22 Luglio 2022

Gli editori hanno sputtanato il loro catalogo. Sia lode al “Pesanervi”

Ah, il catalogo!, passepartout dell’editore celestiale, Eden dei lettori, prelibato assenzio, l’evidenza della scelta ineluttabile, della “visione del mondo”, specie di elettrizzante credo. Ormai gli editori – quelli che hanno fatto l’editoria italiana, i grandi – si assomigliano tutti, si assottigliano verso le perverse ragioni del mercato (equazione che non fa una piega: si vendono sempre meno libri), a quattro zampe, tra latrine e latrati. Se proliferano così tanti libri sugli editori pionieri, di allora – Bompiani Story di Luca Scarlini, Inventare i libri. L’avventura di Filippo e Lucantonio Giunti di Alessandro Barbero, Senior Service di Carlo Feltrinelli, per dire –, ingenerosa germinazione, ciò significa che quelle imprese editoriali, progredite in mero marchio, in patetica griffe, vanno agonizzando, hanno perduto i blasoni dell’arcano passato. La storia diventa mito quando non ha più contatti con l’oggi, un oggi, appunto, dominato da schizofrenia cronachistica, bulimia retorica, manualistica a go-go; determinato, in sintesi, da troppi libri per lo più inutili, per tutti.

Così, per dire, un’editrice relativamente recente come La Nave di Teseo cresce scimmiottando Adelphi con esiti grotteschi: se quelli pubblicano l’opera omnia di Nietzsche questi editano le operette di Umberto Eco, se gli uni stampano le Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann gli altri insistono a pubblicare un politico come Dario Franceschini, per non dire di Carlo Calenda; quelli stampano i proclami di Zelensky gli altri Dialogo sul potere di Carl Schmitt; La Nave di Teseo scommette su cantanti scrittori come Ermal Meta, Adelphi preferisce i musicisti di genio, insiste con L’ala del turbine intelligente di Glenn Gould, un libro che dovrebbero leggere in molto, non solo i cantautori. Certo, l’editoria è sempre un sistema di relazioni, ma un conto è Milan Kundera che scrive di Hermann Broch che elogia Canetti, un conto Maria Grazia Calandrone che introduce il libro di Sonia Bergamasco che ha messo in scena il libro della Calandrone (entrambe bravissime, sia chiaro). Quanto agli scrittori italiani, viventi, non è detto, però, che Adelphi sia meglio de La Nave di Teseo.

Nulla di strano. Da anni le case editrici di massa, genuflesse all’ovvio per lettori caramellati nel diletto, sputtanano il proprio catalogo, per lo più inesistente. Chi legge un libro Bompiani o Feltrinelli o Mondadori perché appartiene a quel mondo, a quella paziente, ostinata, scostante poetica? Figuriamoci. Gli editori odierni risciacquano il proprio degradato catalogo, fatto di libri biodegradabili in pochi mesi, con l’ennesimo James Joyce. Si ri-traducono, cioè, sempre gli stessi grandi – spesso anglofoni: Orwell, Joyce, Eliot, Hemingway, spesso in ostaggio di un anniversario – riducendo il pantheon ai soliti noti, inibendo la ricerca, ormai impossibile, dacché il lettore, a prescindere, è un asino che vuole sempre la stessa biada, basta ridipingere la copertina.

Che fine hanno fatto, per dire, Jacques de Lacretelle, Nis Petersen, Alfred Neumann, Richard Aldington, William Heinesen, un tempo bene installati nella “Medusa”, la più importante collana edita da Mondadori? No, non si tratta di selezione naturale degli scritturi e delle scritture – leggere per credere; chi legge, d’altronde, rifugge dalle librerie canoniche, antri del convenzionale, preferisce le bancarelle sperdute, la scoperta del Graal librario – ma di mera incuria, calcolo delle probabilità di vendita, mercimonio del genio.

Detto questo, che fare? La formula più pratica è piangere sul tempo passato, perduto. Leggere Via privata di Valentino Bompiani (ristampato quest’anno da Ronzani) donerà al piagnisteo qualche carato di nobiltà. Che meraviglia carpire l’ombra di Marcel Jouhandeau, “un grande scrittore, forse intraducibile” – in Italia, in effetti, si continuano a tradurre i suoi nipotini meno audaci: Michel Houellebecq ed Emmanuel Carrère, ma cosa lo diciamo a fare… – e sfiorare il corpo mitomane di André Malraux, che “riceve come un principe del Rinascimento” in una villa al Bois de Boulogne, “sta nell’ambiente come in un acquario”, e dice della letteratura italiana tutto ciò che occorre sapere:

“Tutti o quasi gli scrittori italiani sono comunisti. Sono in ritardo di quindici anni. La cultura va diminuendo. Si dice che i bizantini fossero primitivi; non è vero, erano colti. Oggi gli scrittori rifiutano la cultura”.

Già. Poco propenso al piagnisteo, però, preferisco rilanciare. Stando nell’attico Bompiani: nel 1966 nasce una collana con il carisma del prodigio e dell’insolito, ovviamente snob. Si chiamava “Il Pesanervi” – dal titolo di un’opera di Antonin Artaud –, denuncia l’intenzione di sondare “i capolavori della letteratura fantastica”, da poco sdoganata (nel 1959 Sergio Solmi e Carlo Fruttero avevano elaborato per Einaudi una miliare antologia di racconti fantascientifici, Le meraviglie del possibile). Le copertine, elaborate da Franco Maria Ricci, sono visionarie, estremiste, nuove; i testi stampati spesso indimenticabili – Vathek di William Beckford, Il Golem di Gustav Meyrink, Lei di Rider Haggard, Melmoth di Charles Robert Maturin – a volte sorprendenti – Il museo nero di André Pieyre De Mandiargues, Nel castello di Argol di Julien Gracq, Pericolo di vita di Sarane Alexandrian, La montagna morta della vita di Michel Bernanos. Dietro le quinte, insieme a Ginevra Bompiani, lavoravano Juan Rodolfo Wilcock e Giorgio Agamben, per altro traduttore di alcuni libri (Lei, Il monaco di Lewis nella versione di Artaud, Il supermaschio di Alfred Jarry). Non si contano le collaborazioni speciali (Giorgio Manganelli, Guido Piovene, Dino Buzzati, ad esempio). Naturalmente, una collana del genere, callida, radicale, da carbonari, da lettori nei sottoscala, a deporre fuochi sui ruderi, non poteva durare nel magma delle sorti editoriali progressive: sfinì dopo cinque anni (ma il grosso si è stampato tra il ’66 e il ’68) e diciassette titoli. Il punto, d’altronde, non era vendere ma perimetrare una filosofia, un moto d’assedio, un modo di vivere.

Virtù velleitaria, fenomenologia del virtuosismo, apocrifa aristocrazia? Può darsi. In effetti, la faccenda editoriale si risolve, nel concreto, presto. Pochi autori vendono moltissimo; il resto è la reiterata guerra dei ratti, da lasciare, appunto, alla topaia degli scrittori senza polmoni, scoglionati. Tanto vale coltivare l’insolito e l’assoluto. Per farlo, però, ci vogliono poeti e avventati a guidare una casa editrice, mica contabili.  

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