14 Dicembre 2020

“Abbiamo costruito un mondo da catastrofe”. In memoria di Friedrich Dürrenmatt

La luce debole di un frigorifero datato, spalancato dal braccio robusto di un corpo senza testa, ben piantato a terra, osservato dall’altra parte dal capo mozzato, dall’ampia stempiatura e il collo raggrumato di sangue scarlatto, che trasuda delittuosa oscenità sul bianco ghiaccio della griglia d’appoggio, mentre le labbra cianciano queste parole beffarde: “Bentornato, Grande Vecchio”. Un ghigno macabro. L’uomo che si beffa di Dio. Così mi piace immaginare Friedrich Dürrenmatt, Lazzaro resuscitato. Lazzaro sui generis, come si addice allo stile del drammaturgo e narratore svizzero. Il Grande Vecchio è Dio, personaggio un po’ super partes nell’opera La valle del caos di cui si discorre frequentemente tra una domanda e l’altra del ciclo d’interviste, a cura di vari giornalisti del tempo, realizzate pochi giorni prima della morte di Dürrenmatt, avvenuta il 14 dicembre di trent’anni fa, e inserite nella raccolta Über die grenzen, edita, al tempo, dalla casa editrice Pendo-Verlag. In Italia è stata pubblicata da Marcos Y Marcos nel lontano 1993, con il titolo Oltre i limiti. I limiti sono quelli oltrepassati dall’umanità, dispersa nel labirinto del progresso tecnico-scientifico in continua espansione, di cui già allora Dürrenmatt ravvedeva gli eccessi sconsiderati, e nondimeno metafora dei confini valicati dal drammaturgo e narratore svizzero nella sua affannosa ricerca di una storia sempre nuova, di uno squarcio visionario sul presente e sul futuro, in un’epoca, quella del secolo andato, macchiata dal crollo definitivo delle ideologie, e dallo spettro della distruzione delle identità, conseguente alla caduta del muro di Berlino, la nota striscia della morte. Basti pensare, per comprendere la lucidità di visione di Dürrenmatt, come rispose acutamente, durante l’intervista del 7 dicembre 1990 a cura di Sven Michaelsen, redattore culturale del giornale amburghese Stern, alla domanda riguardante il Nobel per la pace Michail Gorbačëv, “Ritiene che abbia delle chance?”: “Andrà a finire nel caos. Gorbačëv è una figura folle, un giocatore di scacchi che crede sia arrivato il suo turno, che la prossima mossa tocchi a lui, mentre le sue mosse saranno determinate da altri giocatori. Rassicura ben poco che il KGB sia l’unica cosa ancora funzionante. Nel suo libro Gorbačëv ha affermato di volere “un uomo nuovo”. Ho rizzato le orecchie. Ho pensato, per carità di Dio, tutti i dittatori erano a caccia dell’uomo nuovo”.

La politica come illusione. In effetti, nonostante tutte le innovazioni apportate da Gorbačëv, inizialmente come Segretario generale del partito, dalla liberazione dei dissidenti alla battaglia per la trasparenza e per la ricostruzione economica, e poi il Nobel per la pace come Presidente dell’URSS, il suo mandato durò fino al 25 dicembre 1991, quando, in seguito al golpe ordito da parte delle repubbliche sovietiche e dai membri conservatori del governo, fu costretto a dare le dimissioni. Chissà cosa penserebbe oggi il narratore svizzero di un leader cinico e risoluto come Vladimir Putin, del suo peso in Russia e del suo controllo in Siria, sua roccaforte nel Mediterraneo. Tornando all’intervista di Stern, vediamo Dürrenmatt discorrere di politica, della Svizzera e del suo rapporto ormai incrinato con il connazionale Max Frisch, anche lui narratore prolifico, e di cui è bene ricordare il romanzo Homo Faber, in linea con alcune delle tematiche romanzesche sul ruolo del cosiddetto zufall nella vita, ovvero il caso, la coincidenza, e il conflitto tra uomo e società, tra la brevità dell’esistenza e l’eternità apparente della tecnologia. Un piccolo accenno riguarda anche il diabete, il morbo che assillò lo scrittore svizzero fino alla morte, la stanchezza di fondo della malattia e di come solo la scrittura lo aiutasse ad affrontare questa stanchezza. Dürrenmatt, tuttavia, si dichiara un uomo vitale, e alla domanda se abbia paura della morte, risponde: “Non più. E penso che per un uomo sia un fatto essenziale che deve morire. Da un punto di vista biologico, è un grande passo avanti rendersene conto. Gli animali ad esempio non raggiungono questo grado di coscienza. Occuparsi della morte costituisce una delle radici della cultura. Per paura della morte abbiamo creato un aldilà, abbiamo creato gli dei, abbiamo creato Dio, tutta la nostra cultura è una specie di edificio che si oppone alla morte”.

Inevitabile per gli amanti del cinema di Wim Wenders non ricordare il finale di Lo stato delle cose, Leone d’oro a Venezia, in cui Friedrich Munro, il regista protagonista della storia, interpretato dall’attore Patrick Bauchau, pur lasciando scivolare tra le sue braccia il produttore Gordon, appena colpito a morte alle spalle, gira incurante la scena attorno a sé, per filmare i suoi sicari. Il tempo di una ripetuta ripresa panoramica e cade a terra, a sua volta, colpito da uno sparo allo sterno. La cinepresa è ancora stretta tra le mani come un’arma, a filmare la morte, figurarne la catarsi. Un film nel film, perché “La morte è la più grande storia di tutte”. Per Dürrenmatt, anche letterariamente, è necessario che l’uomo muoia, è la fine più corretta. Della sua visionarietà ha dato prova in molte sue opere, per quanto meno, forse, e a ragione, nei suoi primissimi gialli, e tanto invece in racconti come La guerra invernale del Tibet, Il tunnel e La panne, come nei romanzi successivi, quelli seguiti alle indagini del commissario Bärlach. La promessa restail suo romanzo più maturo e stilisticamente coerente, un vero requiem per il romanzo giallo tradizionale. Di Dürrenmatt, oltre alla sua capacità di smascherare le meschinità piccolo-borghesi della società svizzera, è facile amare anche le digressioni ideologiche, socio-economiche e scientifiche, la divagazione filosofica, teologica e astronomica, il concentrato di pensiero, come piccolo “seme” di una Matrioska, piccola verità di una storia più grande. Per dare conto della sua capacità profetica di Cassandra, basti apprendere la sua risposta alla domanda di Sven Michaelsen, su cosa intendesse sostenendo che ogni opera d’arte dovrebbe contenere qualcosa di apocalittico: “Abbiamo costruito un mondo da catastrofe. Un addetto di laboratorio distratto può causare l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche, un programmatore assonnato può causare un errore di programmazione nel computer del Pentagono, a un tecnico o a un ingegnere genetico possono sfuggire delle colture di virus – la nostra strada porta dritto a un mondo di pannes apocalittiche. Per questo la letteratura deve chiedersi se l’umanità non si trovi in una crisi evoluzionistica e stia andando verso la propria fine”.

Magari verso la propria fine, no, ma verso l’obliterazione del suo antico senso di umanesimo, di fede e cultura umana, sì.A tal proposito, nel secondo colloquio con il giornalista Michael Haller, interpellato sulla brutalità dei personaggie sull’aspetto cinico e grottesco del suo romanzo La valle del caos, lo scrittore di Konolfingen spiega come il cinismo sia solo un punto di vista e come la sua scrittura, diversamente da quando si fa reinterpretazione del mito, tenda a farsi scanner della realtà, pur attraverso la potente lente dell’immaginazione: “Se si tratti di cinismo o meno, è come sempre questione di punti di vista. Personalmente non trovo cinico quel libro. Molte delle cose che ho scritto si sono poi avverate. Per esempio la casa di cura, il luogo dove si svolge la maggior parte degli avvenimenti del libro, ebbene, l’originale era una casa di cura in Engandina dove mi era capitato di andare un paio di volte. Al termine del mio romanzo la casa di cura va in fiamme. Avevo appena terminato di scrivere quel libro, e la casa di cura è andata davvero in fiamme. Mia moglie ha anche scattato delle fotografie ai resti di quell’incendio, una cosa incredibile! Naturalmente l’incendio era doloso: il fabbricato era assicurato per 36 milioni di franchi”.

Il libro, similmente al Libro di Giovanni, finisce nell’Apocalisse, e il rogo fa ingresso nel villaggio del mondo. Il cinismo è solo un punto di vista. Eppure dietro la responsabilità dell’autore, del suo processo di scrittura senza fine, della sua triplice attività nel campo del teatro, della narrativa e della pittura, del suo rifiuto di rimanere completamente attaccato alla terra, divagando tra i suoi scritti persino di corpi celesti, permane l’ombra di un cinismo di fondo. Ne danno fortissima impressione le parole rilasciate durante l’intervista dell’emittente televisiva svizzera SRF, nel 1978, su uno degli aspetti meno conosciuti della sua vena creativa, ovvero la pittura, attività nell’esercizio della quale Dürrenmatt si dichiarava, già a quel tempo, un autodidatta: “Penso che il periodo della pittura che si focalizza sui bei colori, sugli esseri umani felici e sull’estetica appartenga al passato. Così come nella scrittura, anche nella pittura non vi è più spazio per il sacro. Sul sacro possiamo farci una croce sopra”.

Parole forti, che tuttavia non sembravano celare una provocazione, quanto, una presa di responsabilità nei confronti della realtà, ovvero nei confronti di quel mondo che lo scrittore-pittore Dürrenmatt vede esposto a un continuo pericolo. Provando, oggi, a stabilire un nesso con il pensiero dell’autore e a dare uno sguardo all’arte contemporanea italiana, in qualche modo sul solco della tradizione passata, e in particolare alla pittura di due artisti significativi come il pugliese Roberto Ferri, classe 1978, e il veneto Saturno Buttò, classe 1957, il primo dalla forte impronta caravaggesca e neoclassica, il secondo dalle diverse influenze, non si può non considerare il modo in cui essi rimeditano il passato e trasgrediscono il senso del sacro. Una poetica pittorica che si pone a cavallo tra sacro e profano, tra mito ed eros, tra religione e carnalità, dove, come nel caso di Ferri, il pittore ci trasporta in una realtà di sogno, popolata da forze oscure, quasi diaboliche, o come nel caso di Buttò, l’artista ci trasmette un senso di decadenza e disfacimento, dove la bellezza è al contempo oggetto di culto e raffinato scandalo. Alla luce di queste riflessioni, possiamo affermare che il sacro permane nell’atto dell’artista, nel fuoco demiurgico. Così, per Dürrenmatt, lo sguardo crudo sulla realtà sembra essere quello di un profeta del caos, che attraverso la pittura spesso enfatizza quel finis apocalittico già raccontato nei suoi scritti.

Sistematicamente diverso è il legame con la filosofia, di Kierkegaard, di Nietzsche, e altri pensatori, da cui l’autore attinge prolificamente, per affinare il suo sguardo sulla vita, sui miti e sui principi di azione degli uomini, per determinare le storie e le contro-storie, attraverso cui si muovono i personaggi. L’uomo resta un mistero alla luce del sole, ascoltarlo nell’intervista dell’emittente televisiva SRF, con quel suo fermo timbro di voce Berndeutsch, il dialettotedesco di Berna, affascina ancora oggi. Il suo sguardo da rapace sornione incanta. Poiché non è possibile contenere, in un passo, l’intero pensiero di un romanzo, né il piglio da cosmologo dello scrittore, ma è possibile, invece, in un pezzo compiuto, per quanto breve, contenere la lucidità di pensiero di Friedrich Dürrenmatt, il suo essere fuori dagli schemi, il suo sguardo feroce, sardonico, ricordiamo qui, con l’approssimarsi del Natale, un brevissimo racconto. Si tratta del racconto di apertura Natale, dell’edizione dei Racconti edito da Feltrinelli, nella traduzione di Umberto Gandini, che in qualche modo ricorda, in parallelo, nel suo senso di desolazione, il visionario racconto Un cittadino di Carcosa, datato 1886, dello scrittore americano Ambrose Bierce. Fu scritto nel 1942, in pieno conflitto mondiale. Vi si dipinge, a rapidi tratti, la scomparsa di tutto, dell’uomo, di Cristo, di Dio. Da tempo a questa parte, potevamo, forse, imbatterci in un Natale più illogico e apocalittico di questo 2020?: “Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L’aria era morta. Non un movimento, non un suono. L’orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L’aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l’aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii”.

Alessandro Corso   

Gruppo MAGOG