“Mi fa sempre gli scherzi”, mi dice, la giornata è calda – un caldo innaturale, come se gli ultimi ghepardi dell’estate abbiano deciso di accovacciarsi proprio qui, nella piana di Varese – il cielo è così azzurro che azzera ogni memoria – e lei ha una treccia tra i capelli e il profilo acheo, sfiato nell’incredibile, sembra la mia gemella. Glielo aveva detto, un tot di anni fa – sette, se non ho capito male – Mario, il fratello di Morselli – è volata fino agli Stati Uniti per trovarlo, piangere, parlare, rimembrare e regalargli l’orologio del papà – “diamoci un appuntamento in quel meraviglioso luogo che lei certo conosce a Giubiano, laddove… ho intenzione di trascorrere lunghi anni di pace silenzio e serenità”. Giubiano è un cimitero, e non è poi così dissonante la vitalità di questa ragazza nel regno dei morti.
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“Andiamo a trovare Guido”, mi fa. Sono andato a prenderla a scuola, come fossi la mamma. Guido Morselli. In qualche modo, ho percorso la via ‘morselliana’. Bologna – dove nasce, è Ferragosto, è il 1912 – Milano – dove cresce, fin da bimbo – Varese – dove muore, sparandosi, nell’estate di 45 anni fa. Forse non è un caso. Intendo: che agosto ci faccia visita in tardo ottobre.
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Al posto di un mazzo di fiori, le foglie. Linda si ferma, rapita dal caldo, elettrizzata dalle intuizioni, e raccoglie le foglie. Gialle. Belle. Alate. Un mazzo di foglie al cimitero. Le foglie morte, gialle, sembrano più vive dei fiori recisi, queste grida pacchiane che offendono le narici dei morti. “Fa sempre così… mi fa sempre gli scherzi…”, dice, elettrica.
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Linda ha rivissuto e ricostruito la storia di Guido Morselli: dopo la laurea in suo nome, ha pubblicato, nel 2009, le Lettere ritrovate (Nuova Editrice Magenta), ha trovato una manciata di testi sparsi, smarriti, ha scritto una biografia colta, informata, integralmente intelligente – per ora inedita – dello scrittore di Dissipatio H.G. Me la leggo rifacendo Morselli a ritorno – Verese, Milano, Bologna. Che bellezza: l’epistolario con Calvino, le perplessità di Vittorio Sereni, lo snobismo di Luciano Foà, le lettere a Benedetto Croce, quella vipera di Piero Chiara che malsopporta la fama postuma di uno scrittore diametralmente opposto a lui, antipatico e virile, virtuoso nel cinismo e virile in generosità. Povero Chiara, come dargli torto: un aforisma di Morselli rischia di mandare al rogo una pila dei suoi romanzi rococò.
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Mi sorprende la testimonianza di Dante Isella, il critico imperiale, apprezzato da Morselli. “…anche se i nostri rapporti hanno avuto modo poi di approfondire una conoscenza e una amicizia, in tutti gli anni successivi, Morselli non ebbe mai volontà o occasione di parlarmi di questo suo lavoro di narratore…”. Come si sa, Morselli è l’emblema dello scrittore postumo, quasi volutamente postumo – nonostante abbia avuto una aristocratica fame di fama. Nei decenni, Morselli è diventato una specie di scherno, di accusa all’idiozia editoriale italica, prima ostaggio dei baroni – e degli amici degli amici dei politicanti – ora un parto dell’ignoranza becera. Ma il punto penso sia più in là. I grandi scrittori intrattengono un rapporto autenticamente agonistico, di antagonismo con il pubblico, con il pubblicare. Senza questa crisi – sono un fallito?, tutti fanno schifo o sono io lo scandalo ambulante?, che senso ha scrivere, perché qualcuno dovrebbe leggermi soggiacendo all’imperio del mio genio? – la scrittura – perfino quella raffinata, tecnicamente adatta, edotta – resta sulla soglia del benaccetto. La grande scrittura, invece, è inaccettabile: reclama lo stordimento dal torpore, una smembrata ribellione.
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Francamente, non sono uno che va per tombe – per altro, non sono un fan di Morselli. Morselli mi affascina come uomo – ovviamente – la sensualità del perduto. L’opera l’ho frequentata poco – acceca l’avventata immaginativa, l’anomalia, l’angelica sfida – in una turbata solitudine – a decapitare il benestare letterario. Cees Nooteboom, in un libro molto bello edito da Iperborea, Tumbas, racconta che ha girato il mondo per onorare le tombe dei suoi scrittori preferiti. Con uno scrittore si parla autenticamente quando è morto, dopo essersi perduti e ritrovati nella sua opera.
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Comunque, Linda vuole così, Giubiano, io la assecondo, con cavalleresco stupore. I cimiteri mi danno serenità – da quanto tempo non vado a trovare mio padre, non sono ancora andato a salutare Simone, e sono passati nove anni, e Marco… Nei cimiteri leggi un nome, fai alchimia con le lettere, ti immagini un destino. Poiché tutto è finito, qui ogni volto può avere infinite possibilità.
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Il mausoleo dei Morselli. Altorilievo, in cima, a ornare il timpano. Linda mi mostra la tomba della mamma di Morselli, Olga, morta che lui aveva dodici anni; poi la sorella Luisa, amatissima, che muore nel 1938. Linda parla. Mi mostra la tomba del fratello di Guido, Mario, con una certa commozione – le pagine del viaggio statunitense sono tra le più intense della sua biografia. I caratteri dei nomi sono incisi e dipinti di azzurro, alcune lettere spiccano in rosso. Forse dovremo assemblarle in modo da dare avvio a una nuova generazione.
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“Morselli non voleva stare con i suoi…”, mi dice Linda. Poi parte a cercare la tomba del grande scrittore, nato postumo, che ha cercato – con un certo sano sadismo – l’incomprensione. “Mi fa sempre gli scherzi…”, dice. Giriamo mezzo cimitero. Ognuno vaga per le proprie memorie – un cimitero implica un impegno nel rimorso, una vittoria sui rancori e le ricriminazioni. “Mi fa gli scherzi e non si fa trovare”. Il gioco dura un pezzo. La troviamo. La lapide è barbarica, netta, senza frasi pietose né fotografia. Cruda come l’uomo che vi è sepolto. Sopra la tomba, a terra, un ciclo di rose e rampicanti. Sembra un letto per amanti angeliformi. Cosa si può dire a un morto? Ai morti, piuttosto, bisogna dare ascolto.
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Che faccia ha Morselli, ora? Intendo: i morti, che faccia hanno? Forse sono bestie, piccole volpi bianche, oppure sciami di serpi, che fluttuano di notte sulle nostre palpebre. Magari api, a ronzarci i desideri. Forse sono voci, i morti, bisbiglii, anatemi, implorazioni; o forse l’aldilà è un oceano e i morti sono pesci, a spirale. Linda, che traffica con gli andati, lo sa, forse. Ma io non domando, io devo ancora capire che viso ho, io.
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Mentre guardo la lapide – nitida come ciò che non smette di attenderci – Linda sale le scale, brevi, del mausoleo Morselli. “Da qui si vedono…”, mi dice. Intende dire che da lì i parenti riescono a spiare un pezzo della tomba di Guido. Che rapporti hanno, da morti, tra loro, gli uomini non più umani? Noi abbiamo una idea dantesca dell’aldilà: i morti hanno volti e fattezze simili a quelle che avevano in vita. E se fossero altro, se non ricordassero nulla, se fossero liberi, fieramente, di sé, potendo essere tutto il resto? Se potessero capire, ora, ciò che gli era precluso, allora? Se una riconciliazione è possibile… La scrittura, forse, è una dannazione: una corda che perennemente lega il morto alla vita.
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La i di Morselli se l’è mangiata il suo estro: Guido Morsell è un nome dandy per i sette cieli e i trentatrè paradisi, farà voglia ai santi. Il caldo esagita le ombre: mi pare che la i di Morselli sia volata via, che indisciplina. Bisognerebbe inventarsi un racconto con protagonista ‘Guido Morsell’, o raccontare di Morselli che ha preso e morsi e a borsellate la sua sua i, non voleva saperne di essere un nome qualunque, lui.
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Dopo aver visto la tomba di Morselli, mi pare così viva la sua opera. Come una specie di memento, fotografo una lapide, con fotografia del defunto, nome, data di nascita e morte, sollevata a mezz’aria da una carrucola. Chissà dov’è il corpo del defunto, mi dico, forse è scappato. Bisogna calare con una tenerezza più profonda tra i morti. Dovrebbe essere una abitudine, una disciplina: passeggiare tra i morti, questa folla di nomi che ti sommerge.
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Linda crede negli oracoli, nella posizione degli astri rispetto all’infima volontà della nostra nascita, nei vaticini e nelle premonizioni. Io penso al privilegio della mortalità, che ci fa vivere con i denti negli occhi. Solo chi ha sofferto a lungo, traendo la gioia dalla tragedia, sa penetrare vite così tenebrose come quelle di Morselli, senza affogare. Questo non lo dico, però, perché parla sempre Linda, con i vivi e con i morti, il silenzio le pare troppo squillante. (Davide Brullo)