13 Novembre 2018

Discesa agli inferi insieme a Seamus Heaney (portando in braccio Virgilio)

Perché la morte non divori la vita, dobbiamo occuparci dei morti – ravvivare il loro viso, riavviare la memoria – o deflorare il ricordo. Una grande vita si comprende dal rapporto che essa ha con la morte. Il cimitero deve diventare il nostro giardino.

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L’asse del mondo vacilla perché non abbiamo più parole che sappiano nutrire i morti – consapevoli che i morti sono il nutrimento della vita. La poesia è una parola che si rivolge ai vivi rammentando la morte; si rivolge ai morti consolando, frenando, fremente. Orfeo canta per entrare nel regno dei morti – poi canta la rassegnazione, l’euforia della nebbia, le rabbie solari, il verbo che riporta in vita ma non è in grado di far risorgere.

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L’oltretomba cristiano, come lo ha dettato Dante, lo ha ideato un poeta latino, pagano, Virgilio: il Dio biblico non eccelle in sapienza topografica, la sua è una tipografia del vuoto. Nella Bibbia l’aldilà è attesa del giudizio, strazio tra eden e deserto: i nomi con cui addobbiamo i mondi oltreterreni – Flegetonte, Cocito, Acheronte, Caronte, Cerbero, Minosse… – sono stati geograficamente sistemati in versi nel VI dell’Eneide, come si sa. Dante si affida a Virgilio perché il grande poeta latino è il solo che conosca i misteri di Ade: Virgilio è il poeta sciamano che ha descritto i mondi ignoti agli uomini. Come lo sciamano disegna la mappa degli altri mondi sulla pelle del suo tamburo, così, se leggiamo il VI dell’Eneide penetriamo negli inferi della memoria, andiamo a chiacchierare con i morti.

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HeaneyLa sequela è affascinante: il ‘mito di Er’ di Platone, Virgilio, Dante… poesia è custodire la sapienza dell’oltretomba. Non c’è altra domanda, in vita, tra l’altro, se non la domanda sulla morte: sono qui ora per domandarmi cosa sarà di me dopo; e che ne è, ora, dei miei amici defunti, mi sentono, cosa abitano, dove sono?

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L’esercizio quotidiano: immaginarsi l’oltretomba. Una volta ho immaginato l’oltretomba come una immensa piscina. I morti sono pesci. Ci guardano. Le bocche spietate dei pesci sono le stelle. Il cosmo è il vetro di questa gigantesca piscina. Altre volte penso che la memoria sia un atto di ostilità verso i morti – loro non desiderano essere ricordati, ma dimenticati, alleggerirsi dalla pena terrena. Così, scrivere è un sillabario dell’oblio.

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Penso che ci sia qualcosa di destinato nel fatto che l’ultimo lavoro di Seamus Heaney sia stata la traduzione del VI dell’Eneide, pubblicata postuma da Faber, nel 2016. Enea, l’uomo che “ho già visto/ e già sofferto tutto” (che meraviglia in inglese: for I have foreseen/ And forsesuffered all), va agli inferi a trovare il padre Anchise: prima di dare la vita a una nuova civiltà, in Italia, bisogna consigliarsi con i morti – cercare il padre nell’incredibile.

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Sono diversi i legami tra Heaney e Virgilio. Il primo è biografico: la traduzione – che è risposta a una richiesta proveniente da una lingua dell’aldilà – è dedicata al “mio insegnante di latino al St Columb’s College, padre Michael McGlinchey”. Il secondo è formale: “la silloge autobiografica in dodici sezioni, pubblicata in Human Chain (2010), era intitolata Route 110 e intrecciava eventi tratti dalla mia stessa vita sullo sfondo di alcuni ben noti episodi del libro VI”. In realtà, sono molti, svariati, altri i legami tra il grande poeta irlandese morto nel 2013, Nobel per la letteratura nel 1995, traduttore minuzioso – ha reimpastato la lingua di Ovidio e del Beowulf, avvertendo complicità con Giovanni Pascoli – e Virgilio. Li trovate, squadernati, in un libro magnifico, Seamus Heaney: Eneide Libro VI, che è la traduzione in italiano della traduzione dal latino fatta da Heaney sul corpo di Virgilio – una leccornia per chi s’infanga nel linguaggio – pubblicato da Il Ponte del Sale, per la cura di Marco Sonzogni (che ha costruito il ‘Meridiano’ Mondadori dedicato a Heaney), con la prefazione di Alessandro Fo – poeta e latinista che per Einaudi ha tradotto l’Eneide – e un testo di Teresa Travaglia dedicato proprio a snidare i rapporti tra Heaney e Virgilio (la traduzione è di Leonardo Guzzo e Giovanna Iorio).

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Se i rapporti tra Omero e il contemporaneo – sanciti dall’Ulisse di Joyce – sembrano lampanti – la figura di Odisseo come emblema dell’uomo d’oggi e l’Iliade come trama della Storia – vanno sondati quelli, sottili, raffinati, egualmente vitali, con Virgilio. Thomas S. Eliot, famelico nel giustificare la propria opera, nel saggio Che cos’è un classico? fa di Virgilio il centro del ‘canone’: “Virgilio si conquista la ‘centralità’ del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare”. In altro lato linguistico, Hermann Broch con La morte di Virgilio scrive il romanzo più estremo e problematico del Novecento; ora è Seamus Heaney a proiettare la sapienza di Virgilio nel millennio venturo.

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…perché forse la vita è una messa in scena ordita dai morti, noi viviamo per adempiere le promesse dei morti, siamo l’esatto esito delle loro frustrazioni, dei loro desideri irrisolti, delle loro voglie.

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Questo libro, davvero, non va letto – dovete strappare filatteri di versi e appenderli sugli assi portanti e portentosi della casa, anche sulle tegole: per proteggere la casa dagli assalti del male, perché sono le parole – mica il denaro – le benefiche, le portatrici di gioia anche quando sono intinte nel veleno e nella nostalgia. “Cosa cercano le anime?/ Cosa decide se un gruppo è respinto, un altro/ sospinto per le acque fangose?”; “Pensare/ alla terra col suo nome lo fa felice”; “…quelli che chiamano i Campi/ del Pianto si stendono da ogni parte/ in queste pianure, sperse lungo vaghi sentieri,/ appartate e coperte da boschi di mirto/ stanno quanti soffrirono un duro, crudele declino/ per via di un amore incessante”. Virgilio ha una tenerezza suprema nel decrittare i morti, nel decorarne il destino: una cura preveggente, prioritaria all’ordine poetico. Dettagli di lunare meticolosità – il ‘mirto’ associato all’‘amore incessante’, ad esempio – danno sostanza di bronzo, risonanza al giorno.

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HeaneyCerto, c’è l’esaltazione di chi surfa nella lirica: paragonare, in modo barbaro e spazientito, la traduzione di Heaney con quella di Alessandro Fo, per fare ginnastica nel labirinto poetico. “Dei che regnate sulle anime! Ombre affondate/ nel silenzio! Caos e Flegetonte, o voi spazi/ di tenebra muta, concedetemi di dire/ quanto di dire m’è dato, lasciato che riveli/ col vostro divino assenso ciò che profondamente ci trascende,/ misteri e verità seppelliti in grembo alla terra”: questo è Heaney che traduce Virgilio tradotto in italiano; questo è lo stesso brano nella versione di Alessandro Fo. “Dèi, che avete il dominio sulle anime, e ombre silenti/ e Flegetónte e Caos, luoghi muti in vastissima notte,/ dato mi sia, ciò che ho udito, narrare, e col vostro consenso/ schiudere cose sommerse nel fondo di terra e di tenebre”.

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A volte i morti sono così vivi che ne senti il sussurro, la lingua nell’orecchio – non è un cattivo esercizio intrattenersi con loro, con i morti – nostri o altrui: c’è una certa generosità nell’estrarre un nome dal cimitero e indagarne l’esistenza, inventarla con la cera, dialogare.

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I morti non hanno pace, non dobbiamo dargli pace, bisogna mordere tutto, perché tutto il resto è mortificante – non ci sono risposte da estorcere né catena del pianto, ma l’ultimo delicato toccarsi – i morti non hanno occhi, vivono l’esorbitante, siamo noi a doverli cucire, iride per iride, con un filo tratto dalle arterie.

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L’aldilà, in Virgilio, è il luogo dove alcuni scontano una pena (“Minosse, il giudice,/ presiede e agita l’urna, riunisce in congrega/ i morti silenti, cercando di stabilire/ la tempra degli uomini e le colpe”), dove altri rinascono; dove certi sono ulcerati dal rimpianto e altri sono beatificati dalla quiete in forma di bosco. L’oltretomba è sempre il luogo del giudizio – in contrasto al mondo terreno, che è evidentemente il regno dell’ingiustizia. Dal contraccolpo della colpa non ci si salva – la condanna alita. Come vorrei una benda bianca d’amore sui volti di tutti i morti, fino ad annullarne fattezze e fatti.

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Il momento più duro – più bello – è l’incontro tra Enea e Didone, che vaga “per l’enorme foresta”. Lui le parla e dice, con sbracata innocenza, ciò che non va detto: “Come potevo credere/ che dal mio distacco ti venisse un dolore così grande?”. Lei non parla, come già altrove – muta dal soffrire o celeste nell’indomita indifferenza? – “gli occhi fissi fermamente a terra, si volse/ e non diede cenno di aver inteso”. Sembra la scena di Orfeo ed Euridice, ma a contrario – lei è rassegnata dalla volontà di Enea piagato dal ‘compito’, inabile all’amare – e s’intravede la lettura di Rainer Maria Rilke. Per amare davvero, d’altronde, bisogna scendere agli inferi, senza braccio di Sibilla, sgraditi, finché Cerbero non ci abbatte consegnandoci a questo nulla. (Davide Brullo)

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