09 Ottobre 2018

Ecco le 10 canzoni da imbarcare sull’arca di Noè: da “Space Oddity” di David Bowie ai Pink Floyd passando per Shigeru Umebayashi. Fate il vostro gioco boys…

Le lezione americane sono sei, e su questo non ci piove. Le ha dette (e scritte?) Italo Calvino, proprio agli sgoccioli della vita. Il resto – Coca Cola, patate, “Baywatch”, wrestling, basket, tabacco, pomidori, Dan Peterson e il burro di arachidi – è solo un corollario, qualcosa di superfluo. Anche nella poesia, poca roba. Per non dire della musica: ok Elvis e quattro altri saltimbanchi, ma niente a confronto con quello che è nato in Europa.

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Lei è statunitense ovviamente. Né bella né brutta: semplicemente statunitense. È italiana, in realtà, ma per via che fa la musicista, passa diversi mesi all’anno negli USA e quindi i suoi connotati sono cambiati: è yankee. Ha gli zigomi americani. E mi augura di annegare: non toccategli Elvis, il burro di arachidi, le trasmissioni televisive, Central Park, Broadway e tanto altro ancora che non sono riuscito a tradurre. Perché quando si incazza, quando ci si incazza, si parla velocemente e l’italiano diventa sempre dialetto. Ci si arrabbia in vernacolare, non ci sono santi che tengono. Una crasi tra americano, pugliese e qualcos’altro che non riesco ad afferrare. Un rubinetto aperto, una diga, un Vajont di parole liquide, che scivolano via.

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Chi fa l’artista ci crede, ed è perlopiù permaloso, e spesso poco obiettivo. Una forma di solipsismo incurabile: la sua verità, le loro verità sono sempre più vere e onniscienti di quelle degli altri. Ho ascoltato il suo cd, eseguito in lingua anglofona. La dovrei intervistare, ma trovo più interessante – sempre – quello che non viene scritto sul bloc notes. Quello che accade nei fuori onda, quando escono le cose più vere.

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Mi augura, in italiano, un accidenti meraviglioso: io e la mia Venezia dobbiamo essere sommersi dall’acqua alta. Sa che ci ho vissuto, due o tre vite fa, più o meno dal 3 al 17 anni. E sa che l’antica Serenissima, assieme ad Asiago, sono le mie due “matrie”. Ma non un temporale: un diluvio vero, tipo quello di Noè. Le dico che i veneziani fanno le regate e vogano. E che, per stringente necessità di sopravvivenza, sanno nuotare. Le chiedo se mi concede un’arca.

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Il suo viso si fa acuto, si allunga come quello di un levriero. “Va bene, ma non pensare di occuparla tutta con le tue cose inutili: libri, pieghevoli di spettacoli teatrali che vedi solo te, mug, sciarpe, eccetera”. Concordo per l’indispensabile. “Un po’ di musica?” le chiedo. Accetta. “Ma solo 10 canzoni” mi dice, con aria di sfida. Ovviamente il suo cd, i suoi cd, non li salvo. Lo sa bene. Sa che non mi piace quello che fa. “Sei troppo snob, troppo di nicchia per capire certa arte” aggiunge. “Troppo borghese”. Vorrebbe che la chiusa avesse l’effetto dell’iceberg sul Titanic. Mi scanso un poco, ma senza farmi vedere. Mancato in pieno. Ora la priorità è quella di caricare solo l’indispensabile, che in questo caso sarà anche invisibile agli occhi ma deve essere ben sentibile alle mie orecchie. E alle sue.

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Niente musica americana. Lo sa e glielo ripeto. La tentazione è forte: come lasciare in pasto ai pesci Bob Dylan, Jim Morrison, Bob Marley, i Beach Boys, i Velvet Underground? Ma mi devo salvare, e soprattutto non voglio che lei mi lanci un salvagente. Ci penso, tergiverso, poi lancio l’àncora. Ancòra una volta a cercare un insulto in più, una provocazione. Perché anche lei, prima o dopo, su un’arca ci deve salire. Per salvarsi, o per andare in America. Tipo il “Virginian” di Alessandro Baricco, “Novecento”, roba buona. Le suggerisco di leggerlo. Lei abbassa gli occhi, cerca su Google qualcosa. Poi mi snocciola una frase: “Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò”.

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Io sulla nave ci devo salire. Mi devo salvare. Sorride, le piace questo gioco. Prendo “Novecento” in edizione cartacea, quello che Eugenio Allegri e Alessandro Baricco mi hanno firmato. “Il mondo, magari non lo aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima”.

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Il cielo tuona, allampa. Temporale di settembre, Rimini. Saluto con il fazzoletto in mano e in tasca dieci canzoni. Gliele scrivo in un foglietto. “Leggilo quando torni a casa”. “Lo farò in volo, promesso. Parto tra tre giorni, il tempo non mi manca”. Ci salutiamo in maniera normale, l’intervista gliela farò quando ha finito il suo nuovo cd: prima lo voglio ascoltare.

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“La prima me l’aspettavo: ‘I’m the walrus’ di John Lennon è un gran pezzo. Te la concedo anche se non mi tolgo dalla testa che ti piaccia per i riferimenti a Lewis Carroll e per il non-sense. Alice è un’invenzione, il tricheco no. Alice è una tua fantasia. Solo una tua fantasia”.

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“Hai giocato facile con ‘Shine on you crazy diamond’ dei Pink Floyd. Per me puoi portarla sull’arca perché l’hai sentita dal vivo quando i Pink Floyd hanno fatto il concerto a Venezia nel 1989 e poi perché è lunga, così il tempo ti passa meglio”.

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“Nick Drake? Insolito. Però ‘Nothern sky’ è bella anche se malinconica. Io non l’avrei scelta, però quello che si deve salvare sei tu. Un consiglio, Ale: esistono tanti altri posti bella da visitare e ascoltare, oltre (al)la Gran Bretagna”.

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“Appunto: ‘Space oddity’ di David Bowie. Sei per mare, non nell’universo-spazio. Avrei detto ‘Life on Mars?’, ma evidentemente non ti conosco abbastanza. Apprezzo la scelta comunque, e te la faccio salire sull’arca così puoi immaginare le stelle”.

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“Una scontata, finalmente: ‘Stairway to heaven’ dei Led Zeppelin. Sai che non l’hanno mai fatta dal vivo? O quasi mai, e se l’hanno fatta io non ero ancora nata. Comunque a calare assi, alla fine in mano ti rimangono le scartine, le carte che valgono poco e che servono per prendere tempo”.

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“Onesta: ‘Angel of the air, part 2’ dei Popol Vuh non la conosco. L’ho cercata, e ti dico boh. Nei hai dieci da salvare, e mi scrivi di un pezzo di musica progressive, tedesca perlopiù, degli anni Settanta. Discrete sonorità ma tristi come le stradine d’inverno quando piove. Non è mia ma di Pessoa. C’è di meglio, molto di meglio”.

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“Intanto Shigeru Umebayashi non è europeo ma orientale: non barare.Yumeji’s theme’ del filmIn the mood for love’ è il tuo lato sensuale, che hai quando parli anche se non si vede. Ti servirà sull’arca, credimi: sei a rischio di estinzione”.

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“Jun Miyake è nato il 7 gennaio come te: è un caso? Anche lui giapponese quindi non sono sicura che tu possa portartelo dietro. È contrabbando allo stato puro, e non pensare che la canzoneLilies of the valley’ possa passare come ‘europea’ solo perché è stata inserita nello spettacolo ‘Vollmond’ di Pina Bausch”.

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“Fabrizio De André è una cosa che ti appartiene, come le sciarpe che indossi tutto l’anno, o il tuo profumo, ‘Le male’ di Gualtier. A me non piacciono entrambi, però ‘Bocca di rosa’ è una bella storia, come ‘Il gorilla’, che poi, come mi hai spiegato tu, è di George Brassens. Quindi scegli: Sant’Ilario o il giovane giudice con la toga. Tutti e due no, anche perché ti ho detto dieci canzoni, non una di più”.

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“Anche ‘I due fiumi’ di Ludovico Einaudi fanno parte del tuo outfit. Non sono d’accordo con te sull’interpretazione che gli dai, quella della storia di due innamorati che si cercano ma non si incontrano mai. Ogni fiume arriva al mare, e tu dovresti saperlo”.

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Mi ha scritto che è atterrata e che ha sorvolato l’Oceano Atlantico in aereo. Chissà se in volo ha visto un puntino nel mare, un’arca che batte bandiera veneta. “Vedi cara”, la risposta soffia ancora nel vento. E il vento spinge le vele delle barche.

Alessandro Carli

 

 

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