
“La tirannia della bellezza”. Leonard Cohen, un racconto
Letterature
Leonard Cohen
Edgar Allan Poe conobbe James Russell Lowell – poeta, professore, critico – sul finire degli anni Trenta dell’Ottocento e, ricambiato, ne apprezzava l’opera. Nella classifica dei poeti americani di Poe, Lowell figurava “almeno al secondo o terzo posto”. “Contemporaneo e amico di Holmes e Longfellow, fu conservatore e aristocratico: mostrò tuttavia, al contrario di quelli, notevole interesse per i problemi sociali e politici del suo tempo. Appassionato lettore e bibliofilo, la sua attività di critico fu soprattutto opera di uomo di gusto, sensibile e intellettualmente avventuroso”, ci racconta la Treccani. Nel corso del 1840, Poe compose una serie di scritti critici richiamando l’attenzione su ciò che egli definiva la mediocre poesia derivativa di Longfellow, amico di lunga data di Lowell, incrinando dunque il proprio rapporto con quest’ultimo. Lo scontro consisté, almeno in parte in un conflitto di interessi in ambito politico, geografico e culturale; i due poeti del New England avevano espresso il proprio favore per il movimento abolizionista e per il Trascendentalismo, esaltando il didattismo come massima conquista della poesia, visioni a cui Poe si opponeva fermamente. La lunga poesia satirica di Lowell A Fable for Critics, deride la rigidità poetica elitaria e “antiquata” di Poe: “Si esprime come un libro in giambi e pentametri…/Ma il cuore pare essere stato in qualche modo del tutto soppiantato dalla mente”.
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New York, 2 luglio 1844
Mio caro Mr. Lowell,
Vi compatisco per “l’indolenza costituzionale” di cui vi rammaricate, poiché io stesso vengo perseguitato da tale peccato. Sono smisuratamente pigro e magnificamente industrioso, a tratti. Vi sono periodi in cui ogni sorta di esercizio mentale è una tortura e in cui nulla mi arreca piacere, se non una solitaria comunione con le “montagne e i boschi” – gli “altari” di Byron. Ho pertanto vagato e, inerte, sognato per mesi interi, svegliandomi infine, come pervaso da una mania di comporre. In questi casi scribacchio tutto il giorno e leggo tutta la notte, fino a quando il morbo perdura. Questo temperamento appartiene anche a Philip Pendleton Cooke, l’autore di “Florence Vane”, “Young Rosalie Lee” e di altri soavi versi; e non sarei sorpreso se fosse persino il vostro. Cooke scrive e pensa come voi, e, per giunta, mi è stato detto che gli rassomigliate di persona.
Non sono ambizioso, se non in negativo. Talora mi sento spronato a eccellere sugli sciocchi, unicamente poiché non sopporto che uno sciocco pensi di poter eccellere su di me. Fatta questa eccezione, l’ambizione non mi appartiene. Percepisco invero quella vanità di cui la maggior parte degli uomini si limita a ciarlare, la vanità della vita umana o temporale. Vivo in una perpetua fantasticheria del futuro. Non credo affatto nella perfettibilità umana. Ritengo che le prodezze degli uomini non produrranno alcun effetto rilevabile sull’umanità. L’uomo è oggi solo più attivo – non più felice – non più saggio di quanto fosse seimila anni fa. Il risultato rimarrà sempre immutato, e presumere il contrario equivale a ritenere che i nostri predecessori siano esistiti invano, che il passato non sia che la rudimentale forma del futuro; che la miriade di uomini estinti non abbia vissuto su uno stesso piano rispetto a noi, né noi rispetto alla nostra posterità. Non posso accettare di smarrire l’uomo individuo nell’uomo come massa. Non credo nella spiritualità. Credo che il mondo non sia che un semplice mondo. Nessuno possiede una vera concezione dello spirito. Non siamo in grado di immaginare cosa non è. Ci inganniamo con l’idea di una materia estremamente rarefatta. La materia sfugge ai sensi per gradi; una pietra, un metallo, un liquido, l’atmosfera, un gas, l’etere luminoso. Al di là di tale etere, vi sono ulteriori e più rare trasformazioni. Tuttavia, a ognuna di esse noi applichiamo la definizione di combinazione di particelle, composizione atomica. Per questa ragione sola riteniamo che lo spirito sia diverso; poiché lo spirito, noi diciamo, è privo di particelle, e pertanto non è materia. È però chiaro che proseguendo con la nostra idea di rarefazione, arriveremo a un punto in cui le particelle si fondono; poiché, pur essendo esse infinite, l’infinità di minutezze nello spazio che le separa è esorbitante. La materia priva di particelle, che permea e spinge ogni cosa, è Dio. La sua attività è il pensiero di Dio – che crea. L’uomo e gli altri esseri pensanti sono l’individualizzazione della materia priva di particelle. L’uomo esiste come “persona” poiché è rivestito dalla materia (materia particellare), che lo rende individuo. Perché rivestita, la sua vita è rudimentale. Ciò che noi chiamiamo “morte” è la dolorosa metamorfosi. Le stelle sono l’involucro degli esseri rudimentali. Se non fosse per le necessità della vita rudimentale, non esisterebbe alcun mondo. Alla morte, il verme diventa farfalla, ancora materiale, ma composto di una materia non riconosciuta dalle nostre viscere, riconosciuta, occasionalmente, chissà, da un mesmerizzato, direttamente – senza viscere – per mezzo del medium. Dunque un ipnotizzato potrebbe vedere i fantasmi. Privato del rivestimento rudimentale, l’essere risiede nello spazio (ciò che ipotizziamo essere l’universo immateriale), passando attraverso ogni luogo, e impersonando ogni cosa, per pura volizione – conscio di ogni segreto, fatta eccezione per la natura della volizione di Dio – il moto, o l’attività della materia priva di particelle.
Parlate di “una stima della mia vita”, e dalle mie parole avrete compreso che non ne posseggo alcuna. Una coscienza troppo profonda della mutabilità e dell’evanescenza di tutto ciò che è temporale mi ha impedito di dedicare un impegno continuo a qualcosa – di essere costante in qualcosa. La mia vita è stata un vezzo – impulso – passione – un desiderio di solitudine – un disprezzo di tutto ciò che è presente, in un autentico desiderio del futuro.
Mi entusiasma profondamente la musica, e talune poesie: quelle di Tennyson in special modo, che, insieme a Keats, Shelley, Coleridge (occasionalmente) e pochi altri dotati di eguale lucidità ed espressione, sono, a mio avviso, i soli poeti. La musica è l’affinamento dell’anima, o l’idea della Poesia. La leggiadria e l’esultanza suscitate da un’aria soave (che dovrebbe essere totalmente indefinita e mai vigorosamente allusiva) è precisamente ciò a cui dovremmo mirare in poesia. Il manierismo, entro i limiti, non è dunque un difetto.
Convengo sempre con Dickens… Ebbi due lunghi colloqui con Dickens mentre si trovava qui. Pressoché ogni elemento della critica io l’ho udito da lui o suggerito a lui personalmente. La poesia di Emerson gli fu letta da me.
Sono stato così negligente da non conservare copie dei miei volumi di poesie (non che fosse alcuno degno di essere preservato). I migliori passaggi sono stati scelti dall’articolo di Hirst. Considero le mie poesie migliori: “Lei dorme”, “Il verme conquistatore”, “Il castello incantato”, “Peana”, “Lenore”, “Dreamland” e “Il Colosseo”; tuttavia si tratta di opere affrettate e sconsiderate. I miei racconti più belli sono “Ligeia”, “Lo scarabeo d’oro”, “I delitti della Rue Morgue”, “La caduta della casa degli Usher”, “Il cuore rivelatore”, “Il gatto nero”, “William Wilson” e “Una discesa nel Maelström”. “La lettera rubata”, la cui pubblicazione è imminente in Gift è forse il migliore tra i miei racconti di raziocinio. Di recente ho scritto, per Godey, “La cassa oblunga” e “Sei tu il colpevole”, ancora inediti. Con la presente vi spedisco “Lo scarabeo d’oro”, l’unico dei miei racconti che ho per le mani.
Graham possiede, da ormai 9 mesi, una mia recensione di “Spanish student” di Longfellow, che ho ‘usurato’ e in cui ho esposto alcuni tra i più grossolani plagi mai perpetrati. Non conosco il motivo per cui non sia stata ancora resa pubblica. Immagino che Graham intenda includere My Life nel numero di settembre, che sarà terminato entro il 10 di agosto. Il vostro articolo è atteso appena possibile.
Il vostro fedele amico
E. A. Poe
*La lettera è tratta da: “The Portable Edgar Allan Poe”, a cura di J. Gerald Kennedy, New York, 2006; la traduzione italiana è di Valentina Gambino