09 Marzo 2023

“Raccogli il miraggio”. Sulla poesia di Domenico Brancale

Nel volume Dovunque acqua sia voce, Domenico Brancale esordisce alludendo a un pensiero di Eraclito – «non ci si bagna mai due volte nello stesso libro»[1] –, al fine di suggerire il carattere mutevole e incompiuto che idealmente caratterizza tanto la scrittura quanto la lettura. Il filosofo efesino affermava, secondo la testimonianza di Plutarco, che «non è possibile entrare due volte nel medesimo fiume», e spiegava ciò asserendo che «il fiume in cui entrano è lo stesso, ma sempre altre sono le acque che scorrono verso di loro»[2]. L’idea si presta anche ad essere riferita alla sorte dell’uomo in generale: come rileva Gaston Bachelard, «non ci si bagna due volte nello stesso fiume perché già nel suo profondo l’essere umano ha il destino dell’acqua che scorre»[3].

A Brancale non sfugge il fatto che il nostro rapporto con l’elemento acquoreo è persino anteriore alla nascita: «Come spiegare il mal d’acqua, quella nostalgia che inonda il sangue fin dal giorno in cui siamo nati al mondo?»[4]. Nel venire alla luce, l’uomo deve abbandonare il liquido amniotico protettivo entro cui si trovava immerso, e tuttavia conserva forse un oscuro ricordo di quell’habitat prenatale. Quignard direbbe anzi che «l’altro mondo è indimenticabile poiché precede la nascita stessa»[5]. Ciò vale in special modo per chi si affida al linguaggio poetico: «Ogni forma di respiro inizia con la rottura delle acque. Ogni esilio le attraversa. Il poeta traduce il tempo buio. Incarna la voce del sommerso»[6].

Certo, essenziale è anche il liquido extracorporeo, dato che «le distese d’acqua coprono circa il 70% del pianeta in cui viviamo. Tanto è vero che sarebbe più corretto chiamarlo Mare che non Terra»[7]. Ma l’opposizione tra il dentro e il fuori è del tutto relativa: «Ognuno porta nelle sue vene un fluido salato, che combina il sodio, il potassio e il calcio in una proporzione quasi uguale a quella dell’acqua di mare. Ognuno di noi è mare»[8]. Come si vede, anche notazioni di natura scientifica vengono subito tramutate da Brancale in metafore rivelatrici. E il transito diviene ancor più agevole quando ad essere chiamato in causa è il mito biblico del diluvio:

«Per 40 giorni e 40 notti le acque sopra e sotto la terra. La voce naufragata. A galla una lingua vuota. L’arca del silenzio su cui salire».

Sia la frequente adozione, nel corso dell’intero volume, della forma del frammento lirico-aforistico, sia la predilezione per le frasi brevi e incisive ricordano, per certi aspetti, lo stile di Edmond Jabès, evocato indirettamente tramite il titolo di un suo libro: «Continui a scorrere come quei fiumi che scorrono per scorrere, senza il desiderio di un inizio né l’angoscia di una fine»[9].

Ma l’originalità della visione e delle forme espressive di Brancale restano indubbie, anche perché implicano il ricorso a tematiche personali e a un forte legame con l’area geografica d’origine, il sud Italia, ricca fra l’altro di un grande patrimonio di cultura. Così, quando leggiamo un passo come il seguente: «Ogni giorno dalla scogliera della scrivania mi tuffo nell’oceano delle pagine che avrei voluto scrivere. Tuffarsi nell’acqua è abbracciare l’ignoto», possiamo facilmente intuire quale sia l’immagine (risalente al V secolo a. C.) che ha in mente l’autore, esplicitata del resto poco dopo:

«A Paestum esiste una tomba, conosciuta come Tomba del Tuffatore. Sulla lastra di copertura è raffigurato un uomo nudo, sospeso in aria, che si tuffa in uno specchio d’acqua. […] Ogni poesia è l’iscrizione del tuffo nella parola».

Inoltre, resta per lui indelebile il rapporto col paesaggio della terra natale, la Basilicata:

«Ancora oggi è forte il richiamo delle ore in cui sono stato una sola cosa con gli alberi, l’argilla e le sue crepe, i burroni e il grido straziato del maiale. La flessione di un ramo nella brezza, la voce della penombra nella controra, il palpito che lascia frinire le cicale, le inesorabili erosioni dei calanchi, la piena improvvisa dei fiumi».

Per il poeta, l’adesione alla vita si accompagna sempre alla coscienza del proprio «essere per la morte». A rinfocolarla è il corpo stesso, con la sua vulnerabilità, unita però a un’imprevista capacità di sopportare il patimento: «La vita senza la morte sarebbe in tutto e per tutto finita. Ecco perché in alcuni momenti soffrire ci appare l’unica via d’uscita per entrare nell’esistenza»[10]. Significativo è anche il tema della solitudine, condizione aggravata dalla natura instabile del rapporto amoroso: «L’amore ha i giorni contati. Si consuma nell’atto del corteggiamento. Tutto ciò che gli sopravvive è nostalgia»[11]. La precarietà dei sentimenti si collega a un processo più generale, quello per cui le esperienze che compiamo, anche le più significative, transitano subito dal presente nel passato, cosicché, in un certo senso, «noi non siamo la somma di tutto ciò che abbiamo vissuto. Siamo la sottrazione. Siamo quello che non siamo più»[12]. Questa visione rovesciata del tempo emerge anche tramite il parallelismo stabilito con la vita di un poeta particolarmente caro a Brancale:

«Oggi ho esattamente l’età che aveva Paul Celan una sera di novembre del 1965. Ho quarantacinque anni. Ho tutto il passato davanti a me».

Se Celan ha trovato nelle acque della Senna quella morte che cercava per sottrarsi infine a un’esistenza tormentata da memorie (storiche e personali) strazianti, nonché dal disagio psichico che lo attanagliava, l’autore italiano tende piuttosto ad associare l’elemento liquido alla vita e alla poesia:

«Stringere l’acqua tra le mani è scrivere. L’acqua è una realtà poetica. Appartiene al sopravvissuto».

Non a caso egli ha scelto di risiedere in una delle più fascinose città lagunari del mondo, vale a dire Venezia. Nel libro, l’acqua viene evocata dalle parole, ma anche dai suggestivi acquerelli realizzati per l’occasione da un pittore spagnolo di fama non solo europea, Miquel Barceló. In essi, possiamo scorgere dapprima una turbolenta superficie marina solcata da una nave che (per via dell’occhio apotropaico dipinto sulla prua) richiama la Grecia antica, poi la calma distesa azzurra di un lago o di uno stagno. Nell’illustrazione di copertina, l’acqua assume l’imprevista forma di un nastro sfrangiato e serpeggiante che si staglia sullo sfondo bianco.

Uno dei capitoletti del volume è dedicato a una figura rimasta impressa nella memoria, ossia la poetessa e filosofa Rubina Giorgi. Per quanto lei non sia più fra i vivi, il poeta ribadisce l’ideale prossimità nei suoi confronti: «Essere vicini alla tua assenza. Pronti ad abbandonarsi, a non cercare più, a essere trovati. Trovati da una parola in cui il mistero non abbia esaurito la sua fiamma»[13]. Per accenni, vengono richiamate due opere dell’autrice, Figure di Nessuno e Passione dei remoti sentieri[14]. Ciò offre un’ulteriore conferma del carattere dialogico di Dovunque acqua sia voce, libro in cui il poeta non si limita a riflettere su di sé, ma intreccia la propria parola a quella di scrittori del passato e del presente, ricorrendo talvolta alla pratica della cripto-citazione o della variazione su frasi altrui. Sempre in questa prospettiva, dev’essere ricordato il fatto che egli è anche traduttore, cosa significativa poiché ai suoi occhi «tradurre è ritrovare lo straniero che abita dentro ciascuno di noi, lo sconosciuto, l’altro io»[15].

Nel libro di Brancale, ogni elemento reca in sé il germe del suo contrario, è fonte di gioia e nel contempo di strazio:

«La cosa che mi è più cara al mondo è la luce. La luce di Aliano che penetra le argille. La luce del mare di Salerno e quella delle albe a Venezia. […] La luce è una ferita nel buio della carne».

La condizione stessa di chi scrive appare pensabile come grazia e colpa, ricerca della parola e tentazione del silenzio, prossimità al fuoco e caduta mortale nell’acqua: «Chi gioca col fuoco, prima o poi, brucia. Chi gioca con l’acqua annega. Vuole annegare di un gioco più alto del fuoco. Vuole galleggiare come una barca nelle acque della non vita. Chi gioca con la parola ammutolisce»[16]. Questo «sentimento del contrario» può a volte indurre Brancale ad assumere posizioni opinabili, come quand’egli, dotato di vasta cultura e di una voce individualizzata, elogia l’ignoranza o si dice stanco della propria identità. Ma può anche consentirgli di notare il coesistere di diversità e prossimità quale si riscontra, ad esempio, nell’amicizia: «Due amici parlandosi nel movimento dell’intesa conservano una distanza infinita, quella separazione necessaria, a partire dalla quale ciò che separa diviene unione»[17]. E non a caso vengono richiamati nel libro amici defunti come Castor Seibel e John Giorno.

Dovunque acqua sia voce[18] costituisce un’opera suggestiva, in cui passi dall’andamento di aforisma si alternano ad altri di carattere quasi diaristico. La sostanza di tutte queste prose poetiche è comunque ravvisabile nello stretto rapporto che viene stabilito fra cose a prima vista opposte: natura e cultura, esperienza e riflessione, lettura e scrittura, io e non-io, amore e disamore, vita e morte. In tal senso, il volume presenta anche un aspetto sapienziale, affidato a formule misteriose ed efficaci. Come queste, a cui possiamo lasciare l’ultima parola: «Quando hai raggiunto il deserto del tuo destino, raccogli il miraggio»; «L’invisibile è qui, sempre alla nostra portata. Chi è capace di fare a meno della vista può vederlo»; «Al di là della polvere c’è un passato senza impronte»; «La poesia deve infrangere gli specchi»[19].

Giuseppe Zuccarino

*Per gentile concessione dell’artista, un particolare di uno degli acquerelli di Miquel Barceló che accompagnano il libro. © Miquel Barceló.


[1] D. Brancale, Dovunque acqua sia voce, Milano, Edizioni degli animali, 2022, p. 5.

[2] Cfr. Eraclito, I frammenti e le testimonianze, tr. it. Milano, Mondadori, 1980, pp. 73 e 27.

[3] Gaston Bachelard, L’Eau et les Rêves. Essai sur l’imagination de la matière, Paris, Corti, 1942; Paris, L.G.F., 1993, p. 13.

[4] Dovunque acqua sia voce, cit., p. 7.

[5] Pascal Quignard, Vie secrète, Paris, Gallimard, 1998, p. 102 (tr. it. La vita segreta, Milano, Frassinelli, 2001, p. 72).

[6] Dovunque acqua sia voce, cit., p. 9.

[7] Ibid., p. 11.

[8] Ibid., p. 13.

[9] Ibid., pp. 12-13. Cfr. E. Jabès, Désir d’un commencement Angoisse d’une seule fin, Saint-Clément-de-Rivière, Fata Morgana, 1991 (tr. it. Desiderio di un inizio Angoscia di un’unica fine, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2001).

[10] Ibid., p. 24. Di questo rendeva già conto una raccolta poetica precedente: D. Brancale, Per diverse ragioni, Firenze, Passigli, 2017.

[11] Dovunque acqua sia voce, cit., pp. 30-31.

[12] Ibid., p. 43.

[13] Ibid., p. 62.

[14] Cfr. R. Giorgi, Figure di Nessuno, New York-Norristown-Milano, Out of London Press, 1977 e Passione dei remoti sentieri. Una lode dell’asino, Salerno-Roma, Ripostes, 1994.

[15] Dovunque acqua sia voce, cit., p. 56.

[16] Ibid., pp. 70-71.

[17] Ibid., p. 96.

[18] Il titolo del libro coincide con l’incipit di una breve lirica dell’autore, che si legge a p. 115: «Dovunque acqua sia voce / quello che sei a partire dalla riva del corpo / la piena dei silenzi dispersi in fondo alla gola / e grida, grida di pietra / nell’attesa / quando si fa greto il tempo della tua memoria».

[19] Ibid., pp. 76, 78, 93, 111.

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