07 Maggio 2024

Sull’importanza delle droghe nelle tradizioni religiose

Alicudi è un’isola dell’arcipelago eoliano, nel cuore quindi di quel Mediterraneo nel corso dei secoli culla e centro di diffusione d’una vasta parte del nostro passato. Un passato tuttavia che a guardarlo bene resulta oltremodo opaco sotto molti aspetti, ma che un recente libro, insieme ad altri dei quali diremo, può contribuire a schiarire, dandoci l’occasione per trattare di vaste screziature insospettate e insabbiate dalla ricerca storiografica religiosa.

Alicudi e la segale cornuta (Meltemi) di Tommaso Ragonese, studioso di filosofia formatosi nella patria della filosofia analitica e, con questo libro, anche antropologo, è un’abile e informata inchiesta svolta sia sul campo, sia per mezzo di solida documentazione, sul ruolo svolto nell’insorgenza d’un nucleo di miti e visioni analogo ai molti che anche attorno al mare tra le terre nei millenni sono scaturiti.

Ragonese precisa già in antefatto di essere scettico circa l’effettiva relazione tra fungo e fenomeni extra-normali (un tempo si sarebbero detti «occulti» o «paranormali») e le finali considerazioni, pur «inconclusive», paiono mettere la parola fine a tale ipotesi, fine che quasi giocoforza pare estendersi anche ad altri contesti. Tale scetticismo sembra abbastanza motivato; ma esso, a mio giudizio, può valere solo per Alicudi, su cui in effetto Ragonese si dimostra un’autorità indiscutibile, ma per nulla estensibile altrove: anzi.

Per decenni gli storici delle religioni hanno o negato oppure taciuto tutto circa l’influenza di sostanze psicotrope nella genesi di credenze, miti, misteri etcoetera, facendosi beffe di chi avanzasse simili ipotesi, quando, con ovvia difficoltà, in qualche modo l’ipotesi fosse emersa.

I motivi di tale attitudine sono molteplici, a principiare dalla resistenza davanti a studi reputati “non scientifici” da chi, ovviamente, si sente detentore degli unici criteri d’indagine. Epperò il divenire fa talora giustizia, sicché nel corso del XX secolo, in ispecie nella sua seconda metà, non pochi sono stati coloro i quali hanno approfondito la negletta ipotesi, e con documenti intuizioni e riscontri non meno eloquenti di quelli ufficiali.

È il caso ad esempio di R. Gordon Wasson – insieme a Carl A. P. Ruck e soprattutto ad Albert Hofmann, l’inventore dell’Lsd – la cui Strada per Eleusi. Alla scoperta del segreto dei Misteri, serissimo e sorprendente, fa il paio con il più disinvolto ma non meno auscultabile Il cibo per gli dèi. Alla ricerca del vero Albero della Conoscenza di Terence McKenna, entrambi capisaldi ctonii dell’indagine ora rimessi in circolo dal piccolo ma valido editore Piano B, e che si pongono quali pietre miliari d’una ricerca religiosa qui libera dalle polverose e strette maglie dell’accademismo.

Wasson e McKenna portano ciascuno una tesi differente, anche nell’intenzione, ma in fondo assai simile e secca: certe sostanze psicotrope naturali erano conosciute dalle popolazioni già in antichità e in diverse aree del globo e venivano normalmente adoperate quali adiuvanti, quando non detonatori, delle esperienze mistiche e spirituali ed ebbero notevole ruolo nella fondazione di alcuni aspetti centrali delle singole religioni. Tesi sostenute anche da Élemire Zolla e da altri studiosi extra-accademici – ma non per questo, anzi il contrario, meno preparati e severi d’un Eliade o d’un Pettazzoni (per citare due auctoritas estremamente abili a eludere del tutto la questione) – attraverso documenti incontestabili che possono aiutare a riscrivere in gran parte la storia delle religioni non solo dell’Eurasia ma di tutto il pianeta e a principiare financo dagli albori dell’umanità.

In controtendenza con l’andazzo universitario e a riprova, posto che ce ne fosse bisogno, che Wasson e consimili non erano alla loro volta sotto effetto di droga, c’è il gruppo di lavoro che ha dato vita a uno splendido libro dedicato alle Piante magiche (Le Lettere), che tra gli altri non esclude ad esempio proprio Wasson.

Le piante magiche inoltre estende lo spettro visuale toccando ambienti che solo gli ultimi decenni, per ciò che riguarda il generale studio delle religioni, hanno visto aumentare traduzioni ricerche e pubblicazioni. Esempio quasi canonico è senz’altro il manicheismo, una religione durata all’incirca mille anni e che, partita dalla Persia, si estendeva dal cuore dell’Asia insino all’Africa settentrionale, bestia tra le più nere e del cristianesimo e dell’islam – che contribuirono, insieme alle carenze interne della medesima, alla sua estinzione – a causa dell’estremo dualismo luce-tenebre. Neppure i suoi grandi pionieri ed esperti, quali un Puech, un Tardieu, un Widengren, un Gherardo Gnoli videro o, inutile spiegarne ancora i motivi, vollero vedere la quasi certa funzione di sostanze “magiche” nella pratica liturgica.

Questo studio, anche “solo” per volume di documentazione, sarebbe sufficiente a portare al centro della discussione pubblica su origine e sviluppi delle religioni e delle credenze l’ipotesi che stiamo vedendo.

Una sorta di prova del nove della funzione perspicua delle sostanze psicotrope si ha per diretta inferenza attraverso alcune opere frutto tanto di indagini informate d’acribia, quanto di personali sperimentazioni, i cui resoconti dovrebbero suscitare fortissimi sospetti, tali e tante sono le analogie e talora identità delle esperienze qui attestate con quelle raccontate e tramandate dalle religioni, tradizionali o meno. Oltre a Lsd. Il mio bambino difficile del citato Hofmann, ci si riferirà al “trittico” di Aldous Huxley Moksha, Paradiso e Inferno e Le porte della percezione (di recente ristampati da Mondadori), oppure agli Avvicinamenti di Ernst Jünger, il quale ultimo ebbe diretti rapporti ancora con Hofmann.

Huxley è un autore significativo in tale direzione, dacché i suoi esperimenti con la mescalina seguono a una delle sue opere più importanti e meno lette, cioè a dire La Filosofia Perenne (Adelphi), la quale, oltre a una vastissima erudizione, mostra un interesse per la spiritualità religiosa di impronta mistica affatto differente da quello di ambiente accademico. Per Huxley era questione di toccare con mano l’esperienza, ossia di farla uscire dal dominio intellettuale, ciò che fu anche per Zolla.

Se Huxley possa da qualcuno pur essere tacciato di essere solo un ricco eccentrico influenzato dal clima degli anni Sessanta e Settanta – come mi è capitato di leggere senza che i berciatori tenessero in conto che egli parlava di certe questioni già negli anni Trenta e Quaranta, quando, peraltro, a dispetto della percezione comune e anche di certi così detti colti, le droghe non erano affatto ignote, anzi – del tutto a mio giudizio estraneo a qualsivoglia sospetto è senz’altro Michael Pollan, autore noto ai più per l’ormai classico Il dilemma dell’onnivoro. Gli ultimi due suoi lavori – Come cambiare la tua mente e Piante che cambiano la mente (Adelphi) – sono indefettibile e intelligente fusione di inchieste in perfetto stile anglosassone e di esperienze personali, con l’aggiunta sapiente di riflessioni più o meno conclusive circa la funzione delle sostanze psicotrope negli ambienti variamente religiosi.

Se poi non bastasse questa colonna di opere, il lettore scettico troverà soddisfazione ad esempio presso l’opera di Castaneda nei lavori di Timothy Leary.

Purtroppo non posso dilungarmi oltre sulla faccenda, ché – domando scusa – è oggetto d’un mio attuale e faticoso lavoro. Dico faticoso non certo per darmi delle arie, ma perché il materiale (autori, testi originali, testimonianze indirette e dirette, stadi cronologici, etcoetera) è talmente vasto e profondo da mettere a dura prova.

Io credo, e con me qualche buon compagno di strada, che una ricerca non solo sull’apporto delle droghe alle nostre tradizioni religiose ma altrettanto su qualsiasi alterazione psichica, congenita oppure subentrata in qualche momento della vita, potrebbe contribuire allo schiarimento di misteri – storici antropologici sociologici – che talora non sono affatto tali o lo sono assai meno di quanto ci si voglia far credere. Inoltre tale indagine imbriglia la fantasia di molti e troppi storici e ricercatori varii sulle nostre origini, i quali quando non sanno o non vogliono sapere, per non fare la figura degli ignoranti, sono costretti a inventare.

Beninteso che il discorso, né mio, né dei ricercatori “alternativi” che ho richiamati, non è vòlto all’esercizio dello screditamento della passione religiosa ovvero delle credenze in qualche Hinterwelt; cioè non è esercizio a mezzo tra illuminismo e scientismo, ché non mi appartiene e mi fa alquanto schifo. Tuttavia bisogna essere precisi davanti a queste teorie alternative affine di non essere scambiati per qualcuno di quegli scienziati e divulgatori che credono solo a ciò che leggono sui giornali delle loro stolide conventicole.

* * *

Questa serie di notizie, ci costringe a una riflessione su una certa natura dell’essere umano e che emerge, more suo, attraverso un altro libro tangente la questione: Con gli occhi aperti di Francesco Tormen (il Saggiatore) dedicata al sogno lucido, un argomento variamente evocato e battuto ormai da decenni che di tanto in tanto e con sempre più frequenza torna ad affacciarsi sulla scena, in stretto legame oppure indipendentemente da diverse forme di “spiritualità”. Il lavoro di Tormen, che ricorda da presso quello del pioniere delle coscienze inconsuete, lo psichiatra Stanislav Grof, appare serio ed è fondato sulla pratica personale e su precise indicazioni teoriche e pratiche, il cui scopo è di portare nella vita quotidiana e prosaica, anche di chi non abbia propensione per alcunché di metafisico e sia semplicemente interessato a indagare la mente umana, un’attività bensì antica ma sempre rinnovantesi, esattamente come le nostre esperienze oniriche. Qui la così detta metafisica si fonda con la scienza empirica, o meglio: quest’ultima scova i segreti dell’altra, li abbassa, li “normalizza” per riutilizzarli affine dello stesso scopo che da tempo immemorabile insegue una vasta parte del genere umano: l’evasione dalla realtà.

Chi ha abbia avuta l’avventura di sperimentare stati di (in)coscienza inconsueti, ovvero li ha cercati – credendo o meno fossero stati psichici e non spirituali o viceversa – per lo più lo ha fatto solo di rado ammettendo a sé stesso e ai suoi compagni di viaggio o ai suoi prossimi quali che fossero, la natura escapista della pratica. E ciò con buona pace di quando scrive il medesimo Tormen, per il quale il sogno lucido, in sostanza, è scienza e non divagazione. Eppure in tutte le lunghe pagine, così come nelle migliaia di pagine “scientifiche” dal medesimo tenore, nemmeno per un istante ci si ritrova dinnanzi una dimostrazione del fatto che appena appena sotto la superficie delle legittime pretese, si cela l’eterno sogno dell’Hinterwelt.

Il contemptus mundi si manifesta anche nel semplice ma non meno irritato sentimento della noia, che per taluni inevitabilmente la vita quotidiana reca con sé. Sicché per costoro è quasi inevitabile compiere degli esperimenti mentali, che vanno dalla semplice lettura di un romanzo d’avventura alla Salgàri, passano attraverso la contemplazione estetica di un paesaggio, e si inoltrano fin dentro le pratiche allucinogene oppure fantastiche che, innumeri, la scaltrezza umana o in alcuni casi l’accidente ci porgono.

La pretesa di “scientifizzare” la pratica del sogno lucido ha quindi un’allure non poco pretenziosa, persino ingannevole, dacché ammantando un tale esercizio di tecnica e scienza si vuole di conseguenza dare o addirittura imporre l’impressione che quel gioco abbia un’alta valenza anche morale e che non sia soltanto uno dei molti modi dell’escapismo. Insomma, anziché guardarsi dentro e dichiarare che il sogno lucido come molte altre forme di fuga dalla realtà servono, per l’appunto, a infrangere le volgari consuetudini quotidiane, si spacciano la “scienza” e la “tecnica” per alti e nobili mezzi di ricerca. Ricerca di cosa? A seconda del proponente, può essere il sé, Dio, il Divino Fondamento, e via elencando.

Caso strano è che, a esperienza di chiunque sia onesto e sia transitato un certo numero di anni o di volte entro queste dimensioni, tutti i praticanti, prima esciti dal mondo e poi rientrativi, restano tali e quali a prima o addirittura si tramutano non di rado in qualcosa di mostruoso, ai limiti della follia e della sgradevolezza, autopersuasi di avere visto e toccato con mano qualche frammento di verità, se non la verità tout court.

Inoltre quasi tutti coloro i quali si dedicano a queste esperienze le poggiano e poggiano in generale la loro esistenza su un’emotività spinta e su vuoti culturali non dappoco, capaci di renderli inabili all’onestà e a indagini sine ita et studio o almeno – lucide.

Ci sono stati e ci sono invero seri ricercatori i cui resultati esperienziali sono serviti ad aggiungere informazioni o a eliminarne di superflue e false, ciò che torna utile ad aumentare una visione del mondo sempre più chiara e sempre meno soggetta ad arbitrarie conclusioni. Ma è una minoranza. Guasto non irrilevante di simili strade è la trasformazione di chiunque in un maestro. Basta aver seguìto un corso di meditazione o di sogno lucido, ovvero aver assunte sostanze, per sentirsi ipso facto una specie di vas electionis, quando, al massimo, si è data una sbirciata nella propria scombicchierata psiche.

Quanto alla proclamata e sovente lutulenta ricerca di sé stessi, lascio la parola, ultima prima e definitiva a Goethe: parola che se ben meditata apre, essa sì, ben più ampi profondi e autentici orizzonti, altro che funghi ed erbe, e la cui interna evocazione dell’antico detto greco rimanda non a caso qualmente a ogni spiritualità:

«La grande e altisonante massima: Conosci te stesso! mi è sempre parsa sospetta, come un’astuzia di preti segretamente in combutta per confondere l’uomo con pretese irrealizzabili e deviarlo dall’attività nel mondo esterno verso una falsa contemplazione interna. L’uomo conosce se stesso nella sola misura in cui conosce il mondo, di cui ha coscienza soltanto in sé, come ha coscienza di sé soltanto in esso. Ogni nuovo soggetto, osservato bene, dischiude in noi un nuovo organo».

(La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura)

Luca Bistolfi

*In copertina: Kazimir Malevič, Quadrato nero, 1915

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