23 Giugno 2019

“Italia non ti posso lasciare”: su una poesia autografa di Dino Campana, il turibolo più inebriante della letteratura italiana. Potete comprarla a 32mila euro

Nella consultazione settimanale di maremagnum.com, alla ricerca di testi campaniani, ho provato il parametro di ricerca “prezzo decrescente”, e mi è apparsa questa meraviglia autografa di Dino Campana, una versione di “Domodossola” su un foglietto 17×21 a trentaduemila euro (il mio sogno sarebbe solo guardarla dal vivo e magari averla tra le mani indossando guanti di cotone bianco).

Nelle note bibliografiche dell’autografo è raccontata la storia del foglietto, che conoscevo, poiché Paolo Pianigiani, uno dei massimi esperti di Dino Campana in Italia, me lo aveva accennato.

Dino aveva scritto quella versione di “Domodossola” per corteggiare Bianca Lusena, un’amica della pittrice Bianca Fabroni, presso la quale era ospite Campana ad Antignano. Sulla base delle immagini a corredo dell’inserzione di vendita, ho riscritto con le spaziature più o meno simili alla scrittura vulcanico-ormonale di Campana, “Domodossola 1915”.

Come delle torri d’acciaio
Nel cuore bruno della sera
Il mio spirito ricrea
Per un bacio taciturno

Se là c’è un rosso giardino
Che cosa è bianco con il
turchino?

Sull’Alpe c’è una scaglia di lavoro
Del povero italiano, e non si sa
Tra i pioppi
Al margine degli occhi
bruni della sera
Se c’è una pastorella non
si sa
Che pare far vane le torri
Al taglio di un pioppo che brilla:
Italia
Ma come torri d’acciaio
Nel cuore bruno della sera
Il mio spirito ricrea
Per un bacio taciturno

Hai domati i picchi irsuti
Hai fatto strada per le montagne
Con poco canto con molto vino
Sei arrivata vicino
Là dove si poteva arrivar
Senza interrogare la giubba rossa delle stelle
Hai sfondato fin che si poteva arrivare
finché sei andata a riposare
Laggiù nello straniero suol
Italia non ti posso lasciare,
La scaglia dell’italiano senza cuore
Brilla: stai fida l’onore
Te lo venderemo con una nuova verginità.
L’edera gira le torri,
È la vigna della tua passione
Italia che fai processione
Con il badile prendi il fucile ti tocca andar
Fora la giubba rossa delle stelle
Questa volta con il cannone,
Italia che fai processione
Prendi il fucile guarda il nemico ti tocca andar
Guarda il nemico che poi non t’importa
Ti sei fatta a forzare la pietra,
Prendi coraggio se batti la porta
Questa volta ti si aprirà.
Cara Italia che t’importa
Ti sei fatta a forzare la pietra
Prendi coraggio questa volta
Che la porta ti si aprirà.

Nel paesaggio lente si spostano le rondinelle
Il paesaggio è costituito dal ponte cui rema al secondo fiume
L’oro e l’azzurro dei tramonti decrepiti si è cambiato in verde …
Ma come torri d’acciaio . ecc.

Dino Campana

*

Questa poesia era molto amata da Campana, in quel periodo di elettrico patriottismo, l’Italia era in guerra, anche Dino voleva parteciparvi, ma fu sempre scartato… scartato dalle armi, scartato dalla vita per l’altrui imbecillità “vagava sparso per il mondo”, e come lo ricordava Bianca Lusena a Gabriel Cacho Millet: «Scontroso, silenzioso pensoso e triste. Tutto il suo bagaglio era in una valigia di vimini ovale, che sembrava più una cesta che una valigia. In essa teneva qualche vestito, libri, in particolare parecchie copie dei ‘Canti Orfici’ […] una sciarpa nera, anche se era estate» (Lettere di un povero diavolo, p. 389).

n poeta che grida il Suo “Italia non ti posso lasciare” andrebbe studiato nelle scuole, ne andrebbe riconosciuto il valore, a partire dalla sua immagine (quante foto di Filippo Tramonti passano sul web sotto Dino Campana?!) , ma soprattutto andava ascoltato, in fondo, lui aveva bisogno di un palcoscenico, lui che in manicomio “si sentiva elettrico, era Edison”, lui che per dirla tutta era il più grande acquedotto dell’Italia del primo Novecento, dove bastava aprire il rubinetto e sgorgavano sillabe, metafore, aforismi e musica… la vita di un tipo curioso come Dino è musica allo stato puro, note che vibrano nel cervello e nell’anima (per chi ce l’ha) e devono liberarsi. Lo hanno sempre preso per il culo, prima quegli zotici a Marradi, poi quei due mascalzoni di Soffici e Papini a cui aveva dato il manoscritto de “Il più lungo giorno”, per farglielo riscrivere “tanto era matto”… matto un ca… con quei due occhi furbilli analizzava tutti i Fenomeni dell’epoca e strappava le pagine dei Canti Orfici a chi, secondo lui, non le avrebbe potute capire. Ho ancora negli occhi la scena del film di Roberto Riviello “Il più lungo giorno”, quando Dino viene lasciato in manicomio la prima volta e grida al padre: “…babbo, non mi lasciare”, mentre due inservienti lo portano via. “Maledetti toscani”, direbbe Malaparte… avete spento il turibolo più inebriante della letteratura italiana.

Silvano Tognacci

Gruppo MAGOG