Questo è il disco che – senza saperlo – aspettavo da anni.
Anni di tanto indie slavato la cui caratteristica principale è una incurabile cachessia.
Nel maelstrom della scena indipendente italiana, non c’è nulla infatti che suoni come l’esordio dei Ferormoni.
Un oggetto alieno eppure perfettamente godibile; e non è ozioso o banale dirlo: in Un segno più forte la sperimentazione si coniuga a una rara sensibilità pop (a questo proposito ascoltatevi Sentimento nudo con il suo irresistibile refrain strumentale) come poche altre volte si è ascoltato negli ultimi tempi.
Un segno più forte ha la coesione tematica del concept album; l’umanità raccontata nelle liriche dell’autrice Monica Marini è una umanità che ha appena compiuto il passo finale e che, splendida, muore dietro vetrine scintillanti. E sono queste vetrine, imposte o cercate, le case e le tombe che ci spettano. Una decomposizione in bella vista, sì, ma quanto ritmo! L’afflato lirico della Marini non ha cedimenti, mantenendosi sempre su altezze cristalline e talvolta vertiginose.
La produzione di Tommaso Crisci – che suona tutti gli strumenti, dalle chitarre ai sequencer – è sontuosa senza però essere ridondante. Intellettuale senza essere snob. Si spazia dai ritmi sudamericani (Tangata, tra Gotan Project e Tuxedomoon) alla dance di derivazione new wave (Armi di distrazione di massa). Ma lo spettro stilistico è così ampio che è difficile fare riassunti.
Al felice melodismo strumentale si accompagna una attenzione maniacale per le sottotrame sonore: dalle svisate quasi jazz agli stridii di una elettronica già divenuta altro, non più metafora ma Caronte casuale e incosciente. Nocchiero a condurre dove? Ozioso porsi queste domande.
Il tempo dei Ferormoni, così come la loro musica, è circolare: accompagna senza predire, mostra senza didascalie.
Monica Marini è una Cassandra che ha perso la preveggenza a favore dell’Intuizione – e alle sue liriche, come udite nell’anticamera di chissà quale oltretomba, non possiamo chiedere di meglio.
Resterà Un segno più forte. E lo scrivo mettendo i piedi sul tavolo. Tra i migliori esordi – per equilibro, compattezza e creatività – del decennio in corso.
Gabriele Galloni