Così tutto quello che era in lui ancora ferita viva e bruciante veniva estromesso dalle poesie e, in luogo di quella sofferenza che sanguinava e doleva, vi compariva una pacata apertura che innalzava il caso particolare a esperienza universale, a tutti partecipabile.
(Parte seconda, cap. XIV)
È difficile uscire indenni da un romanzo come Il dottor Živago di Borìs Pasternàk, dopo averlo letto. È difficile staccarsi da quel testo, riporlo in libreria tra gli altri come se niente fosse. Ma niente non è stato. Perché? La risposta è complessa. È una storia immensa, infinita, umana ma al tempo stesso soprannaturale, terrena ma divina, storica ma universale e senza tempo. Una storia dell’umanità ma che appartiene all’infinito.
Che esistenze! Che amori! Che passioni viscerali! Che epopee esistenziali…! E che tristezza, pur nella forza che la vita dona ai suoi protagonisti. Un racconto che cresce piano piano, dall’infanzia all’età adulta, da un determinismo che tutto sembrerebbe aver stabilito al vortice dell’esistenza che ogni cosa stravolge: due classi sociali, un uomo e una donna, vanno incontro al loro destino, al fatto che la guerra e la rivoluzione li farà incontrare e darà loro l’opportunità di amarsi al di là della Storia e delle loro vicende personali. È questo il grande messaggio del Živago di Pasternàk: rispettare la propria natura individuale, la propria storia interiore e sentimentale anche se il mondo intorno va in un’altra direzione, spinto da altre esigenze verso il baratro o il rinnovamento. La critica alle intenzioni rivoluzionarie da parte di Pasternàk sono evidenti e forti, anche se narrativizzate: da qui il suo essere osteggiato in patria e la nascita del conseguente “Caso Pasternàk” intorno alla rinuncia da parte dell’autore al Premio Nobel per la letteratura e all’avventurosa storia editoriale del romanzo.
La storia tra Jurij Živago e Lara Antipova fa tornare alla mente le tante vicende clandestine di amori impossibili eppure reali, vissuti, ma inesistenti agli occhi di una visione “ufficiale” della vita. Donne e uomini, impegnati su “altri fronti”, che seguono il loro cuore e la loro riscoperta natura su campi di battaglia collaterali, condannati dalla società per eccesso di individualismo, ritenuti “fuori dalla Storia”. Lo strazio per un amore impossibile o comunque difficile da preservare (e sintetizzato nel “come faremo!” sussurrato a Jurij dalla Lara del film di David Lean). Anche Jurij, come Lara Antipova, è sposato, con prole: una doppia impossibilità, un doppio nodo su corde diverse e separate. Il senso di sospensione e di precarietà di un amore difficile ma vissuto, nascosto nelle intercapedini delle altre storie private, protetto da occhi indiscreti. Eppure, quanta forza e speranza possono effondersi da storie in salita come questa descritta da Pasternàk: il viverla comunque, pur sapendo di non avere un futuro; si attinge dalla complessità di simili incontri una forza incredibile, strana, quasi crudele, ma grazie a essi si vivono sensazioni e si carpiscono segreti esistenziali che non sarebbe possibile conoscere attraverso una storia ordinaria. Forse il vero amore è quello che nasce nel dolore, tra gli attriti del reale, quello nato “mutilato”, e che insegna più cose.
Prima del romanzo il mio immaginario era stato già “inquinato” dalla versione filmica, quella più famosa e bella: ma leggendolo, essendo la trama del romanzo diversa e più complessa di quella del film, mi sono accorto che stavo ricostruendo la vera storia in me, perché l’immaginario era in fase di “ristrutturazione” proprio grazie alla lettura. Sull’indispensabilità di leggere prima i prodotti letterari e solo in seguito acquisire le loro trasposizioni cinematografiche, esiste da anni un dibattito interessante e non ancora completato che coinvolge valide motivazioni neurolinguistiche, ma che non tiene conto della pressione della società dell’immagine in cui viviamo. Isolarsi dall’immagine è arduo ma non impossibile. Spegniamo i dvd, accendiamo i libri!
Tuttavia la parte del romanzo che ha più probabilità di renderci “malinconici” è quella medio-finale: le parti iniziali, altrettanto belle, importanti, descrittive dal punto di vista sociale e politico, sono preparatorie a una storia d’amore che in principio è abbozzata, ipotizzata, embrionale, quasi secondaria, come se assecondasse i tumulti dell’epoca, gli sconvolgimenti della rivoluzione, ma stando di lato, senza disturbare perché i moti sociali sono più importanti di quelli vissuti nell’intimità. È dopo la prigionia presso i Partigiani Rossi dei boschi, quando Živago torna a Jurjatin da Lara che è possibile “assaporare” tutta la condizione precaria e sospesa dell’epoca storica e del loro rapporto sentimentale: quell’essere coppia ma non ufficialmente coppia. Quel loro testardo e coraggioso autodeterminarsi, contrario alle nuove leggi collettivistiche, e che ammazzano di fatto l’individualismo e la libertà sentimentale. Non c’è più posto per le passioni private, per crogiolarsi in una poetica che non preveda l’interesse comune.
Al tempo stesso è possibile avvertire anche la malinconia e i sensi di colpa di Živago nei confronti dell’“altra” famiglia, quella ufficiale formata con Tonja Gromeko. Lara ha la sua Katja avuta con Pavel Antipov (che rinascerà a “nuova vita” con il nome di Strel’nikov) e leggendo il romanzo sono ancora più chiari quei meccanismi di responsabilità genitoriale che pur essendo forti, alla fine riescono a convivere con la nascita di un amore adulto e adulterino. Come è chiaro il bisogno sacrosanto e istintivo di dare la precedenza all’incolumità e al benessere dei figli, anche se si è innamorati di un’altra persona al di fuori del matrimonio.
I dialoghi tra Lara e Jurij, a Jurjatin prima e a Varỳkino dopo, sono unici, impossibili da trasporre in un film, e raggiungono un culmine “filosofico” che va oltre la singola storia d’amore privata, per interessare il significato universale dell’esserci. Leggendo questo romanzo non si comprende dove finisca la storia sentimentale tra i due protagonisti e cominci la storia del mondo, della natura, dell’universo. E poi gli intrecci delle storie, i personaggi che riaffiorano a concludere un ciclo iniziato molte pagine prima: è ciò che accade nei capolavori; e nella seconda parte, soprattutto verso la fine, si avverte un’accelerazione della trama come se l’autore avesse timore di lasciare fuori un pezzo di storia, di sottotrama, di vita dei personaggi. Tutti hanno un posto, un destino da seguire; tutti ricevono una meritata fine nella storia del romanzo e dell’universo.
Si resta impotenti e religiosamente in silenzio dinanzi all’inesorabile “economia” dei destini: è come se i personaggi di Pasternàk fossero delle biglie poste su un piano inclinato che man mano aumenta la propria inclinazione affinché tutte le biglie raggiungano la propria buca in cui scomparire per sempre. Lo affermano anche nel romanzo: “Che tristezza la vita!” Già… Ma vi è anche un senso di rassegnata e doverosa operosità che non viene sconfitta se non alla fine, con la morte fisica dei corpi. Fino alla fine Živago scrive, lascia tracce di sé e del suo pensiero poetico. Non gli resta che quello e lo fa senza lasciarsi scoraggiare dalle cose perdute, dai dolori vissuti; anzi lo fa proprio per tutto questo, in nome di tutto il vissuto.
Vite smembrate, dilaniate, stravolte come le società attraversate dalla rivoluzione: con la sola regola di restare fedeli a se stessi, amando chi si vuole e come. Ma ancora più affascinante è il tentativo di individuare il punto di contatto storico, sociale e sentimentale in cui fare incontrare due anime simili, ma appartenenti a due mondi diversi, come Lara e Jurij. E quindi il mistero crudele del destino, i fattori non controllabili della Storia, ma anche la critica a una rivoluzione nata troppo in fretta e ai suoi artefici che hanno condotto un intero popolo a una mostruosità sociale, economica, storica. Non si possono controllare le conseguenze concatenate di una rivoluzione, così come non si può controllare il sentimento verso chi riconosciamo, in ritardo, simile a noi e alla nostra anima. È triste tutto questo? Oppure è semplicemente inesorabile e non si può che avere pazienza e vivere la vita per come ci capita e non solo per come ce la costruiamo o vorremmo costruirla?
Altro elemento meraviglioso di questo romanzo è la descrizione degli animi dei personaggi: la loro evoluzione interiore, i necessari cambiamenti legati agli eventi storici e ideologici (scelti o subiti), il destino che si portano attaccato addosso come una lettera scarlatta, le trasformazioni che accompagnano le loro esistenze. Le conseguenze dei nostri atti, sembrerebbe suggerirci Pasternàk, ci accompagneranno per sempre, fino alla fine, anche quando sembra che la vita stia deviando dal suo percorso, che ci porti lontanissimo da quelle conseguenze. Persone e fatti, prima o poi, ci raggiungono e completano il loro ciclo. Anche nelle vite più “spezzate”, come quelle descritte nel romanzo, c’è una ciclicità da rispettare e completare: Lara non poteva mancare al funerale di Živago, nonostante il loro doloroso distacco combinato con l’inganno e per salvare Lara e sua figlia Katja.
Quante cose e quanti passaggi nel romanzo sono spiegati diversamente e in maniera più complessa rispetto al film di David Lean, anche se la trama principale è stata ovviamente rispettata. Le ragioni della rivoluzione si mescolano alle ragioni e ai moti del cuore: ma sullo sfondo si muovono sempre una spiritualità e una natura che non possono venire intaccate dall’uomo e dalle sue nuove leggi storicamente materialistiche. Živago è un “disadattato” nella nuova società sovietica, o meglio, in quella che dopo pochi decenni sarebbe diventata ufficialmente la società sovietica, anche se ammira l’evoluzione della sua Mosca e non si isola da chi sente affine al proprio animo.
Non meravigli il fatto che Jurij, dopo aver perso Lara, abbia messo su una nuova famiglia con Marina, che nel film non c’è. O che non cerchi di raggiungere Tonja e i suoi figli. La vita va avanti, come si è soliti dire; si adatta alle nuove forme e alle occasioni offerte (o imposte) dalla Storia, anche se si resta intimamente dei disadattati perché manca la sintonia, la Storia ha interrotto le comunicazioni con l’interiorità, con la propria natura: non è un rinnegare gli amori vissuti o sminuirli alla luce della convenienza; è forse “istinto di sopravvivenza”, voglia di vivere sempre e comunque, un modo per continuare a restare in piedi nel mondo nuovo creato da altri uomini. Appare strano, tuttavia, dal punto di vista del lettore che ha quasi sempre tra le mani soluzioni facili, questo modo di sopravvivere. Si individua, negli ultimi capitoli del romanzo di Pasternàk, come una sorta di impotenza esistenziale, storica: perché le scelte di Jurij, inizialmente dettate dalle costrizioni del momento storico, non vengono in seguito riviste, contrastate? Aleggia un disincanto che rende inattivi, immobili nell’angolo di Storia in cui si è stati collocati. Un po’ come foglie che si lasciano trasportare dal vento senza combattere o almeno veleggiare; abbandonarsi al destino: non lo facciamo, forse, un po’ tutti anche quando siamo liberi? Certo che è così; adattarsi fa parte della natura umana. Perché? Se la vita fosse vissuta fornendo a questi quesiti solo risposte razionali, scontate, suggerite dal buon senso di chi è seduto sul divano, avrebbe lo stesso sapore, la stessa forma? Crediamo di no. L’esistenza è originale proprio nel suo essere, a volte, assurda e codarda.
È rispettata nel film, così come nel romanzo, la gradualità dell’amore tra Jurij e Lara: non è un fuoco che arde velocemente consumandosi presto; è una lenta presa di coscienza, un riconoscersi lento come accade nei veri amori, quelli che hanno radici spirituali e non solo passionali. Fino alla consapevolezza di un’intima somiglianza che costituisce elemento di inscindibilità. L’essere simili, in un mondo in violenta trasformazione, diventa scoglio a cui aggrapparsi, baluardo di solidità. L’essere l’uno l’oasi dell’altra, e tuttavia sapere che tutto è contro quell’unione, che la storia è contro, che il destino è contro. E, a un certo punto, rassegnati, si lascia fare al destino.
È il riconoscersi al di là delle convenzioni e delle scelte convenienti: la bellezza di Lara è una religione sotto forma di donna. Non è sempre vero che due rette parallele non s’incontrano mai: a volte accade che s’incontrino. Lara ama Pavel Antipov (il futuro Strel’nikov che nel libro muore suicida mentre nel film esce semplicemente di scena), ma lo ama in modo diverso perché legata, così come Jurij a Tonja, da un “amore fraterno”, giovanile, acerbo, non temprato dagli eventi. Ed è questa differenza tra l’amore per Jurij e l’affetto residuo per Pavel, che rende il sentimento di Lara ancora più speciale, unico e privilegiato: un sentimento non unidirezionale ma variegato, complesso, capace di discernimento. I veri amori restano veri anche se la vita rema contro di essi e disperde nel mondo i suoi protagonisti. Anche se le strade dissestate della Storia, come accade in maniera apparentemente irragionevole nel romanzo, portano lontano e separano gli attori principali di quegli amori.
La vita è sostanzialmente assurda, è una roulette russa giocata con una rivoltella completamente carica: non c’è scampo, a ognuno è dedicato un proiettile; e la poesia è uno dei pochi strumenti con cui possiamo tutelare le parti inviolabili della nostra storia personale. Tutto questo Živago lo sa, e infatti dedica i giorni successivi alla partenza di Lara da Varỳkino alla stesura di poesie e di pensieri come a voler congelare, a rendere eterno il vissuto e a salvare il salvabile di una storia unica, meravigliosa, irripetibile. La poesia è una zona privata, che nasce privata nonostante le successive velleità editoriali di ogni autore; come privato, privatissimo, è un amore simile a quello vissuto tra Lara e Jurij. Poi c’è la Storia che ci sbatte da un punto all’altro del tempo e dello spazio, e non sempre cerchiamo di combattere la “corrente”: quando reagiamo ritorniamo alle origini che ci sono care, proprio come quando facciamo poesia. Lara è poesia, è origine, è ragione d’animo.
Le pagine che più suscitano un senso di precarietà e malinconia sono quelle di quando Jurij e Lara si recano a Varỳkino per sfuggire alle possibili – anzi molto probabili, a causa delle loro rispettive posizioni – persecuzioni che hanno luogo a Jurjatin: si avverte, lì ancora di più che altrove, il senso di una fine imminente, del periodo buio che si sta vivendo in tutto il paese. I lupi che circondano la casa sono il simbolo di un’epoca crudele, selvaggia, spietata, affamata di vendetta di classe. Eppure in quell’atmosfera sospesa e surreale loro due riescono a essere “famiglia”, precaria e momentanea; sono uniti ma divisi da due differenti destini non ancora giunti a maturazione. In quel luogo Jurij trova la forza e l’ispirazione per cominciare a scrivere e a fissare su carta le idee che non aveva potuto fino ad allora esprimere concretamente. Tutto è precario, la Storia li bracca ma non rinunciano alla loro storia interiore e al loro amore. Perché ci sono priorità che non vanno trascurate neanche dinanzi a rivoluzioni necessarie riguardanti i bisogni urgenti della collettività. Pasternàk dedica alcuni passaggi – e lo fa attraverso Jurij – al suo modo di concepire il fare poesia, che rappresentano delle piccole-grandi lezioni di poetica concentrate in poche righe. La crudeltà della storia e del mondo si abbatte sulle persone a noi care e su di noi: non possiamo farci niente anche se a volte l’uomo, tra le sue agiatezze, dimentica chi è, qual è la sua natura, la sua finitezza. Che siamo pecore tra lupi, e a volte lupi noi stessi.
È un romanzo che in alcuni punti scoraggia perché ben rappresenta l’inesorabilità della vita, ma al tempo stesso instilla strane speranze nel naturale divenire delle cose, nel loro progredire verso un traguardo di pace in cui possiamo e dobbiamo sperare. Fidarsi della Storia nonostante, ciclicamente, finisca sempre per deluderci. “Tutto finisce!” sembra suggerirci Pasternak, e anche le storie d’amore intense finiscono perché i personaggi scompaiono, inghiottiti dal tempo e dal destino. Ma non finisce l’insegnamento ricevuto da quegli amori, e donato all’universo. E poi dobbiamo raccontarci per sopravvivere che l’importante è averli vissuti, cercati, conservati in un certo qual modo. Beati i poeti che possono farlo! Beati quelli che leggendoli imparano ad amare. E beato anche chi genera un figlio da questi amori: sono i loro più prelibati e al tempo stesso anonimi “prodotti”. Anche i figli avuti con Tonja non sono minori ma con un destino diverso.
Che epoche spaventose ha attraversato e ancora oggi attraversa l’umanità! (Mentre scrivo questi rozzi appunti, è in atto una nuova guerra tra Russia e Ucraina! E insieme a essa anche la stupidità di una cancel culture che vorrebbe mettere all’indice la cultura russa, romanzi e poesia compresi).
Interessante anche tutta la “parte ideologica” del romanzo: senza mai scendere in particolari descritti con un linguaggio eccessivamente politico, si giudica tutt’al più lo spirito dell’epoca, le conseguenze più malsane del dopo rivoluzione, le alterazioni sociali causate da uno stravolgimento avvenuto troppo rapidamente e male. Pur attraversando tutte le epoche, prima e dopo la guerra civile, Jurij e Lara cercano di rimanere se stessi, fedeli alla propria indipendenza soprattutto mentale e poi anche sentimentale. Se Lara si estranea (o viene esclusa, credendolo morto in guerra) dall’involuzione di Pavel Antipov che lo “trasformerà” nel comandante “rosso” Strel’nikov, allo stesso modo Jurij Živago non si riconosce più nella sua iniziale condizione sociale di medico e uomo sposato: entrambi, spinti dalle guerre e dai conseguenti sommovimenti sociali, deviano dai loro percorsi apparentemente scontati per ricongiungersi alle fonti primordiali dei loro animi dove si riscoprono veri, liberi, trasparenti, assetati di “borghese” normalità. La rivoluzione, che avrebbe dovuto annullare ogni forma di individualismo, paradossalmente alimenta in Lara e Jurij proprio la fiamma dell’autodeterminazione individuale almeno da un punto di vista sentimentale e spirituale.
Quello tra Tonja e Jurij è un amore quasi naturale tra pari, un matrimonio predestinato tra due giovani appartenenti a uno stesso ambiente sociale. Invece tra Jurij e Lara prende forma un amore cercato, voluto, desiderato in maniera consapevole, maturato dopo una serie graduale di incontri determinati dalla vita, dal caso. È un amore adulto non deciso dalle circostanze di classe sociale, dall’ambiente, ma “fiutato” a distanza, volontariamente inseguito, coltivato come ideale privato di perfezione sentimentale e spirituale. Un amore che cresce e si sviluppa insieme alle disavventure dell’epoca, al dolore provocato dai cambiamenti; sembra quasi che Jurij e Lara siano l’uno il completamento esistenziale dell’altra, il rifugio prelibato e clandestino.
Il dottor Živago è un romanzo che parla della casualità della vita, degli incroci mancati o impegnati. Della fatalità quasi naturale che avvolge l’esistenza di ognuno. Siamo foglie appese a rami in maniera delicata: basta un niente per volare via ed essere trascinati chissà dove. All’inizio della vita, quando si è giovani e verdi, tutto sembra chiaro e ci si sente invincibili. Poi la vita smussa queste sicurezze e si sceglie di lasciarsi guidare da un certo fatalismo, anche se crediamo di operare in maniera costruttiva, con determinazione e volontà. Ma la vita e il fato alla fine prevalgono, o almeno (un po’ o molto) deviano gli intenti: quanti incroci di esistenze, quante vicende intorno alle nostre esistenze. Non siamo soli lungo il cammino. Le nostre e le altrui vicissitudini caratterizzano un’epoca storica: anche se ci isoliamo dal caos, la vita e le azioni del mondo ci raggiungono, ci coinvolgono. Ma se, nonostante tutto, operiamo con passione, la vita non è mai sprecata e il caso non potrà mai sabotarla completamente.
Quante pagine meravigliose Pasternàk fa recitare ai suoi personaggi per illustrarci la sua visione del mondo, i suoi pensieri sulla vita, sull’animo umano, sulla Storia che incombe e ci travolge. Lara e Jurij, grazie a queste pagine immortali, ci svelano la loro intimità spirituale, le loro angosce, i desideri, le sfumature ideologiche di un’epoca. Ma entrambi sono innanzitutto due esseri liberi che si amano, amano l’idea dell’amore e amano la vita. Pasternàk non scende mai nei particolari della loro intimità conquistata gradualmente, con rispetto, combattendo contro i doveri verso vite precedenti e parallele. È come se l’autore non avesse voluto violare un tempio sacro, quello dell’amore carnale, che il lettore può solo immaginare. Un’intimità che si manifesta attraverso la descrizione degli elementi casalinghi, quotidiani: non occorre altro per descrivere un nido. Presente, invece, è la descrizione delle differenze tra le classi sociali prima che la rivoluzione le spazzasse via violentemente o tentasse di farlo: diversità che inevitabilmente hanno alimentato una rabbia dal basso, esplosa in un cambiamento repentino, deforme e disordinato. La giustizia sociale ha ceduto il posto all’odio di classe; l’annullamento fisico dell’oppositore, presto considerato pericoloso nemico, è diventata regola fissa e autorizzata dalle necessità di una maggioranza non sempre individuabile. Ma quella di Pasternàk non è una valutazione “politica” del comportamento dei rivoluzionari; è il naturale giudizio di un uomo libero che attraverso la sua penna ha creato personaggi altrettanto liberi.
Michele Nigro