato verso qualcuno; qualcuno deve inscriverci, non possiamo farlo da soli. Non si decide una fede. Qualcuno deve chiamarci. Scrive chi non ha udito l’onda della chiamata. Chissà.

La sapienza di Edmond Jabès è continua, riluce e sorprende. Egli ha fatto del libro un’inchiesta, della scrittura l’incunabolo di ogni irrequietezza. In realtà, questo grande poeta ha scritto cancellando. Ha dato destino di deserto alla letteratura. Ha scritto sprigionando il deserto, consegnando alla parola nitore di sabbia. E poi?, viene da dire. Chissà: forse si scrive per snodare le giunture al gesto. Sorprende che un’opera da cronachista del niente, da miniatore delle interrogazioni, di rabbi delle rivelazioni angolari, sia stata tanto chiosata, commentata, detta (da Massimo Cacciari e Maurice Blanchot, da Antonio Prete, da Jacques Derrida, da Jean Starobinski, “nessun poeta francese ha ricevuto un’attenzione critica tanto alta e continua come Edmond Jabès, che ha creato un nuovo e misterioso tipo di letteratura, tanto abbagliante quanto inspiegabile”, ha scritto Paul Auster, parecchi anni fa, nel 1977; Il libro delle interrogazioni, composto in oltre 1700 pagine è pubblicato, a cura di Alberto Folin, nella collana Bompiani del ‘Pensiero occidentale’). Quasi che fosse una morgana la nostra nostalgia di deserto.

Scrivere, d’altronde, è una malia, Jabès lo sa bene: mantiene in vita ciò che deve morire; aliena la vita nei codici della chiacchiera; cataloga alla legge del verbo; sancisce collusioni tra bestia e bestiario, tra aporia e apoftegma. Piuttosto, dovremmo fuggire: per questo l’opera di Jabès, letteralmente sovversiva, è una trincea tranciata dal demone dei termitai, sfogo candido sulla domanda ultima. Dicendo, di sé, l’ultima soglia, un brillio di carne, carovana di brividi.

Inesatto dare a Jabès del filosofo: come un talmudista dimentico del libro, nel sonno stellare, egli testimonia il suo mondo, infinito, con una dose scarsa di parole, disossando la narrazione a una inabilità di ombre.

Edmond Jabès è morto a Parigi, nei primi giorni del 1991, vent’anni fa; è nato il 16 aprile del 1912, di cui 2021 pare arcana ricorrenza, la copia ambigua. In questi giorni le Edizioni degli Animali pubblicano Dal deserto al libro, la “Conversazione con Marcel Cohen”, secondo la lingua di Franca Santini e Gianni Scalia (l’introduzione è di Antonio Prete), un libro essenziale, eccezionale, dacché Jabès ha scritto fino a farsi libro egli stesso, ininterpretabile. Tra le molte cose, dice questo: “È assurdo pensare che si possa scrivere partendo da una teoria. Scrivere è fare tabula rasa del sapere. Dirò di più: nessun sapere, nessuna certezza resiste alla scrittura. Tuttavia è sulla scrittura che appoggia la cultura. Perché lo scrittore non sa e perché non domina il suo soggetto, e in fondo non riflette che la sua vertigine, noi possiamo, come lettori, trarre partito dalla sua opera, interrogandola alla luce della nostra esperienza personale. Il mio lavoro in massima parte è consistito nel far entrare l’interrogazione del libro nei miei libri. Di opera in opera, tuttavia, come accettare il commento se non interrogandolo a sua volta? Di qui il fatto che se nei miei libri c’è progresso non esiste in realtà né partenza né arrivo”.

Più che altro, insegna a non proteggersi, a scavare sempre nella stessa petraia, in una apnea che provoca la scintilla, Jabès – come se puntare la penna significhi pugnalare lo zenit di Dio, l’angolo sinistro della sua veste.  

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Qui si ricalcano brani da “Le Parcours” (Gallimard, 1985)

…eppure, la conoscenza che crediamo nei nostri libri e non l’hanno. Non possiamo conoscere chi non si conosce.

Il libro si trasforma a misura di ciò che è scritto. Esistono, quindi, diverse versioni di uno stesso testo. Quale stiamo leggendo? La versione, per l’uomo, del libro illeggibile di Dio; la versione, per Dio, del libro invisibile dell’uomo? Traduciamo il decifrabile; leggiamo ciò che è trascritto. La scrittura attesta che c’è stata una lettura. Ne è la conferma vivente. E se la sovversione fosse la versione sotterranea di un libro da riscrivere, quello di Dio; una sotto-versione scritta contro tutte le altre? Dio non ha scritto. Per confonderlo, ha permesso all’uomo di scrivere.

Penso di non morire della morte ma della morte del pensiero. Scrivo per non morire la morte ma la morte del libro.

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Far progredire l’origine è la vocazione di tutte le origini.

La verità si racconta. È la storia di una vita. A ciascuno la sua verità, la sua recita inedita.

La morte non è più morte quando è scritta. È la vita unanime quella che prende e disperde. Da un abisso all’altro, il nostro è il percorso del libro; da una morte senza certezza alla certezza della morte.

Il nulla ha il nulla in risposta; Dio, come unico riferimento, Dio.

Per l’ebreo il punto di partenza si confonde con quello di arrivo. Entrambi sono in quel nome solitario: Ebreo. Prima e ultima parola del libro in cui tutto è sfacciatamente cancellato.

Esiste una scrittura di morte? La risposa è nella domanda Esiste un pensiero della morte? La morte è, ma come arrivarci se richiama la vita a morire? Tutta l’opera non è che l’eco dirompente di questa chiamata. Il Niente non crea che il Niente.

Possiamo inventare tutto, tranne il silenzio che ci inventa.

E se assenza fosse pensare il pensiero dell’assenza? Abbiamo avuto affari con lei.

Il libro di Dio è forse l’ossessionante progetto del libro che vogliamo realizzare con le parole che gli abbiamo prestato. Imbragati alla lettura dell’opera, non leggiamo che il disegno divino?

Edmond Jabès

Gruppo MAGOG