
Camila Evia: l’Ofelia della grafica che fa risorgere i grandi poeti
Cultura generale
È impressionante la presenza di Emily Dickinson. Speculare, a contrario, al suo desiderio di reclusione, in vita – come se il suo corpo, dopo morta, fosse esploso in frammenti, in miriadi di luci, che ora ruotano tra le nostre dita. Tenuta insieme con lo spago, l’Himalaya dell’opera poetica di ED, come si sa, è totalmente postuma: in vita ED pubblica una manciata di testi, soltanto nel 1955, per cura di Thomas H. Johnson, è edita l’omnia della poetessa, un continente di 1775 poesie. Quest’anno, senza che vi sia il risonare di un qualche anniversario, sono accaduti diversi avvenimenti ‘editoriali’ che riguardano la Dickinson, di fatto il santo dei poeti. Apple TV ha appena divulgato il trailer della serie Dickinson: il risultato, scenografico, pittoresco, pugnala la pazienza degli esteti – Emily ha il corpo della ventiduenne Hailee Steinfeld, bella, californiana, attrice, cantante pop –, la poetessa è vista come protofemminista rock. Qui poco m’importa l’esito ma il fatto: la Dickinson, al contempo, impone, come poetessa, una intimità totale – le sue poesie comportano una conversione degli occhi –, d’altro lato è fenomeno pienamente popolare. La Dickinson piace, le sue poesie accompagnano il nostro eremitaggio mentale ma vengono scritte sui diari, incise su pelle. Solo in Italia, nel ring editoriale, per dire, Garzanti raduna “le più belle poesie d’amore” di ED (come Che sia io la tua estate), Ponte alle Grazie pubblica una scelta di testi tradotti da Vincenzo Ostuni (Tu fammi un disegno del sole), mentre per Einaudi Silvia Bre prosegue il suo lavoro di costante intrusione nel cuore della Dickinson (Questa parola fidata; ne abbiamo detto qui), senza contare l’infinita opera di divulgazione, anche teatrale, di Silvio Raffo. L’omaggio più delicato, sul crinale della pura dedizione, è quello di Lorenzo Gobbi, poeta, traduttore – di Rainer Maria Rilke, di Etty Hillesum – che a Emily ha dedicato un romanzo, Emily e il vento (Castelvecchi, 2017), e ora, come Emily Dickinson: la più piccola ero io (Castelvecchi, 2019), “un racconto e undici lieder”. In sostanza, Gobbi traduce 11 poesie della Dickinson, musicate da Diego e Fabio Gordi (in calce al libro c’è il ciddì); le traduzioni sono coagulate da un racconto, in cui l’autore interpreta i pensieri di Emily (“È tenera la terra – tenera è l’infinita, sincera maestà della Natura… Non le rimprovero nulla, né le chiedo niente altro”). Oltre a far risuonare la Dickinson nella nostra mente – le sue poesie tintinnano, cristalline – possiamo ascoltarla, in musica. E ripeterne alcuni istanti, dando gloria alle nostre stanze e indipendenza al nostro sguardo. Emily è un richiamo – irresistibile. (d.b.)
Certamente, il legame con Emily Dickinson non è “da lettori”, in qualche modo le sue poesie reclamano una intimità autentica, un seguace, una sequela, forse. Scrivi, d’altronde, che le poesie di ED “mi hanno accompagnato per decenni, anche in ore insostenibili”. Come è accaduto questo incontro?
Credo che “intimità” sia la parola esatta per definire ciò che le poesie della Dickinson riescono a creare in chi le accoglie: diventano presenze quotidiane, vere compagne di vita. Le ho incontrate molto presto, quand’ero ancora un ragazzo, e le ho prese con me: lette, rilette, meditate, imparate a memoria. Sono parole che non lasciano indifferenti, che agiscono nelle profondità dell’essere di chi le incontra. C’è stato un periodo, poi, segnato dal dolore personale, nel quale le sue poesie mi hanno sostenuto e accompagnato: potrei dire che davvero mi hanno salvato, se non sembrasse un’esagerazione – ma non lo è. Da allora, cerco il modo di ringraziarla.
Intendo: che cosa distingue a tuo dire l’evidenza assoluta della Dickinson rispetto ad altri poeti o scrittori?
Nel suo giardino di parole crescono insieme, legittimamente, la gioia e l’angoscia, la speranza e il dolore, la certezza del bene e il dubbio sulla propria capacità di accoglierlo, la verità e la finzione (nelle poesie troviamo molti alter-ego o proiezioni fantastiche: la principessa reclusa, la margherita, la sposa promessa, la strega, l’eretica, la fedele, l’esclusa, la sapiente, l’amica dell’immortalità, la bambina, la morente…). I morti sono legione, e i vivi sono presenze lontane, desiderati e quasi braccati a volte, intensamente amati ma anche fuggiti, sfiorati e lasciati andare con immenso dolore, a volte sfuggenti e oggetto di rimpianto, a volte invece minacciosi, troppo vicini. Lo scatto fulmineo che porta dall’elusività alla formulazione esatta e veritiera e inequivocabile è sorprendente. Ha sempre il coraggio di dire “io”, e se ne prende tutta la responsabilità senza umiliare nessuno e senza vanità alcuna: segue le proprie intuizioni, ma insieme dubita di sé – è una lezione da non disprezzare. Ha stima del mondo e della vita, ne avverte la dignità e il valore; non vuole cambiare il mondo né si illude di poterlo salvare, ma lo vuole interamente salvo a tutti i costi, nessuno escluso, comprese le mosche, i tordi e le primule; vede la regalità nelle margherite, nei passeri, nei pettirossi, nelle cose piccole e deboli – è questo forse che la rende così necessaria, così urgente e autorevole. Sente che tutto è connesso, e che nulla è senza legami: avverte come una rete di passaggi sotterranei che uniscono i diversi aspetti della realtà – dice che “la radice del vento è l’acqua”, ad esempio: le basta ascoltare la voce del vento per rendersene conto. C’è anche un altro elemento, che mi sembra importante: quando l’esistenza ci priva di tutto e ci riduce all’essenzialità del pianto (siamo fatti in buona parte d’acqua, del resto), sono molti i libri che allontaniamo da noi assieme a parole, persone, pensieri ed esperienze insensate e superflue (almeno, se viste da quella prospettiva, attraverso un velo di lacrime): Emily no, lei riesce a restarci accanto. Non auguro a nessuno di farne la prova, ma è così.
Mi pare, per altro, che tu cerchi dei legami particolari. Mi riferisco alle traduzioni di Rilke, di Etty Hillesum, a Paul Celan. Cosa significa allora leggere, attraversare la soglia di un poeta?
Significa entrare in un dialogo vivo, personale, vero, imprevisto e imprevedibile, che crea qualcosa di nuovo nella vita concreta, negli affetti, nella coscienza e nelle prospettive che informano tanto i progetti quanto la memoria, la postura del corpo e dello spirito, la presenza cosciente nel mondo. È prendere con sé, nutrirsi nel senso più letterale del termine: permettere che una parte di noi sia fatta di altro da noi, di qualcosa che abbiamo accolto e che abbiamo elaborato, modificato a nostra volta, assimilato e fatto nostro. È cercare senza sapere cosa; è accogliere perché qualcosa di unico e nuovo fiorisca in noi – noi stessi ne restiamo stupiti. Ciò può accadere solo con parole che ci siano affini, che siano adatte a essere così trasformate in noi e a diventare qualcosa di noi. Per me, è accaduto con il primo Rilke, quello del Libro d’Ore e delle Lettere a un giovane poeta (che ho tradotto rispettivamente per Servitium e per Qiqajon); con Celan, con Emily Dickinson, con Etty Hillesum e con pochi altri: ciascuno di loro mi ha nutrito e ampliato, cambiato e plasmato, magari mentre io risillabavo nella mia lingua le parole che avevo lasciato risuonare in me per molto tempo. Da Etty, per esempio (di cui ho curato e tradotto un “breviario” dai diari), ho ricevuto la conferma che non posso rispondere al male con il male, anche se del male devo “dire male”; e anche che nessuno può davvero costringermi a odiarlo se io non lo voglio, quale che sia il male che può fare e farmi, anche a costo di essere preso per un rinnegato o un pusillanime; mi ha aiutato ad accettare di essere solo di fronte a Dio e a non averne nessuna paura; e anche a comprendere che ciò che Dio fa per me è tutt’uno non solo con questa solitudine ma anche con il fatto che devo lottare per salvare un po’ di Dio in me e dunque nel mondo che mi circonda; ma la lotta decisiva, dice Etty, è dentro di noi. Da Celan, invece, ho imparato a vivere il lutto, a dirlo con parole esatte – e non è stato un dono dappoco…
Come nasce l’idea di tradurre in musica la Dickinson? Vorrei capire le difficoltà di questo lavoro di traduzione, la sua luce, l’ombra.
È nato in un modo un po’ strano, per tappe successive, negli anni… ho scritto diversi libri per bambini, in quartine di endecasillabi, e alcuni lavori sono diventati piccole “opere” in musica, messi in scena da scuole di canto corale e solistico e utilizzati nelle scuole primarie e medie. All’inizio, avevo pensato a una sorta di mini-antologia della Dickinson per i bambini, e così avevo cominciato a lavorare ad alcune traduzioni chiare e musicali, cercando quei testi in cui l’infanzia è più presente. Poi, grazie all’incontro con i compositori Fabio Gordi e Diego Gordi, miei coetanei, ho preso questo materiale e l’ho rifuso in una traduzione pensata per la musica, con regolarità metrica e attenzione alle figure di suono nel verso italiano: ho abbandonato l’idea di una scrittura per l’infanzia in favore di un progetto molto diverso. Si tratta, dunque, di traduzioni pensate come musica e finalizzate all’incontro con la musica: ciò ha comportato qualche rielaborazione abbastanza libera, ma innestata su un ascolto dei testi più che trentennale… I testi della Dickinson sono molto musicali in sé, e i compositori vi sono entrati con grande acutezza di visione, costruendo attorno alle traduzioni una liederistica attuale e colta ma comprensibile, chiara – modellata sui testi e sui loro significati, al loro servizio.
Nel racconto che coagula le poesie e la musica, ti fingi Emily: come è nato quel testo? Soprattutto: che rapporto c’è tra il poeta e la sua opera, tra le sue scelte esistenziali e le sue opzioni liriche?
È stato un passaggio ulteriore: stavo riflettendo molto sull’infanzia e sui suoi strascichi, nel bene e nel male, a livello della nostra elaborazione simbolica dell’esistenza. In Emily e il vento (Castelvecchi, 2017) avevo scritto una lunga lettera alla Dickinson per chiederle conto di cosa sia la gioia – ne parla, nelle sue poesie, con un tono di gravità davvero sorprendente; ora ho pensato a cosa avrebbe detto Emily della sua infanzia, e a questa immaginazione ho sovrapposto un po’ di ciò che avrei detto io della mia… Per alcuni bambini, il mondo degli adulti è tanto affascinante quanto spaventoso: vorrebbero vedere senza essere visti, ascoltare senza essere chiamati a interloquire, a volte addirittura essere dimenticati, stare nascosti e non poter più essere cercati. Nella nota che completa il volume, Benedetta Silj, analista filosofa, chiarisce molto bene queste implicazioni. Ho immaginato Emily ammalata, nell’ultima parte della sua vita, che dialoga con le sue poesie: non credo di essere andato poi così lontano dal vero, anche perché con le poesie, proprie o altrui, si può davvero dialogare… Ne è nato un monologo che in teatro funziona bene, mi sembra: vuole avvolgere le liriche in una riflessione mimetica, rimetterle in mano all’autrice, vederle dal suo punto di vista. Certo, è solo un tentativo, ma nasce dal fatto che io le sento vive. “La poesia, scrisse Paul Celan, “è un dono fatto agli attenti: un dono che implica destino”.
Del resto, si può scrivere poesia e prosa in molti modi, e tutti sono legittimi: per sfogo, ad esempio, o come auto-terapia, o anche per nostalgia, o per sovrabbondanza di senso e di gioia… però, se accettiamo la lezione di Emily (“accendere un lume e poi sparire”…), se facciamo nostra l’idea che il senso della vita è il prendersi cura nei limiti del possibile di ciò che è più piccolo e fragile, e che il migliore dei nostri sentimenti è “il desiderio di nulla profanare” (questa espressione è di Rilke), ecco che tutta la nostra vita ne è intimamente investita e rinnovata: dove nessuno sa – “nei sobborghi di un segreto”, direbbe Emily – qualcosa matura in noi e fa sì che il nostro quotidiano cambi. Impariamo la gratuità, per esempio; e la compassione, anche di noi stessi; rinunciamo alle pretese (Emily rinunciò persino a uscire dalla sua stanza…); ci mettiamo in ascolto; accogliamo doni anche mentre la vita ci spoglia di molto.