Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per il Medio Oriente, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, ammorbato a Tabriz, Nathan è in frantumi di delirio. Mentre Vera lo attende, ha tenda per lui, Nathan è coinvolto in eventi efferati della Storia, quasi fosse un sonnambulo. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.
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Agosto 1950, Mashhad
Qui, dove il sole viene fabbricato ogni giorno da angeli orafi la neve è una apocalisse. Come se Dio si fosse spogliato di ogni prestigio, precipiti, dissolto, al di là della commozione, smentito da un impulso al suicidio. Da destra – di cosa fa il calco la neve?, di chi è al servizio e perché e per sottrarci quale segreto? – appare l’impala, o qualcosa di simile, e svolta sulla neve, vola, non è degno di lasciare impronte, è pura anima – questo bianco barbarico, Vera, mi rimanda alla tua santità, la grazia con cui sgravi il piacere dagli altri corpi, la malia albina con cui disintegri gli sguardi. Quasi all’unisono, come frammenti d’oro convogliati in un’unica lastra dal magnete, scattano dalla neve – da dove?, addestrati da quale parola?, perché? – i ghepardi – e danzano da un lato all’altro della piana, con l’avidità cauta, distratta di un falco – di nessuno la neve testimonia la vita ed è muta anche di fronte alla previsione di morte, alla sua ambizione, perché è l’indifferenza il potere della neve. La paura scintilla sui nervi dell’impala e rende la bestia bellissima – la fame vivifica lo splendore dei ghepardi – l’atto cruento è naturale ed è nella corsa o nella fuga che un essere è superbo. A cerchio i ghepardi, che agiscono con armonia musicale, sono cinque, si chiudono sull’impala, come una palpebra sulla pupilla blu, e anche quando il sangue esplode hanno cura, i predatori, di non lasciare traccia, per non offendere l’impunità della neve, e vanno, scaglie di luce scaturite da un cratere, e la neve non è un patto con i morti, è la resa di Dio.
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Li falciarono tutti, Vera, proprio così, come si bonifica un campo e il meticoloso giardiniere era una mitragliatrice, anzi, diverse, innumerevoli, una sanatoria in proiettili – i Sarmati, quella teologica ferocia, il desiderio che ci custodisce tutti, una terra, una genia felice, la casa che si fonda sullo sterminio, un coraggio tanto spazioso da terminare in poema, volti tratti da un vocabolario dei perduti per diventare, per la durata di un acquazzone, re – uccisero anche le bambine che mi nutrivano – una l’avevo chiamata Vera per dare un corpo alle mie illusioni nottambule – neppure lei, neanche il gusto di violentarla, il soldato le staccò la mascella con la foce del fucile, le ruotò il collo e a lei, l’altra Vera, che impaniava di preghiere il mio risveglio, sembrò crescere un altro viso sul cranio, come le divinità ostili sumere, con due facce, per maledirti anche nell’aldilà. Gli inglesi sono concreti soprattutto nell’omicidio – i Sarmati, rediviva minoranza, non erano altro che un’astuzia di mosche – Arthur Collingworth, si chiama il comandante, titolato, e speculai, quando volle vedermi, la sera stessa, su quel worth, pensando che il valore, la saggezza, il carisma crescono in concordia con una spensierata spietatezza.
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Sono amato, Vera – anche da te – è vero? – questo non smette di sorprendermi – mi pensano sacro – un sacrario di ovvietà, semmai – anche loro – un demente voluttuoso, che evolve nel mentire – non posso più leggere le tue lettere, sei una fattura di luce, forse mia sorella è un assalto, mia sorella è un dio, mi dico, e il patto che mi congiunge a te è superiore alla nostra stessa volontà – se mi sono unito carnalmente alla dea dei ghetti è naturale che il mio destino sia il vagabondaggio e l’inquietudine, perché la mia anima è sotto la tua lingua e la mia intelligenza nella tua narice sinistra. Essere amato è stabilirsi nel pericolo – è inevitabile non corrispondere all’amore, deludere – e il mio ruolo è evitare il dolore che succede alla delusione.
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Collingworth, l’inglese, pensa che possa essere utile nel perfezionare i rapporti con gli arabi, mi ritiene una spia, forse lo sono – è basso, bianco, un efebo, incapace di unirsi ad altri corpi se non per ucciderli, credo, ha corde al posto degli occhi – poi accadde la neve e pensai che ti fossi sciolta nel corpo di un altro, Vera, e fui preso dal desiderio di snocciolare la Terra, di alienare i deserti a un grammo di polvere sulle ciglia, e predarti, ovunque, e riportare la tua carne a ciò che è stata, un bracciale intorno alle mie gambe, un collare, l’incollatura del mio valore alla volontà della Storia, alle volute del tempo. Collingworth alleva ghepardi – questi uomini mandanti del potere, che agisce senza schema, senza personalità, senza potergli dare dottrina, esplicitano sempre la loro integrità binaria in una bestia, in un simbolo, in una creatura che senza mediazioni designi ciò che vogliono essere. Chiama i ghepardi con i nomi dei grandi imperatori di Bisanzio – Basilio, Eraclio, Leonzio, Niceforo, Giustiniano – ne conforta la rabbia leggendogli, passeggiando nei pressi delle gabbie, passi dalla cronaca di Niceta Coniata sulla caduta e la distruzione di Costantinopoli – hanno cinghie azzurre al collo ed egli, il generale inglese, si occupa di limare i loro denti come altri appiccano i ceri o dipingono le icone o sgranano un rosario. Gli ricordai che Zoe, l’imperatrice bizantina, si era sposata quattro volte e quattro volte aveva fatto uccidere i propri mariti, “sapeva che regnare è sedurre e che l’amore partorisce la morte”, disse, e gli dissi di te, che mi hai ucciso ad ogni lettera per farmi risorgere in quella seguente, e ho preteso che ti consegnassero questi fogli. Egli sorrise, centellinando i nomi degli amanti di Zoe, le sue labbra sono grigie e dalla bocca potrebbero esplodere lucertole.
Notte
Più ti desidero più il destino mi respinge, agli albori di te – Mashhad è ai confini settentrionali dell’Iran, pietre anticristo, antipatia di sassi – per un giorno la neve ha devoluto in informe la storia statuaria di questo luogo – per questo mi è parsa, la nevicata, l’assassinio di un dio a tre teste – il presente, la presunzione del futuro, la presenza del passato. Gli inglesi vogliono corrodere qualche pezzo di Russia – mi portano con loro durante le trattative con i sultani e i baroni del luogo – attiro fanatici sorrisi – Collingworth, credo, vuole bonificare l’Oriente con i ghepardi, odia il sole e se potesse lo darebbe in pasto ai suoi felini, come se l’astro fosse un pupazzo, come uno straccio. “La geografia terrena non è diversa dalle sue mappe stellari”, mi ha detto questa sera, in vena di filosofia – quest’uomo non beve, non ride, ha imposto una sentinella perfino sullo stipite del sonno. “Le costellazioni sono uno stupido espediente per convincerci che il cosmo è a misura d’uomo, ma un mito non frena il caos: qualcuno vede un cammello in quello che altri chiamano Orsa Maggiore, e altri ancora uniscono stelle impareggiabili, con scopi caustici – allo stesso modo, definiamo i confini di una terra o il profilo di una conquista, per pensarci pionieri del caos”. Gli ho chiesto se avesse velleità imperiali, se avesse mai amato una donna, un uomo. “Sa perché i ghepardi non ruggiscono?”, mi domandò – gli dissi che i ghepardi fischiano, come se avessero un serpente nella trachea – “non c’è bisogno di conquistare quando domini ogni cosa, non c’è bisogno di macchinare strateghi burocratici quando puoi risolvere tutto con uno scatto”. Pensai che fosse meglio non domandargli cosa intendesse per scatto. Di notte la neve sembra fuoco, poi svanisce.
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Deglutisco da giorni lo stesso verso di Aleksandr Puskin – lo ha scritto durante il suo viaggio in Asia – “Non morirò del tutto”, ha scritto – poi ha scritto che si viaggia per cercare “la frattura azzurra” nelle città degli uomini. Di azzurro non ho visto altro che la mia fame di te – che strano, vero?, definire la fame con un colore così delicato. Come dovrei intendere “Non morirò del tutto” se tutto quello che ero è morto in te, se neanche la morte, ora, è un limite, ma l’ennesima possibilità di incontrarci, dopo tanta vita?
Nathan