La liturgia del 31 ottobre – la frequento come uno che sta fuori casa, al freddo: il muro è troppo alto – apre con la lettera di Paolo ai Filippesi. “Per me infatti vivere è Cristo e morire un guadagno” (Fil 1, 21). Dentro questo versetto s’installa la vita di Don Giorgio Dell’Ospedale: è morto l’ultimo giorno di ottobre, aveva 78 anni, il Covid lo ha morso, in diverse omelie si era scagliato contro Halloween, ritemprando il senso della festa dei Santi e quella dei defunti. Da più di cinquant’anni era parroco a Riccione, alla chiesa degli Angeli Custodi, che ha retto, prima del ricovero, con un carisma folgorante. Il suo – forgiato al cospetto di don Oreste Benzi – era un cristianesimo umano e troppo umano, dalle catacombe del dolore: ti chiamava per nome, durante la celebrazione eucaristica, conosceva tutti i suoi parrocchiani, di tutti sapeva il segreto, la lenta ammissione, il punto profondo della luce, che guizza, feroce, come un luccio. Ti indicava il seggio, in chiesa, dove sederti. Gli sconosciuti, li voleva fissare negli occhi – aveva occhi rapidi, il Don, come lo chiamavano, dalla giovinezza intrepida. Per più di un giorno i suoi parrocchiani hanno pregato: la chiesa della Pentecoste aperta tutta la notte, spalancata. Erano giorni di luna piena, l’ostia del cielo. Sull’altare, il Corpo reso l’ostia, perfetto, fonte di luce permanente – sembrava la lingua dell’arcangelo, che annuncia i miracoli. Ma a volte, non si veglia perché un uomo risorga dal male: lo si accompagna nell’altro mondo, nel regno. Chi chiama caos questo tempo non scorge il filo rubino della provvidenza, l’amore nel labirinto.
Don Giorgio ha battezzato mia figlia, ha fatto il funerale a mia nonna. Un funerale piccolo come un fiammifero: eravamo in sei, in sette, forse, intorno alla sua tomba. Ha battezzato, sposato e sepolto più generazioni di riccionesi, legati a un suo gesto. Don Giorgio diceva, in uno dei suoi tanti eccessi di funambolismo, di essere “il papa di Riccione”: ne era, certamente, il papà. Io vengo dal pieno Piemonte, dove la fede è severa, si radica in una obbedienza solitaria, arcaica, che spesso sfocia, tra i valligiani, in eresia. A volte, lassù, il tabernacolo e il volto di un cervo sono la stessa cosa. Quando sono capitato a Riccione, non troppi anni fa, infine, mi ha sorpreso conoscere questa specie di Don Camillo. Insomma, Don Giorgio era l’autentico Sindaco di Riccione, la riedizione romagnola del Papa-Re, del capo spirituale che guida le sorti di un paese. Don Giorgio, intendo, non viveva Golgota e Getsemani, i luoghi oscuri del cristianesimo, che portano a frequentare gli studi, ad amministrare abissi, a dosare il dubbio e a gestire l’abbandono. Non amava le sottigliezze dei teologi o i rilievi degli intellettuali, il bubbone del tempo – “Benissimo, ne sai più di me”, mi disse, una volta, sbrigandosi ad andare al cuore della questione, lì, dove pulsa la vita, irragionevole, al di là degli schemi e degli schermi verbali. Credeva nel Cristo risorto, nel Figlio che ha vinto la morte: questo gli bastava, lo accendeva di una gioia non priva di ardore, perfino di rabbia. Baciava e menava, Don Giorgio, sapeva piangere durante un’omelia – e scagliava anatemi. Quando facevo il giornalista in un quotidiano di Rimini, lo puntavo, lo punzecchiavo. Era il potente: doveva essere scalfito. Una volta mi chiamò direttamente, nome&cognome, mi richiamò, durante il commento evangelico, in mezzo ai parrocchiani. Mi guardarono tutti in cagnesco. Non ho mai conosciuto un prete di provincia che a Natale riempia un palasport. Aveva l’energia anomala degli ispirati – veniva dalla campagna, consapevole che il corpo del Figlio non si afferra in punta di piedi, guardando i cieli, ma inchinandosi, in ginocchio, scavando, cercando eucarestia nel fango. Ci siamo riappacificati, d’altronde le parole provocano fraintendimenti, ma questo è secondario. Guardando quel prete, vedevo qualcosa di originario, di medioevale: poteva costruire cattedrali – ne fece, forse. D’estate s’inventava le messe perché anche albergatori e bagnini frequentassero, senza la scusa della ‘stagione’. Ha fatto la bella morte, un bel morir, come dice Petrarca, perché non muore davvero chi muore lottando contro la tenebra dilagante. Lo seguivano i ragazzi, era amato dai bambini. Era piccolo, basso, forte: il viso sembrava una noce. Troppi preti ingrigiscono nelle parrocchie, latitanti alla felicità. Don Giorgio diceva sempre ottimamente; quando vi chiedono come state, rispondete sempre “ottimamente”, diceva. Quella parola, così ampia e infantile, feconda, fetale, pareva un sortilegio. L’avrà usata per disserrare il cancello dell’altro mondo. Come ogni cristiano autentico, era pronto a tutto. (d.b.)