Ho incontrato Buzzati solo una volta in vita mia, pur essendo la Val Belluna il mio luogo del cuore; e non fu a Belluno, né nella villa dei Buzzati Traverso a San Pellegrino. Fu a Venezia, in un pomeriggio di tanti anni fa, visitando una mostra di pittura alla Fondazione Bevilacqua La Masa.
Io avevo letto e amato i suoi tre libri di racconti, I sette messaggeri, Paura alla Scala e Il crollo della Baliverna, che mio padre – medico di gran fiuto e pass ione letteraria – aveva a suo tempo comprato appena usciti; e alcune di quelle novelle straordinarie (come Le buone figlie, Una cosa che comincia per elle, I ricci crescenti) perfettamente costruite nel solco della grande tradizione novellistica italiana, mi avevano colpito in un modo fortissimo e un po’ segreto, quasi costringendomi a rileggerle ogni tanto per impararle più a fondo. Ne fu anche profondamente influenzata la mia visione del bellunese, come offrendomi una chiave di lettura che mi rivelava la natura profonda delle sue montagne, delle sue ville, delle «vallette amene» coi ruscelli mormoranti – e dei misteri che esse celavano: dov’era la valle remota dove si svolge l’angosciante storia dell’Uccisione del drago? E la villa dei nobili signori Gron, con la terribile padrona di casa che rifiuta di salvarsi pur di non rinunciare al decoro e alla buona creanza? O l’altra villa, di cui Buzzati ci fornisce anche un plausibile nome veneziano, La Doganella, in cui ambienta la cupa tragedia de I topi? E il protagonista del Borghese stregato dove muore, se non nella nostra Susin di Sospirolo, all’albergo Doglioni, con i suoi anditi e la sua torretta segreta, il parco con le statue coperte d’edera e il fitto bosco del Comunale dove noi bambini combattevamo ogni giorno?
Ma quel giorno a Venezia l’incontro con Buzzati non fu particolarmente entusiasmante: mi strinse la mano, gli dissi che amavo i suoi racconti e i suoi articoli sul Corriere della Sera e che li leggevo d’un fiato, e lui rispose con un sorrisetto: «Si leggono facilmente, il difficile è scriverli». Pensai che avesse ragione, scrivere chiaro è davvero difficile (ero alle prese in quei giorni con un punto complicato della mia tesi di laurea sui mosaici ellenistici, che non mi riusciva di spiegare bene), ma nel frattempo lui si voltò da un’altra parte e se ne andò con degli amici. Ci rimasi un po’ male, ma poi finii per andarmene anch’io, in compagnia di un ragazzo che mi piaceva molto. Continuai però ad amare Buzzati e a seguirlo, e mi piacque anche Un amore, il discusso romanzo della sua estrema maturità. E quando – a inizio di carriera – mi arrivò la proposta di scrivere su di lui, accettai con entusiasmo: mi parve un buon segno che il mio primo libro di saggistica fosse su un autore che conoscevo e che amavo, in quella collana della casa editrice Mursia intitolata Invito alla lettura di…, in cui comparivano gli scrittori italiani più importanti del Novecento.
Nel frattempo Buzzati era morto, annientato dal cancro. Non potei chiedergli l’intervista che, dopo aver accettato di scrivere il libro, avevo subito pensato di fargli. Grazie a un amico contattai allora Almerina, che mi invitò ad andare a casa sua a Milano: e là trascorsi una giornata entusiasmante e strana, perché lei, vedova da poco, ancora un po’ frastornata e incerta sul da farsi, mi accolse con straordinaria amabilità, parlando di tante cose, di sé, di lui e del loro matrimonio; mi fece vedere e sfogliare i famosi quaderni, sui quali Buzzati aveva annotato – giorno dopo giorno, anno dopo anno – nella sua scrittura chiara e precisa, idee, impressioni, raccontini, pensieri, quasi sempre completandoli con disegnini a penna. «Qualche volta –mi disse Almerina – prendeva da lì qualche spunto per un pezzo sul Corriere. Allora li spargeva tutti sul divano e li sfogliava per ore».
Il grande soggiorno era molto accogliente e diviso in diverse parti. Sul davanti, di fronte al divano, una splendida vetrata lo illuminava tutto. La zona pranzo era all’interno, divisa da un gradino (così mi pare, dopo tanti anni…), con un tavolo da pranzo allineato al divano; e in mezzo, sopra lo schienale, il lungo ripiano con sopra i quaderni ben allineati. La stanza poi si allargava verso destra in un ambiente rettangolare con una piccola scrivania sul fondo. «È là – continuò Almerina in tono riflessivo – che scriveva. E dietro, vedi la libreria? Ci aveva messo tutte le traduzioni dei suoi libri. Non lo diceva in giro, ma ne era orgogliosissimo, perché nessun collega scrittore era tradotto quanto lui». E io pensai: «Forse Guareschi?», ma mi guardai bene dal dirglielo…
Ripensando a quell’incontro, oggi potrei forse dire che fu un’occasione perduta. Avrei – forse –potuto cercarla di nuovo, la bella Almerina dal veneziano nome settecentesco e dalla treccia viva giù per le spalle, farmi dare i quaderni da leggere, entrare nel mondo che lui aveva lasciato, nell’«officina dello scrittore», come si usa dire… Ma più che inseguire i frammenti del suo vissuto, o le tracce non elaborate della sua scrittura, avevo in realtà voglia di misurarmi con le sue opere compiute, di analizzarle nella loro verità, di inseguire le forme e le ossessioni figurative e creative di questo autore così importante ma così anomalo nel panorama italiano, affabile orgoglioso e segreto, che non aveva aderito a nessun movimento letterario, né al «realismo magico» di Bontempelli né al neorealismo postbellico, che parlava con nostalgica venerazione di eserciti e fortezze, di boschi animati, di animali antropomorfizzati e dolenti (o giustamente aggressivi) e di montagne percorse da occulte presenze: uno scrittore del nord che non amava raccontarsi, ma raccontare. Soprattutto, raccontare storie.
*Si pubblica per gentile concessione parte dell’introduzione di Antonia Arslan a: “Dino Buzzati. Bricoleur & cronista visionario”, Ares, 2019