23 Marzo 2020

“Ogni Angelo è tremendo”. Piccolo discorso su angelologia e destino al volo

Dal trono della sua consapevolezza, il poeta è ciò che del suo scritto sa meno di tutti. Quando il poeta spiega la propria poesia, sceglie il trabocchetto, sa il tagliagole del paradosso. Ogni spiegazione è interessante per capire la mente, la testa, la meccanica dell’immaginazione del poeta – ma la sua poesia è da un’altra parte. Lo trascende. I primi versi della prima delle Elegie duinesi di Rilke sono memorabili perché ci fanno sentire il brivido carnale della nostra mortalità – innervano l’oscuro timore dell’insondabile. Li ribatto nella versione – che ha la mia età, è vecchia, superata, cadaverica ma è di ineffabile efficacia – di Enrico e Igea De Portu:

Ma chi, se gridassi, mi udrebbe delle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,
lo ammiriamo anche tanto, perch’esso, calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.

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Rilke aggioga la poesia all’angelo. La sua spiegazione, a Witold von Hulewicz, in una lunga e notissima lettera del 13 novembre 1925, è meravigliosa. “L’angelo delle Elegie non ha nulla a che vedere con l’angelo del cielo cristiano (semmai con le figure angeliche dell’Islam)… L’angelo delle Elegie è quella creatura in cui la metamorfosi del visibile in invisibile, che noi operiamo, compare già compiuta… L’angelo delle Elegie è quell’essere che è garante del fatto di riconoscere nell’invisibile un superiore rango della realtà. Per questo è tremendo per noi, perché noi, coloro che amano e trasformano, siamo ancora legati al visibile. Tutti i mondi dell’universo precipitano nell’invisibile, nella realtà più profonda che abbiamo accanto”.

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Il 21 gennaio 1912 la prima elegia è compiuta – occorrono altri dieci anni per raffinarle tutte. L’anno prima Rilke ha compiuto un lungo viaggio in Egitto, e “l’interesse per la cultura dell’Egitto antico durò tutta la vita; Rilke si documentò sul mondo egiziano dei simboli leggendo e consultando egittologi di valore” (Andreina Lavagetto). Della civiltà egizia lo affascina che è del tutto dedita all’al di là. Poco prima di concludere l’elegia, il poeta traduce L’infinito di Leopardi.

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Con cielo cristiano Rilke intende il regno ‘a fumetti’ delle parrocchie, forse, dove l’angelo, da creatura tremenda è risolta in compagno di giochi, in cartolina. Questa è l’idea di Romano Guardini, almeno, nel suo studio portentoso su Rainer Maria Rilke. Le “Elegie duinesi” come interpretazione dell’esistenza (Morcelliana, 1974). “Nell’Antico Testamento gli angeli sono esseri potenti, anzi terribili. Quest’impotenza si mitiga nel Nuovo, vi si colora di premurosità e d’interiorità. Tuttavia, l’angelo resta sempre sovrumanamente grande, e la prima parola ch’egli pronuncia verso l’uomo è: ‘Non temere’. Nell’arte paleocristiana, nei mosaici e nella pittura romanica, questa grandezza persiste viva ancora. Dopo Giotto la figura dell’angelo perde piano piano la sua imponenza trascendente. Diviene graziosa, anzi giocosa e dolciastra, talvolta perfino ambigua”. Tornando in Rilke: “L’angelo è ultrapossente e quindi terribile, ma né cattivo, né crudele. Egli non vuole distruggere e perciò si tiene lontano dall’uomo… l’uomo semplicemente non gli interessa. L’angelo sta a un’altezza irraggiungibile al di sopra dell’uomo”.

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In un pensiero su Gli angeli dei bambini – raccolto in L’Angelo. Cinque meditazioni, Morcelliana, 1994 – Guardini precisa la facile icona dell’angelo custode. “L’anima del bambino, delicata e preziosa davanti a Dio, è custodita dall’angelo. Ciò non significa che egli lo preservi da disgrazie e dolore. Certo non ha nulla a che fare con quelle persone celesti di sorveglianza, nelle quali l’ha ridotto il sentimentalismo. Egli deve guidare il bambino attraverso la vita reale; sulla strada indicata dal decreto divino, che conduce sempre anche attraverso sofferenza e morte. Non è suo compito preservare da esse, ma tutelare la sua salvezza eterna”. Sperimentare il tremendo – negli aspetti del dolore e della gloria, della fiamma che ferisce e che cauterizza – è vivere.

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Nel Primo Testamento l’angelo punteggia l’azione di Dio, è la sua parola convertita in saetta, mediatore dell’ineluttabile. L’angelo s’incunea nella storia dell’uomo, è guida, è “devastatore”, procura “spavento” (1 Cr  21); stermina (2 Cr 32), salva, è “buono” (Tb 5). Il salmista canta: “Benedetto il Potente e gli angeli/ infallibili esecutori degli ordini/ ascoltano la sua parola” (Sal 103, 20). Dell’angelo, nonostante la prossimità – siamo “poco meno degli angeli”, Sal 8, 6 – va colta la lontananza, la separazione: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”, scrive Paolo (Rm 8, 38). Dell’angelo va sussurrato il tradimento: egli che è la giuntura di Dio, il punto di congiunzione alla terra, può disgiungere, disfare.

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Nella Gerarchia celeste la disposizione angelica ha per lo Pseudo Dionigi funzione di disciplina, l’angelologia irradia regola e rigore – elevarsi, per altro, non sempre è un ascendere. “Secondo me, la gerarchia è un ordine sacro, una scienza ed un’attività che cerca di rendersi simile al divino per quanto è possibile e di elevarsi all’imitazione di Dio secondo le proprie capacità grazie all’illuminazione che Dio stesso le concede. E la bellezza che conviene a Dio, proprio perché è semplice, buona e principio d’iniziazione, è assolutamente scevra da qualsiasi dissomiglianza, trasmette la propria luce a ciascun essere nella misura in cui ne è degno”.

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Romano Guardini insegna che l’angelo può essere esperito per metafore e similitudini, tramite la moltiplicata sonorità del linguaggio: la sua ‘mostruosità’ non può essere addestrata in forma. “Non si possono portare le loro forme a un assetto statico, bensì fluiscono. Rappresentarle come talvolta ha fatto l’arte significa una falsificazione. Sono mostruosità, ma in ragione della sovrabbondanza del senso”.

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In una ulteriore meditazione, su L’angelo degli uomini, Guardini parte dal presupposto che “l’uomo d’oggi, anche il credente, non ha più alcun rapporto col suo angelo. Anzi, che la dottrina sugli angeli in senso assoluto non gli dice più molto. Non introduce alcun mutamento in questa constatazione pure il fatto che essi emergono di nuovo più fortemente nella poesia e nell’arte. Gli è che ciò ha un carattere puramente estetico. Per vederlo v’è bisogno di pensare a quanto vi corrisponde su un piano più profondo, cioè al sentimentalismo, anzi no, alle sciocchezze e al disonore di cui l’industria del Natale si fa colpevole con la figura dell’angelo. Di tutto ciò predicazione e modo di intendere la fede stessa portano molta colpa, poiché quale figura tratta dal mondo del sacro vi è stata certo corrotta più profondamente di quella degli angeli?”. Secondo Guardini, l’angelo è il nodo che lega l’uomo a Dio, la sua scelta nel visibile rispecchiata nell’invisibile: “La persona dell’uomo non è se stessa per le sole sue forze: vi è un essere che l’aiuta ad essere un ‘io’ e la protegge… L’uomo dunque non è un essere personale che si regga in se stesso solo – il che varrebbe a dire, per la sua limitatezza, un essere abbandonato – ma che vive in un’alleanza”. Guardini non nega, per altro, la presenza degli “angeli rinnegati”, che sanciscono l’altro lato del destino: che “l’uomo è oggetto di lotta”.

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Gli angeli sono cesure e feritoie, sono svolte, più simili alla regalità della bestia – metafore in metamorfosi del profeta Ezechiele. Va tenuto a bordo di labbra quel versetto di puro enigma, dato a Marco: Gesù, nel deserto, “stava con le bestie selvagge e gli angeli lo servivano” (Mc 1, 12). Per il Figlio è preparata compagnia di angeli e di fiere. Dice Maria von Thurn und Taxis che il primo verso delle Elegie giunse a Rilke per rapimento, durante un’inquietudine: “Rilke andava su e giù, sprofondato nei pensieri… d’un tratto, si arrestò, d’improvviso, gli era parso che nel fragore una voce si rivolgesse, a lui, ‘Chi, se io gridassi, mi udirebbe delle schiere degli angeli?’. Ascoltò, fermo, sussurrando, ‘E questo?, che cos’è, da dove arriva?’. Prese allora il taccuino che aveva sempre con sé, segnò quelle parole e altri versi che sgorgarono con naturalezza, da sé”. Su suggerimento d’angelo arriva la poesia – l’angelo è ciò che rapina. (d.b.)

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