11 Gennaio 2024

“Sotto le stelle impassibili”. Dino Campana, poeta totale

Me ne andavo con i pugni nelle tasche sfondate,
e anche il mio cappotto diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa! ed ero un tuo fedele.
Quanti splendidi amori ho sognato allora! 

Arthur Rimbaud

“Essi erano tutti stracciati e coperti con il sangue del fanciullo”. Così – ma in inglese – si chiudono i Canti orfici di Dino Campana, il poeta notturno, elettrico. Che il fanciullo sia Dino è abbastanza evidente. Ma chi sono “essi”, chi sono gli squartatori citati nel colophon che riprende una poesia di Walt Whitman? Secondo Sebastiano Vassalli sono i genitori, i compaesani di Dino, gli psichiatri che lo ebbero in cura e gli scrittori fiorentini del tempo. Essi avrebbero dunque le mani – e talvolta le penne – coperte di sangue, sarebbero colpevoli dello sparagmòs: Dino Campana, il mat, fatto a pezzi.

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Il “mat”

Dino nasce a Marradi nel 1885 dal sobrio maestro elementare Giovanni e dalla religiosissima sgranatrice di rosari Fanny Luti. Il piccolo è intelligente e i suoi rapporti con la famiglia appaiono buoni – almeno sino alla nascita del fratello Manlio, il preferito di casa. Dino ha vari zii e uno di questi, Mario, morirà in manicomio. Dopo le scuole elementari il giovane si iscrive al ginnasio salesiano di Faenza e, nel 1901, frequenta da pendolare il Liceo Torricelli manifestando i primi disturbi nervosi ma anche uno spirito che non si piega di fronte all’autorità. Ai sopraggiunti, terribili contrasti con la famiglia seguono le derisioni dei compagni di scuola perché Dino appare diverso: legge sempre e compone poesie, marina le lezioni e si isola, fugge e sfugge. Nonostante qualche inziale fallimento scolastico, alla fine lo stralunato adolescente si diploma e, spinto dalla famiglia, accede all’Accademia militare di Modena. In attesa dei risultati frequenta Chimica a Bologna. La carriera militare non decolla e il giovane lascia anche l’Università emiliana per studiare chimica farmaceutica a Firenze. Ma a Dino la chimica non piace e ritorna a Bologna e poi, tra una fuga e l’altra, di nuovo a Marradi.

Nel 1906 il padre cerca di internarlo in manicomio ma impietosito ci ripensa. Tuttavia oramai Dino è per tutti il mat, lo scemo del villaggio. Sentendosi perseguitato preferisce vagare per i monti con libri e quaderni; spesso è ospite dei contadini, eccede nel bere, ha problemi con i carabinieri e ancora vagola da un comune all’altro. Anche se Ungaretti nega che il viaggio sia realmente avvenuto, nel 1907 il poeta sarebbe partito per l’Argentina da dove sarebbe rientrato qualche anno dopo riprendendo senza successo gli studi e iniziando a spedire le sue irregolari poesie agli scrittori allora più in voga.

Nel 1913 il viandante consegna a Papini e a Soffici il manoscritto con le sue liriche intitolato Il più lungo giorno. Secondo alcune fonti Dino avrebbe sollecitato una risposta che però non sarebbe arrivata. Il manoscritto sarebbe stato poi ritrovato a casa di Soffici solo nel 1971. Come si evince da una lettera a Giuseppe Prezzolini, il giovane poeta ha comunque bisogno di essere stampato per provare a se stesso che esiste. Pertanto, seppur amareggiato, non si perde d’animo e riscrive – lui dice “a memoria” – le poesie e le prose del suddetto fascicolo aggiungendone delle altre. Nel 1914, grazie a una raccolta fondi, escono i Canti orfici presso una tipografia di Marradi. Si tratta di un prosimetro che presenta un sottotitolo dal sapore provocatorio e vagamente nietzscheano: La tragedia degli ultimi Germani in Italia; a seguire l’epigrafe: A Guglielmo II Imperatore dei germani. Secondo Ardengo Soffici Dino era tarchiato, portava “capelli e barba di un biondo acceso” e aveva

“la faccia piena e di color roseo, illuminata da un paio d’occhi celesti, che esprimevano a un tempo sincerità e timidezza come quelli di certi bambini o di gente campagnola, cui quella di città mette in soggezione”.

Il poeta dal “destino fuggitivo” è anche un poliglotta ed emigra in questi anni in Svizzera, poi a Torino, a Pisa, forse in Russia svolgendo lavori saltuari e girovagando, ricorda Federico Ravagli, con un “cappello rotondo, di feltro e il giacchettone dalle tasche ampie, piene di fogli di carta, di libretti”. Nel 1915 è ricoverato all’ospedale di Marradi, ufficialmente a causa della nefrite. Invero il biografo Vassalli sostiene che la malattia sarebbe stata la sifilide, vale a dire il morbo dei poeti, di quelli maledetti, che frequentano bordelli e “troie dagli occhi ferrigni”.

Tra il 1916 e il 1917, mentre infuria la guerra, Dino corrisponde e convive per qualche settimana con la poetessa Sibilla Aleramo. Nonostante da ambo le parti la passione sia travolgente, Dino sta male, il disagio psichico si aggrava, l’amore non basta, non è semplice il passaggio dalla chimera alla donna, la distinzione tra il reale e l’immaginario si assottiglia, il desiderio straziante non conosce confini, l’ira e la violenza prendono talvolta il sopravvento – sfioriscono così, quasi nel sangue, le rose. Nel 1918 Dino è internato nel manicomio di Castel Pulci dove avrebbe subito, come Antonin Artaud, l’inumana pratica dell’elettroshock. Da qui non uscirà più sino al 1932, anno della sua morte che, stando ad alcuni resoconti non condivisi da tutti i biografi, sarebbe avvenuta a causa della setticemia. Il poeta infatti avrebbe cercato di fuggire dal manicomio e se si sarebbe ferito col filo spinato che avrebbe causato l’infezione ferale.

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 Dino e i suoi canti

Come per il contemporaneo Emanuel Carnevali la biografia di Dino Campana può risultare indicativa: Dino è “matto” non solo perché ha una terribile malattia che coinvolge il sistema nervoso, ma anche perché legge sempre, perché erra senza meta, perché non onora in modo convenzionale la famiglia, perché non è bravo in chimica, perché non ha un lavoro fisso, perché gli piace perdersi nel bosco, perché va a donne, perché s-formandosi non si conforma.

Dino è matto perché è Dino. D’altronde è così che, da che mondo è mondo, si etichettano i ribelli e spesso, appunto, i poeti. Ma se Dino fosse veramente matto – come sembra sostenere Umberto Saba e come invece negano Edoardo Sanguinetti e Carlo Bo – dovremmo concludere che le liriche orfiche siano soltanto irrazionali, stupidi epifenomeni della malattia, dell’oscurità che annebbia, obnubila la ragione? No, i poeti, financo quelli folli, sanno cosa sia la poesia che, pure nell’ebbro invasamento di un ipotetico dio, sempre è arte, incanalato nero sangue, tempesta in perle resa, Dioniso in Apollo. E questo vale pure per Dino – quasi forse massimamente per lui. I suoi canti sono infatti ricchi di riferimenti culturali e artistici, pieni di lavoro, di attenzione, desiderio trattenuto, sublimato, distillato. Il poeta utilizza con spontanea maestria ed estrema originalità le principali figure retoriche della tradizione poetica italiana e francese, le parole non riverberano a caso, le liriche non sono mai comuni, sono nate postume, in un certo senso pure oggi appaiono così, pure oggi ci dicono tutto – il tutto che non si può dire, che per fortuna non si capisce, che ci abbraccia coinvolge stravolge.

Dino il folle, sì, ma anche il cesellatore occultamente paziente, il portatore di una fiamma inestinguibile, il suggestionatore, il mistico, il pittore rinascimentale, il nume dell’immagine, della visione senza concetto, il sibillatore, il musico, l’amante – e, certo, sì, assolutamente, persino l’erotico, l’eroico furioso. E se leggendo i Canti ci si perde nella notte non è perché la mania non ami il logos, ma perché Orfeo, figlio dell’indistinto, scende nel Tartaro con la lira devastandosi d’amore. E anche Dino lo fa, si devasta nel canto d’amore, lo trae fuori l’amore dalla esclusione e dai rifiuti, dalle gioie ingenue, dalle oscure vie, dal vento che sussurra l’uguale e dalla melodia dei torrenti, dalle presenze inconsce, dalle crepuscolari parusie, dalla donna, da tutti i generi di donna. La donna, entità archetipa che trova vita, sorride mollemente nell’“aridità meridiana”, “ebete e sola nella luce catastrofica”. La donna, bestialmente femmina, da amare al di là del bene e del male, “matrona dal profilo di montone”, promessa di lascivia e lussuria, corpo ambrato, agile, sapore orientale, bizantino, perdizione mediterranea. Sterile voluttà dal corpo crudo, selvaggio, Circe dalle luci orgiastiche, strega, dannazione. E tenerezza incantevole che col sorriso ama. Leggerezza sulle ginocchia, promessa madre grazia. Sfinge, mistica rosa, sorella della Gioconda e poesia, enigma “sul panorama scheletrico del mondo”, “cariatide dei cieli di ventura” e chimera irraggiungibile che sempre tiene in mano e occhi e cuori.

La nostalgia, la sospensione, l’erotismo evocativo, l’utilizzo dell’imperfetto e l’uso ritmato delle ripetizioni, le numerose inversioni sintattiche, il simbolismo espressionista addormentano gli astratti istanti della scienza trasportandoci nella “dolcezza trionfale del ricordo” in cui il presente è valanga, reversibilità immaginifica. Il ricordo nell’immagine vivida è reale – colore suono carne – come la vita. La ricerca del tempo perduto suscita alla stregua di un sogno “profondità mistiche e sensuali” in grado di sciogliere “i grumi più acri del dolore”. Il poeta esperisce una dimensione diversa, pure quando non scrive: la realtà non collima con quella degli altri giacché vivere nelle radici non è come vivere nei rami. In una sorta di realismo magico che tracima impercettibilmente nel surrealismo il veggente rende partecipe la divina natura dello stravolgimento incantatorio. Così il tramonto avvolge col suo oro il “luogo commosso dai ricordi” e sembra che in questa scarlatta chiarità lo consacri. Dopo il sole la sera è arrischiante, è “languida amica del criminale, galeotta delle nostre anime oscure” e ospita la sacerdotessa dai piaceri infecondi. La sera è “fatua”, “veste di velluto” e nelle stanze che odorano di putritudine lascia nel cuore un sigillo, una “piaga rossa languente”. La prosa poetica procede come un flusso di coscienza e la frequente assenza di punteggiatura contribuisce a partorire un ambiente onirico in cui il dettaglio è parusia del mistero e dove, come relitti in un quadro di De Chirico o di Mirotaj, galleggiano – metafisica immobilità – scorci di statue, nomi, artisti e cantori del passato. Lo scrittore apre a un’“irrealtà spettrale” conducendoci, grazie alla polisemia allusiva dei lemmi, nel sostrato: sotto l’apparire attraverso l’apparire.

Talvolta Campana insegue faustianamente lo spirito che lo innalza sino al bianco delle cime montuose definite non a caso cattedrali. L’ascesa è platonicamente rappresentata mediante l’immagine di giovani aurighi che salgono verso i cieli eterei. Ma tale noumenico e trascendente piano è sempre fiume che va via taciturno, divenire a un tratto scosso dal boato fulminante della vita. L’anima è imprigionata nel corpo, ma la bellezza fa brillare nella materia l’invisibile idea e tutto appare allegoria di qualcosa che pur non essendoci c’è. La poesia apre l’iniziato della parola alla chiaroscurale verità e i vapori delle sacre erbe arse inaugurano camposanti di tra-sparente eternità:

“Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso le valli immensamente aperte. Il paesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal vento ne fu vivificato misteriosamente”.

La natura con le sue creature battezza il paesaggio cristiano. D’altra parte lo spleen cittadino mette in scena, senza idolatrarle, suggestioni futuristiche in un continuo alternarsi di ambienti naturali e orizzonti ferrei – tram vapori treni fragore fracasso catrame carbone acciaio velocità. Si muove dunque sotto il verbo urbano la dialettica tra natura e tecnica, essere e divenire.

Campana è il poeta dell’origine che lascia e che non lascia. E l’origine è financo l’Italia – Firenze, Bologna, Genova, Faenza, e sì, soprattutto, Marradi. L’origine dove il poeta ricompare è altresì una lingua che risuona, dialettale senza essere provinciale, traboccante di innesti estranei, di espressioni onomatopeiche. Una lingua cangiante, plastica, che sa essere veloce o lenta, adattata alle sensazioni, agli umori, ai sapori, ai luoghi, una lingua ideale, primitiva, naturale – la natura che si ausculta, che si prega, che si è. E la preghiera della poesia non è solo anabasi, verde senso di armonia, verticale inno di cedri, ma è anche – Baudelaire e Carducci sullo sfondo – catabasi infernale con la quale di Satana si invoca la pietà. Gnosticismo e vitalismo bruniano, nietzschianesimo poetico e, paradossalmente, retorica quasi francescana: nascita dell’uomo nuovo “riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile” che fluisce nella profondità della terra:

“Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio”.

Annunciando che l’orizzonte è di nuovo libero e che si può salpare per infiniti mari inesplorati, il poeta celebra La Gaia scienza e, come Nietzsche, non cede in nessun modo alla esaltazione della ragione astratta, alla quale, anzi, scrive di non aver mai sacrificato nulla. Se l’avesse fatto non avrebbe potuto abbandonarsi senza remore all’irreparabile, al dis-astro. Perciò, se Dino non esilia la ragione che incanala nella forma la dirompente lava della subitanea ispirazione, parimenti non le sacrifica la vita – da dove, d’altronde, sempre cantano, nella numinosa contraddittorietà della grazia, tutte le Muse. La poesia ci affida integralmente, senza illusioni, all’ineluttabile e il parere di Dino sull’amico Regolo, per molti versi il suo doppio, lo testimonia:

“Camminavo camminavo nell’amorfismo della gente. Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fenomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irresistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la parte immota. Ogni fenomeno è per sé sereno”.

Il poeta, sottile e straordinario fenomenologo, lascia che le cose siano e – come in Heidegger che interpreta il folle Hölderlin – le custodisce vivendole nel loro sereno, aurorale mostrarsi, dis-velarsi. Non c’è spazio per il domani, l’ideale è ora: la speranza ha a che fare col futuro, il poeta con l’immoto. Il poeta, il fanciullo, commuove adesso l’aria. Percepisce la “gioia barocca” che in un “dolce rumore d’ali sbattute” riempie senza fine il transeunte. E del viandante l’ombra prende il volo. Alta è allora la poesia – e ancora la chiamiamo la chiamiamo Chimera!

Luca Caddeo

Gruppo MAGOG