04 Dicembre 2023

“Nel fondo dell’essere, lo splendore”. Dorothy Wellesley, poetessa selvaggia

Come sempre – come sempre, per intuizioni improvvise, provvidenziali, ingiustificate – Yeats aveva capito tutto. Nella poesia To Dorothy Wellesley – raccolta nei New Poems, 1938, estremo frutto di una mirabile longevità lirica – suggerisce che le muse dell’amica sono “le fiere Furie” (The proud Furies): scriveva con l’estro della vendetta – cioè, con rispettosa altezzosità – maneggiando il fuoco, il serpente, l’urlo. Figlie della Notte, le Furie manomettono le menti fino alla mania. Yeats – che morirà, si può dire, tra le sue mani – era ossessionato dalle poesie di Dorothy Wellesley, che riteneva tra i grandi poeti in lingua inglese della modernità. Nel canonizzante – e capriccioso – Oxford Book of Modern Verse – la Wellesley, per intenderci, è più rappresentata di Thomas S. Eliot, di Ezra Pound, di James Joyce, di D. H. Lawrence, del premio Nobel Rudyard Kipling. Eppure, rispetto a costoro, per così dire, la Wellesley non aveva interessi direttamente letterari: il suo temperamento la portava altrove; mirava alla vita, all’intrigo, alla sopraffazione. Amava viaggiare, preferiva la compagnia di pochi pari e le spettacolari storie di spettri.

“Rifiutava ogni convenzione, si dimostrò agnostica, uno spirito infuocato, animato da un amore sincero per la bellezza in tutte le sue manifestazioni… le sue capacità intellettuali non sarebbero mai state in grado di eguagliare il genio della sua immaginazione”.

Così, di lei, scrive – con borchie di empatico cinismo – Vita Sackville-West. Furono amanti. Nel 1926, Dorothy accompagnò Vita nel suo viaggio in Persia: partirono da Trieste, fecero tappa a Brindisi, sbarcarono ad Alessandria. Da lì, puntarono verso Bombay. Vita le aveva dedicato il poema The Land, con cui, nel 1927, ottenne l’Hawthornden Prize: negli anni, andrà a Robert Graves, Evelyn Waugh, Ted Hughes, Graham Greene. Bruce Chatwin lo vinse cinquant’anni dopo di lei con In Patagonia.

All’epoca del viaggio in Persia, Dorothy si era già separata dal marito, Lord Gerald Wellesley, duca di Wellington, che ad ogni modo continuava a foraggiare di denaro – il divorzio le pareva una moda sconveniente, faticosa. Si erano sposato nel 1914: trascorsero le prime notti a Firenze, Venezia e Costantinopoli, omaggiati da doni di pregio (la regina di Spagna inviò a lui una spilla di diamanti e zaffiri). Dorothy era una donna difficile: altezzosa, sarcastica, selvaggia. Nelle foto da ragazza ha i capelli lunghi, lo sguardo trasognato, tra il broncio e la brama: degna cugina di Aletto. Tutta colpa del padre, dicevano. Robert Ashton, antica schiatta di industriali, si fregiava di viziare la figlia: viveva in barca, la ‘Minerva’, e portò Dorothy in un rocambolesco viaggio in Scozia, con mare in perenne tempesta. Parlava da solo, organizzava cacce di fantasmi nei boschi, non disdegnava le sedute spiritiche. Morì – in barca – che Dorothy aveva sette anni; la madre si risposò poco dopo con il conte di Scarbrough.

Il talento poetico di Dorothy rivaleggia con la sua indole: irrispettoso del canone, segue le vie dell’estro sovrano. Alcune poesie di Dorothy Wellesley parlano dell’antico Egitto, altre di case abbandonate e di serpenti; una poesia è dedicata a Lenin – di cui aveva udito la morte e visto il cadavere –; alcune poesie posseggono una concretezza cristallina, alcune evaporano entro un reticolo metafisico. Era appassionata di civiltà dei primordi: una poesia ritrae Avebury, dove si trova uno dei monumenti neolitici più possenti d’Europa; in un’altra cita Stonehenge; un poemetto di intrepida fattura racconta l’epica dell’Homo Sapiens.

L’esordio, nel 1913, con gli Early Poems – per Elkin Mathews, l’editore di Yeats, Pound, Joyce… – è l’inizio di un’impresa lirica – metamorfica, inadempiente, di esagitata eccentricità, di feroce eleganza – che ha, per varietà di temi e di toni, rari pari in quegli anni. Dorothy non è ‘modernista’, non è ‘apocalittica’, non è ‘esoterica’: non appartiene ad alcun credo – non è affiliata alla cricca di Yeats né a quella di Mr. Eliot, tanto meno ai fatui amici del Bloomsbury –, è orientata unicamente a sondare la propria scalpitante energia creativa. Per questo, ostinata a restare inclassificabile, Dorothy Wellesley appare di rado nelle liste dei grandi poeti del secolo scorso: la sua natura retrattile a ogni didascalia soverchia i canoni. Eppure, basta leggere un poemetto come Matrix (1928), allo stesso tempo memore di Parmenide e alleato di Turner, per sperimentare – oltre ogni museruola critica – la grana di un linguaggio senza freni, tra miniatura epigrafica e fantascienza.

Il libro fu stampato – in deliziosa edizione – dalla Hogarth Press dei coniugi Woolf. Cinque anni prima avevano editato The Waste Land, che andrebbe letto in sinossi – se non altro, per comprendere l’altra, alta via della lirica. Per la Hogarth Press, dal 1928, Dorothy Wellesley curò la collana “Hogarth Living Poets”: 29 libri, suddivisi in due “series”, oggi oggetto di disinibito collezionismo, frutto del vezzo critico – implacabilmente snob – della curatrice. Oltre a nomi noti – Vita, ovviamente, con King’s Daughter, ma pure Cecil Day-Lewis, il premio Pulitzer Edwin Arlington Robinson, il grecista R.C. Trevelyan – Dorothy sceglie a suo gusto tra gli amici privati. Pubblicò, tra gli altri – oggi misconosciuti o quasi – Frances Cornford, la bisnipote di Charles Darwin, William Plomer – il librettista di Britten – il critico Michael Roberts (il quale, nel 1936, curò un celebre antologia, Faber Book of Modern Verse, in cui scelse di non mettere Dorothy, inserendo se stesso).

Un suo libro di poesie, Jupiter and the Nun, del 1932, coincise con la fine dell’attività tipografica dei coniugi Woolf: da allora non pubblicarono più libri composti e stampati a mano. Virginia Woolf la temeva: Dorothy non aveva bisogno di riconoscimenti, di eccitazioni diverse da quelle che sommuovevano la propriak anima – qualora abbia avuto un’anima. Scrisse incurante della ‘risposta’ del pubblico, in una società a cui non era mai appartenuta per davvero. L’ultima raccolta, Early Light, esce nel 1955 – lei muore l’anno dopo. Ha preferito restare la ragazza coi capelli sciolti, che nulla ha da restituire al prossimo.

L’opera di Dorothy Wellesley, finora inedita in Italia, è stata pubblicata dalle edizioni Magog con il titolo “Matrix”: sono antologizzate le poesie più importanti e una scelta dal vasto epistolario con William B. Yeats. In questo articolo, editiamo alcuni testi esclusi dalla scelta originaria.

***

Ombre

Sono nella Città dei Morti
su questa riva del Nilo:
qui giace Ramses il grande, piegato come un panno
fasciato di papiri. La testa cava
non è avvolta in foglie d’oro:
sembra semplicemente vuota.
Tremila anni fa i suoi pensieri
si agitavano come alveari di api, ma ora
non è che l’ombra del suo sogno.

Eppure, mi sembra bello
piegato in modo ordinato, con linda biancheria:
un bimbo che un tempo decretava il vero e il buono
prima che il grande Platone, dalla sua caverna
ritornasse alla Realtà per scrutarne l’Ombra.

*

Primavera all’assalto

Dicono, gli uomini, che la primavera sta arrivando
felice, dopo l’assalto.

Possano i morti sorgere dalle tombe
e raggiungerci con baci ardenti
cavalcando i cavalli dell’Apocalisse!

Ma la primavera quest’anno è una suora,
cammina tenendo gli sguardi lontani dai ragazzi
ha le mani giunte e mormora, come d’abitudine, qualcosa:
preghiere per la povera anima di Attila, l’Unno.

Quanto a me, di preghiere priva,
starò presso la cascata, nel bosco,
a vedere l’iris selvaggio ostentare con orgoglio la sua natura.
Per un po’ di tempo sarà mio figlio.

Da quando è iniziato il mondo,
mio caro Botticelli, nessuno ha dipinto
la primavera senza il sole: neppure
Fra’ Angelico, il monaco, ha mai pensato
la primavera come una suora.

*

Al fondo, lo splendore

Nel fondo del suo essere, lo splendore,
che una visione nitida serba –
amorevole e giusta, visione sgargiante.

A questa pura visione si avvinghia
quando giunge la sua Pentecoste
quando lingue di fuoco lappano il suo sangue –
una visione che gli è cara
mai cupa né triste: il grande amore
non rende folli le nature grandi.

Saprà abiurare la comunione dei santi
per la comunione dei poeti
purché l’amore che rovina non rovini nei suoi pensieri:
una visione coerente, ostentata dai suoi pari.
Felici e splendidi i grandi amanti
il grande amore non rende folli le nature grandi.

*

Canto del gallo (cioè: un corvo)

Così prossimo all’Amore, così oscuro e fermo,
presto il gallo squarcerà la calma
corvo dei colli
corvo del pollaio di Cole, sotto la fattoria.

Strano cuore… il ragazzo San Pietro
è ancora sconcertato
dal tuo cupo canto, uccello di quel santo
fasullo che, infedele, udì i rivi del sangue,
eppure, senza credo, un grido così truce
risvegliò i morti che dormono in rudi bare
i nobili confitti su ruderi di delicato conio
e quegli altri, più fortunati, che posano senza lino
sepolti alla meglio, con forchetta e vanga:
come puoi far tacere l’Amore all’ombra della Croce?

Da qualche parte, lo so, sulle rive fangose
la luna si ritrae e costringe a convegno la marea;
così cala, disconosciuto, il mio sangue, la solita marea.
Così, la sostanza fluisce nel nucleo –
così, l’azione e la nostra prima Fede procedono.

*

Mitologie

Ecco! Abbiamo creato il mito a nostra immagine.
Il mito è opera nostra:
abbiamo foggiato il Pensiero, dunque lo Spazio e il Tempo,
tutto ciò che non può essere comparato alla nostra sublime foggia
tutta la delusione per i nostri fallimenti,
la luce e l’oscurità sono nostro frutto:
mentre le libellule sfregiano la faccia del lago
noi ci muoviamo sulla superficie delle acque
perché l’amore è infinito.
E il Creatore, Lui,
è stato soltanto per un secondo
e ci ostiniamo a chiamarlo Eternità.

Dorothy Wellesley

Gruppo MAGOG