In quasi tutte le biografie campaniane si legge che all’età di quindici anni Dino s’ammala. Di un male oscuro e misterioso. Di una vertigine, di un formicolio dell’anima. Di un equilibrio divelto dai prodromi del caos. Fatto sta che intorno ai quindici anni Dino cambia (a Pariani, il medico che lo avrà in cura a Castelpulci, lui stesso dirà: «Dalla età di quindici anni, mi prese una forte nevrastenia, non potevo vivere in nessun posto»): si manifestano i primi disturbi nervosi. Se innescati o no da qualcosa di specifico non si sa. Si può supporre. Ne ho lette (e sentite dire) parecchie. Può darsi che non sia accaduto nulla (nulla di apparente, dico) e che Dino abbia fatto affiorare inconsciamente in superficie anni di tensioni e di carenze affettive.
Quand’io mi ruppi – oltre un secolo dopo – cominciai a camminare. Fino a quel momento non l’avevo mai fatto. Poi, tra i venti e i trent’anni, iniziai a dare agio all’inquietudine camminando. Prima sfiancando chilometri, spesso su strade asfaltate, eternamente attratto dal poco, dall’assente, da qualsiasi mondo periferico e sgualcito. Camminavo e coglievo fotografie. In seguito, sempre solo, fui inseguito dai sentieri. Scelsi i sentieri. «Andai nei boschi», come scrive Thoreau. E nei boschi – guarda caso – trovai proprio Campana.
La prima volta ero sopra Castagno, all’altezza del Passo del Muraglione. Lì, tra il Valico Tre Faggi e la Capanna Citerna, svetta un teatro di rocce che rivela l’infinito. Fino al mare. Quella mattina, era inverno – se chiudo gli occhi trovo un sole abbacinante – mi sedetti su una rupe e cominciai a leggere:
«La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solo canali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nel cielo di nebbie che le onde alterne del sole non riescono a diradare».
Siamo all’inizio del taccuino che Dino riempì durante il suo pellegrinaggio al santuario francescano della Verna. «Ma davvero Campana andò alla Verna?» mi chiesi. «Quindi forse passò anche da qui». Tutto iniziò così.
Tempo mezz’ora sbranai fino all’osso il suo diario, travolto da scosse devastanti di poesia. Due vagabondi: io il leggente, lui il viandante. Una goduria infinita. M’apparve Campana: in tutta la sua barbara, materica, poesia figurativa. Sudata, infangata, infreddolita. Quel giorno capii una cosa essenziale: che Campana deve essere letto camminando, che non è semplice adattare Campana a un luogo chiuso. Serve tanta, troppa, fantasia. Per quella che è la mia esperienza, per essere compreso (ma dev’essere veramente compreso?) Campana deve essere prima sentito. E per sentirlo – a me è accaduto – Campana deve essere letto andando, all’aria aperta, rischiando a ogni parola d’inciampare. Sui crinali di questo Appennino o tra i carruggi di Genova, a Firenze, o fra i binari della stazione di Bologna.
C’è – mi domando – nel mondo, un altro poeta che ha camminato quanto e come Campana? Rimbaud? Forse. Non me ne vengono in mente tanti. Allora un nuovo possibile ritratto di Campana potrebbe iniziare così: Campana iniziò a camminare nel milleottocentoeccetera. Il filtro cammino applicato alla poetica campaniana.
Da bambino capitava che Dino andasse per boschi con il padre, anche in compagnia del fratello Manlio. È proprio il fratello a raccontare quello che forse è il primo episodio agreste della vita di Dino:
«Eravamo andati a fare una passeggiata insieme col babbo nostro, e ad un tratto lo vedemmo sparire. Io tornai indietro, feci la strada di corsa per poterlo raggiungere e lo trovai che si era messo sulle spalle un carico di legna da ardere per alleviare un povero ragazzo che l’aveva raccolta e che lui aveva trovato stanco, spossato. Con un modo abbastanza brusco gli aveva tolto il fascello dalle spalle e se lo era messo lui, e lo stava trasportando verso la casa di questo ragazzo!».
Io riconduco sempre a quell’età – a quei suoi fatidici quindici anni – il momento in cui Dino iniziò a transumare. Dove andava, Dino, le mattine in cui svicolava dall’edificio scolastico? Un anno ne saltò addirittura ventuno in due mesi! Sono in tanti a parlare di lui come di un ragazzo appartato e solitario, schivo e ombroso, con un libro sotto braccio in fuga verso la campagna. Lui stesso riferisce di letture divorate in mezzo ai monti per sfuggire alle angherie di cui si sentiva orribilmente vittima.
I primi monti campaniani sono quelli di Campigno, ma anche quelli di Cignato, Gamberaldi, Orticaia. Dino lassù stava bene. Rifiatava. Sfuggito all’assalto nemico, si sentiva finalmente accettato. Cercare è la forza invisibile di chi cammina. E Dino, in montagna, cercava più che altro comprensione. Inseguendo una carezza che in fondo – ostinato e forse anche predestinato – trovò sempre nel vento.
La geografia campaniana è un groviglio inestricabile di passi inesausti. Quando nel maggio del 1940 le spoglie di Campana vennero riesumate per essere deposte nella cappella di San Bernardo, Carlo Bo, osservando i grossi femori del poeta, esclamò: «Ha camminato tanto».
Biondo-rossiccio, occhi azzurri, barba lunga e capelli strampalati. Chi ricorda Campana parla di un vento, di un uomo che arriva e che sparisce come il vento: sempre senza annunciarsi. Sempre senza un solo centesimo in tasca. Una delle pochissime volte che gli venne pagata adeguatamente la pubblicazione di una poesia offrì da bere a tutti gli astanti (come non andare col pensiero ad Alda Merini) finché i soldi furono finiti. Un generoso, Dino. Un puro. Un poeta.
Cosa fosse la montagna per Campana ce lo hanno suggerito – talvolta magistralmente – molti autori. Da Gianni Turchetta a Stefano Drei fino a Giovanni Cenacchi, poeta, autore di un libro – I monti orfici di Dino Campana – vestito di una rara delicatezza letteraria. Tanto è già stato detto.
Io penso che la montagna (ma anche la campagna) sia stata per Campana essenzialmente un rifugio, un ricovero – sicuro ma provvisorio – per l’anima martoriata dalle offese ricevute tanto quanto dalle proprie ossessioni. Il luogo dove andare a rimettere in sesto la parte spezzata della vita, soprattutto quando i pezzi dispersi fra le macerie appartenevano alla poesia. Non a caso è in montagna – fra le rupi di Campigno, oltre che nella soffitta della casa in Via Pescetti 1 a Marradi – che Dino si ritira per riscrivere il suo libro (non a memoria come si è scritto troppo spesso in tono epico, ma facendo in gran parte leva su fogli conservati chissà dove e chissà come), dopo lo smarrimento del manoscritto originario per opera di Ardengo Soffici.
Io penso che Dino in montagna sia stato felice. Che la luce di cui parla Sibilla in una sua lettera pura e struggente sia sì la luce dell’amore ma anche la luce del cammino, la luce dell’Appennino. Dino camminava per conclamata impossibilità di stare, siamo d’accordo. Ma camminava anche perché la sua poesia – a differenza di tanta altra poesia – è una poesia atletica, polmonare, che ha occhi grandi così. Occhi spalancati che chiedono musica e parole.
La poesia di Campana è poesia tattile, escursionistica, che abbisogna d’esperire. È pittura, è scultura di parole. Campana in manicomio non scrive perché non cammina, perché non sale, perché non s’immota, perché non si siede sotto un faggio o un castagno a respirare. Perché non urla alle bestie di sparire. Perché non ride come un matto a quell’alba di crinale che solo chi cammina, orficamente, sa.
Emiliano Cribari
*Emiliano Cribari è l’autore di “Sull’Appennino di Dino Campana”, emuse 2023