11 Agosto 2018

“Dobbiamo tornare alla grotta, alla pergamena (e Stalin è un ditale)”: riscopriamo Jean Cau, ribelle alla stupidità odierna. Ovviamente impubblicabile

C’è una cosa che non sopporto. Non sopporto che mi impongano cosa devo leggere. Eppure, sappiamo che la stortura, il peccato originale, è proprio qui. Decido cosa devi leggere. Ti educo a leggere ciò che voglio io – letteratura ‘edificante’.

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Ora. Per me si ‘edificano’ le case, non gli uomini. Chi ha voluto educare o ‘edificare’ gli uomini ha dovuto edificare, anzi tutto, la ghigliottina o i campi di lavoro. Di solito, in effetti, non si ‘educa’, si ‘ri-educa’. Siamo educati, per natura, infatti, a obbedire a noi stessi, alla nostra fame.

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Resta il fatto che ci sono autori e libri che ‘bisogna leggere’, ben installati nel canone del perbenismo – e altri che non bisogna neanche nominare. Come lui.

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Cau MondadoriLe notizie più intriganti in merito a Jean Cau, le leggo dalla penna di James Kirkup, che quest’anno farebbe cento anni, non fosse morto nel 2009. James Kirkup è famoso – povero lui – per aver scritto nel 1977, su Gay News, un poema in cui marca il suo possente amore omosessuale verso Gesù. Il poema s’intitola The Love That Dares to Speak Its Name, è stato perseguito per legge e giudicato blasfemo dal tribunale d’Albione. Letto oggi il poema fa tenerezza, è delicatamente osceno (un centurione si eccita a scavare il corpo crocefisso di Gesù: “Questa è la crocefissione passionale e beata/ la soffrono, pazientemente e con godimento, gli amanti dello stesso sesso”). All’epoca, più che altro, Kirkup firmava ‘coccodrilli’ per l’Independent e attacca subito così, qualche giorno dopo la morte di Cau – accaduta il 18 giugno del 1993: “è stato uno dei principali personaggi letterari e intellettuali della Francia postbellica”. Addirittura.

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James Kirkup gode nel titillare il tasto del gossip, così di Cau ci dice che prima “abbraccia l’ideale esistenzialista nei cafè intellettuali esistenzialisti”, insieme a Jean Genet, ad Albert Camus, a Jean-Paul Sartre. “La loro musa era Juliette Greco e Cau ricorda di averla vista ballare a piedi nudi fuori dalla chiesa di Saint-Germain-des-Pres, nonostante la ruvidezza dei ciottoli”. Ruvido, piuttosto, divenne lui, Cau. Pubblicista di talento, scrittore formidabile (La pietà di Dio vince il Goncourt nel 1961 e viene tradotto l’anno dopo da Roberto Cantini per Mondadori, nella collana ‘Il bosco’, tra Marcel Proust e Samuel Beckett e Ernest Hemingway), sceneggiatore di pregio (Borsalino, con Alain Delon e Jean-Paul Belmodo e Il ribelle di Algeri portano la sua firma), divenne segretario personale di Sartre, salvo scaricare Sartre (“Non gli devo nulla, eppure gli devo tutto – è un prodigioso pugile dell’intelletto, ma senza alcuna traccia di sensibilità”, disse di lui, rimarcando che la rinuncia al Nobel da parte del filosofo fosse una mera operazione pubblicitaria) e “iniziare una brillante carriera come pamphlettista di destra, nella tradizione dei Mauriac e dei Raymond Aron”. Diciamo, stando nel ring del gossip, che sfotteva Hemigway – diceva che di Spagna sapeva nulla – scrisse che Mitterand “pare Dracula… si muove tra le tombe polverose del Pantheon come una statua di gesso”, sfotteva tutta la gauche e fu, in era progressista, un imperdonabile antimoderno.

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Il fatto di non essere ‘dalla parte giusta’, ha esiliato Cau dall’editoria nostrana – d’altronde, ora che, pare, la destra è al governo, pare che di questo strepitoso anomalo freghi a nessuno, nessuno sa chi è, siamo al sovranismo dell’ignoranza da qualche decennio. In Italia, al di là del romanzo edito da Mondadori – e mai più ristampato, perché poi Cau è diventato uno dei ‘cattivi’ – Cau è stato stampato da Volpe (Il papa è morto…, 1969; Le scuderie dell’Occidente, 1973; Il cavaliere, la morte e il diavolo, 1979), da Longanesi (Toro, 1962), da Vallecchi (Un passione per Che Guevara, 2004), insomma, è roba che risale a valanghe di anni fa, introvabile. Noi proponiamo dei brani da Il popolo la decadenza e gli dei (Edizioni Settecolori, 1996), in particolare stralciando il testo di apertura, Elogio sconveniente del pesante, dove Cau, pensatore d’acciaio ma con l’agilità di un Cassius Clay, parte dai “rasoi Bic, in plastica gialla, ‘usa e getta’”, per compiere una micidiale messa in questione del nostro mondo, dell’Occidente imbarbarito dallo stipendio fisso, dai consumi, dalla viltà. Fulgida delizia stilistica francese: gusto per l’eccesso, arguzia provocatoria, stile provocante. (d.b.)

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CauOggi bisogna stare attenti al proprio sguardo, evitare che si ingorghi e rigurgiti, come una fogna che non può più inghiottire rifiuti. Bisogna allenarsi continuamente alla polizia. Non avere la tv, non andare al cinema, è già un buon metodo. È uno dei miei segreti. Una donna mi indica i suoi bambini: “Si sono svegliati male stamattina. Ieri hanno guardato la televisione fino alle 22”. Il mio dolore è tremendo. Mi risponde: “Hanno già dimenticato tutto, non è grave”. Sì, è grave, perché domani dimenticheranno tutto.

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Da poeta, Jean Genet aveva il genio di leggere attraverso i muri e di vedere quali spettacoli venivano dati dietro le quinte. In generale parlavamo di argomenti importanti – per esempio di Racine o di Giovanna d’Arco che, secondo lui, doveva essere stato un gran bel ragazzo – ma, quel giorno, siccome parlavamo di politica, appresi che Stalin era un ditale. Feci notare al poeta che Churchill e Roosevelt, a Yalta, che de Gaulle (ecc.) avevano incontrato un dittatore in carne e ossa. Alzò le spalle: “No!”. “Eppure…”. “Rifletta! Come vuole che Churchill dica a Roosevelt: ‘Ha notato che Stalin è un ditale?’. Avrebbe temuto di passare per pazzo. E Roosevelt faceva lo stesso ragionamento. E de Gaulle anche (ecc.). E se tutti vedevano chi era in realtà Stalin, nessuno osava rivelarlo”. “Ma gli accordi di Yalta, discussi aspramente e firmati tra Roosevelt-Churchill da una parte e un ditale dall’altra?”. “Certo! È l’interprete che ha fatto tutto il lavoro, perché anche lui si trovava in una situazione terribile. Come avrebbe potuto dire a Roosevelt, Churchill, ai marescialli, all’ufficio politico: ‘Ascoltate, non posso tradurre. Stalin non esiste, è un ditale’. Sarebbe stato fucilato. È evidente. È la perfezione ammirevole della dittatura. Questo non si discute”. “Lei sa un formidabile segreto”. “Ma no. Non ha capito niente. C’è solo una connivenza mondiale”. Ero convinto. Allo stesso modo, dite che, come Stalin, poesia, musica, scultura, pitture contemporanee non esistono e che ci sono solo parole, rumori, materia e macchie. Osate dire che vedete solo quello che vedete – un neonato, un ditale – e sentite solo quello che sentite. Osate proclamare che non vi commuovete per l’arte contemporanea e il partito strapperà la vostra tessera e vi espellerà. Non avrete nessun peso…

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Il gesto perde ogni solennità. Già mio padre, che si rasava con l’aiuto di una sciabola, mi scrutava con diffidenza, quando, non più imberbe, acquistai un Gilette. “Questo lo chiami rasoio?”. Mi feci – e lo rimpiango – avvocato del diavolo. “È pratico…” dissi, ignorando che un giorno questa vile spiegazione mi avrebbe condotto al Bic usa e getta e all’acquisto di un’auto piena di “circuiti elettronici” in cui ci si siede senza complimenti. Dove siete, giorni di settembre, quando saltavo sulla carretta della vendemmia, appollaiato in alto sul banco di legno come un imperatore sul carro trionfale? I grappoli, tagliati con l’aiuto di un’accetta, pesavano in mano e, quando uno era di eccezionale bellezza, si chiamavano da lontano gli altri vendemmiatori per esibirlo, con il braccio teso, come uno scalpo di cannibale se era nero, di viso pallido se era dorato. Con un colpo di reni si vuotava il secchio nella bigoncia. L’estate scorsa ho visto un mostro ronzare nelle vigne: una macchina per vendemmiare! Foglie, grappoli, avanzava, strappava tutto, ingoiava tutto. La sua ferocia, la sua voracità mi riempirono di spavento.

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Oramai c’è solo una soluzione, per non volare via, Bic in tasca, e diventare un coriandolo umano, sballottato e gettato ovunque. Ai coriandoli – lo preciso – perdono la leggerezza veneziana perché mi fanno sognare feste che non vedremo più, belle donne mascherate e vestite di broccati. A Venezia, sugli abiti neri delle vedove, avrei gettato coriandoli rossi. Presto sedotte dalla mia impertinenza, le avrei condotte nella camera del mio palazzo e lì, sulla neve del loro corpo bianco e nudo, avrei gettato coriandoli neri. Ecco un’altra catastrofe! Le vedove non vestono più di nero. Alle vecchie lo perdonerei, ma le giovani che errore commettono nel ritrovarsi pimpanti di colori dopo aver pianto il marito! Prima, tutte vestite di nero, si riconoscevano subito e il lutto era per loro un modo di annunciare la ritrovata libertà. A cinquanta metri si esclamava: “Ecco una vedova!”; poi, che fosse pallida o ben truccata, presto la si corteggiava. Se era pallida, dovevamo consolarla. Se era truccata, voleva dire che si ritoccava con i belletti per invitarci a sedurla senza troppi sforzi. Una vedova nuda dal corpo immenso e bianco su un letto e, sulla poltrona, i veli neri… Sulla terra e nei cieli c’è visione più bella? Ma dicevo che, per non scomparire, oramai, si può solo risalire, ostinatamente, il corso dei secoli. Fino alla Genesi, alla grotta, alla pergamena, all’olio, all’uccello e alla piuma d’oca o d’aquila. Al momento in cui la scimmia smette di volare sull’albero per camminare sulla terra, pesantemente, e catturare, sulle pareti delle grotte, l’animale che fuggiva. Vedo, in quell’istante, due antenati, ancora molto villosi, ad Altamira o a Lascaux. L’uno dipinge un uro, l’altro un cavallo. Grugniscono e mai tra artisti si udì un dialogo più profondo. Si radono solo con lamine di selce intagliate, accendono il fuoco strofinando due pietre dalle quali sprizza la scintilla. Sono molto cambiato da queste aurore. La mia caverna è un’auto, i cavalli bevono benzina e il velo di pioggia è cancellato dal tergicristallo. Insomma, con grande vergogna collaboro con la plastica e col polistirolo; e, invece di chiamare da lontano il mio amico nella foresta, gonfiando il petto per gridare, gli telefono. Collaboro!

Jean Cau

Gruppo MAGOG