09 Febbraio 2020

Leggiamo Dino Campana, il poeta “dalle disperate certezze che lascia in bella vista il perturbante, il barbarico”

Chiunque ami la vita, l’ama proprio perché sa che non potrà mai davvero possederla. E, come ben sentenzia la prostituta Jodie Foster in Ombre e nebbia di Woody Allen: «C’è un unico tipo d’amore che regge: quello non corrisposto». Se così è, raramente l’amore per la realtà fu meno corrisposto di quello che le portò Dino Campana: siamo in Italia, nell’Italia piccola di fine Ottocento. Campana nasce irregolare, tutta la sua energia non può essere contenuta nelle stringenti convenzioni della provincia italiana di inizio Novecento, ma le sue fughe giovanili, i suoi viaggi all’estero, gli valgono l’inizio di una serie ininterrotta di internamenti psichiatrici. Per fortuna scrive. Per sfortuna è così fiducioso da consegnare l’unica copia dei Canti Orfici a Papini e Soffici, sperando in una pubblicazione sulla rivista «Lacerba», ma il manoscritto viene perduto e Campana quasi impazzisce davvero, per lo sforzo mentale di riscriverlo. Ma stavolta lo pubblica a proprie spese. Il libro gli vale tre anni d’amore tempestoso con Sibilla Aleramo, che se ne dice «incantata e abbagliata insieme», perché i Canti Orfici è un libro pagano, onnivoro, ipnotico, sconnesso, eppure chiarissimo, nel suo pedinare con certosina nitidezza i processi mentali del suo autore – e il fatto che Campana abbia potuto ripercorrerne le tracce a memoria, a distanza di un anno, è la prova che fossero quelli, che fossero «veri» – ma, invece di conseguire un risultato stento, oscuro e autoreferenziale, inseguendo sé stesso Campana incontra il mistero del mondo.

Dino Campana è un anticipatore, un uomo dalle disperate certezze, un inquieto che ha inventato la libertà che sarebbe stata di molto Novecento letterario ma, negli anni che è durata la sua vita, la sua arte irrequieta non gli ha portato troppa fortuna, perché non sa di buono e di pulito come la pace, non risolve i conflitti, ma lascia in bella vista il perturbante, il barbarico, qualcosa di irrisolto che si torce in fondo alle parole, sempre lievemente intorbidate da lacrime di pianto e riso – non dimentichiamo le staffilate e gli affondi della sua bella ironia – o da una metafisica malinconia, ma si agita anche al fondo delle parole più chiare, «come un peso sconosciuto sull’acqua» di questa nostra esistenza che però spesso è «calida di felicità, lucente».

Maria Grazia Calandrone

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La Verna. (Diario)

Sulla Falterona (Giogo)

La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese: così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu.

(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)

*

21 Settembre (presso la Verna)

Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente. Volava senza fine sull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio colomba, addio! Le altissime colonne di roccia della Verna si levavano a picco grigie nel crepuscolo, tutt’intorno rinchiuse dalla foresta cupa.

Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadini là presso. Sudato mi offersero acqua. «In un’ora arriverete alla Verna, se Dio vole.» Una ragazzina mi guardava cogli occhi neri un po’ tristi, attonita sotto l’ampio cappello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, una serenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto. Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoi occhi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.

Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavano le torri naturali di roccia che reggevano la casetta conventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.

Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce gettate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacificate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi selve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: la meta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevano fatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozioni della mia vita.

*

II. Ritorno

Salgo (nello spazio, fuori del tempo)
L’acqua il vento
La sanità delle prime cose –
Il lavoro umano sull’elemento
Liquido – la natura che conduce
Strati di rocce su strati – il vento
Che scherza nella valle – ed ombra del vento
La nuvola – il lontano ammonimento
Del fiume nella valle –
E la rovina del contrafforte – la frana
La vittoria dell’elemento – il vento
Che scherza nella valle.
Su la lunghissima valle che sale in scale
La casetta di sasso sul faticoso verde:
La bianca immagine dell’elemento.

*

Monte Filetto, 25 Settembre

Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio è troppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta bene la sua cantilena. È un’ora che guardo lo spazio laggiù e la strada a mezza costa del poggio che vi conduce. Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate batteva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma le foglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano senza rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre tra questi due alberi. Il noce è davanti alla finestra della mia stanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e curvare le cupe foglie canore come una messe di canti sul tronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa profilarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piace dai balconi guardare la campagna deserta abitata da alberi sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido sulla tappezzeria memore e sulle stampe. Il fiume  riprende la sua cantilena. Vado via. Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oro nello squittire dei falchi.

Dino Campana

*Il testo di Maria Grazia Calandrone e i frammenti di Dino Campana sono tratti da: Dino Campana, “Preferisco il rumore del mare”, Ponte alle Grazie, 2019

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