“Meditiamo sullo splendore dell’Essere”. Il pellegrinaggio di Yeats in Oriente
Cultura generale
William Butler Yeats
Non è possibile, oggi più che ieri, non partire da un paradosso che, come spesso accade, spoglia e mette nel deserto la nostra esistenza – e, del resto, non è questo passaggio al deserto ciò che questi stessi padri hanno fatto e invitano a fare? – e questo paradosso ci viene da un famoso apoftegma che, se già era vero nei tempi antichi, quanto più lo sarà oggi? Eccolo:
Un fratello si recò da abba Felice, portando con sé dei secolari. Lo pregarono di dir loro una parola, ma l’anziano taceva. Dopo essersi fatto molto pregare, l’anziano disse loro: “Volete ascoltare una parola?”. E quelli: “Sì, abba”. Allora disse loro: “Adesso una parola non è più possibile. Quando, infatti, i fratelli interrogavano gli anziani, e facevano quello che gli anziani dicevano loro, Dio concedeva la parola, per il profitto di quanti interrogavano. Ma adesso, dato che chiedono, ma non fanno quello che si sentono dire, Dio ha tolto la grazia agli anziani. Non sanno cosa dire perché non c’è chi metta in pratica”. Udito questo, quelli gemettero e dissero: “Prega per noi, abba”.
Non è più che mai oggi, proprio questa, la nostra condizione? Non siamo in un deserto, anche senza abitarvi geograficamente, proprio al centro di un turbinio infinito di parole che sono solo comunicazione e quasi mai lotta, comunione e generazione? Non è forse il nostro deserto costruito dalla sabbia infinita di tante, troppe parole sprecate in ogni ambito, purtroppo anche in quello poetico? Non siamo noi stessi, in gran parte, questo stesso deserto, incapaci di comunità e terrorizzati dalla singolarità e dalla solitudine?
E, allora, cosa ne vogliamo fare dei “padri”? Vogliamo usarli come abbellimento, come segno di distinzione intellettuale e spirituale? Vogliamo ingannarli ingannando noi stessi? Vogliamo allestirci un piccolo deserto su misura, quando ogni deserto è, per sua natura, smisurato? Bene, in fondo, i “padri” ce lo consentono e, indirettamente, ci portano nello smisurato silenzio del loro deserto: infatti “adesso una parola non è più possibile”.
La “parola”, i “detti”, erano possibili perché diventavano pratica performativa vivente, tradizione nel senso più concreto e ergo-emotivo del termine, perché si facevano carne viva e ferita, seppure mischiata alla sabbia e al secco del deserto – e venivano anche tramandati di generazione in generazione nel precario e incarnato flatus vocis dell’oralità, prima ancora di venire fissati nella scrittura, così come era accaduto alle Scritture stesse:
Un anziano disse: “I profeti hanno scritto i libri; sono venuti i nostri padri e li hanno messi in pratica; quelli dopo di loro li hanno imparati a memoria; infine è venuta questa generazione, che li ha copiati e li ha riposti inutilizzati sulle mensole”.
Ciò che sembra portare la parola al luogo nel quale oggi la leggiamo è un processo di perdita: non per ragioni filosofiche ma, molto più concretamente, per un allontanamento da quella tradizione viva perché viva e al presente era la sua pratica.
Il rischio di ridurre l’impossibile dei Detti è anche nella loro riduzione a “protocolli”, a rimedi da prendere un tanto al giorno, senza farli davvero entrare nella vita come interrogazione, dubbio, povertà e semplicità: se davvero sapessimo essere beati come i poveri di spirito, come i gigli dei campi, forse potremmo avvicinarci un poco. Oppure potremmo essere postulanti alla porta dei padri nella dolorosa consapevolezza della nostra inettitudine, della nostra miseria, della nostra impossibilità. Eppure, ancora, troviamo questo impossibile, proprio dove ci aspetteremmo la risposta che riempie e placa:
Abba Poemen supplicò abba Macario con molte lacrime, dicendo: “Dimmi una parola, come io possa salvarmi”. L’anziano gli rispose: “Quello che tu cerchi, ora se n’è andato via dai monaci”.
“Quello che tu cerchi, ora se n’è andato via dai monaci”. E, allora, dove e come ritrovarlo? Forse non c’è né proprietà, né appropriazione. Nulla è mai veramente appropriato: i grandi anziani, infatti, solevano dire ogni giorno, anche quando già erano venerati come santi, “oggi comincio”.
È qualcosa che sempre “se ne va via”, poiché la povertà monastica, e soprattutto quella dei padri del deserto, giunge fino a perdere anche le proprie caratteristiche più virtuose e preziose – a svendere e a donare via se stessa, come lo stesso Vangelo; mentre nella tradizione successiva arriverà all’autonegazione e al nascondimento per mezzo della “follia” dei santi folli, quasi una sorta di “donna schermo”, come nel dolce stil novo, che protegge quel nulla di purezza e di semplicità luminosa della vera amata. E vive, in realtà, proprio grazie alla limpida sorgente, sempre in perdita perché sempre sgorgante, di questa povertà luminosa, che rischia sempre di venire occultata o infangata dai “meriti” considerati propri, da una tendenza pelagiana che contraddice la gratuità e la grazia dei gigli del campo, esposti a tutto e, proprio per questo, deboli e infinitamente belli.
Questa gratuità della bellezza in totale abbandono e povertà: filokalia, amore per il bello, prima che per il “buono” – è una dura semplicità, a volte dolcissima e, nel contempo, tremenda e mai risolta: la semplicità come limpido sguardo deve per forza abbracciare non solo la leggerezza della grazia, ma anche la battaglia senza posa, la violenza e il sentirsi disperati, nullificati, del percorso ascetico, l’impermanenza come luogo della trascendenza rivelata e mai del tutto compresa e riconosciuta: una bellezza pasquale, del Risorto, che, come ci dicono i vangeli, per lo più non viene riconosciuta subito e, una volta scoperta, scompare.
La spoliazione è da sempre e l’umiltà non diventa mai affettazione e finzione, ma c’è sempre il rischio di una possibilità, estrema, evitabile solamente se ci nascondiamo in una falsa buona coscienza, senza “farci violenza”, come spesso dicono questi padri, violentissimi nella loro dolcezza e verticalità, lucidissimi fin dal principio:
I santi Padri profetizzarono a riguardo di quest’ultima generazione, e, perplessi, si dicevano l’un l’altro: “Che abbiamo fatto noi?”. Uno di loro, abba Ischirione, che era un grande, rispose: “Noi abbiamo adempiuto ai comandamenti di Dio”. Ma gli altri dissero: “E quelli che verranno dopo di noi, che faranno, dunque?”. Rispose l’anziano: “Arriveranno solo alla metà della nostra opera”. Di nuovo lo interrogarono i Padri: “E quelli dopo di loro?”. Rispose: “In quella generazione non avranno alcuna opera, ma su di loro verrà la tentazione e quanti in quel tempo risulteranno uomini provati, saranno più grandi di noi e dei nostri Padri”.
Ed è la possibilità che nasce proprio dall’essere privi di mezzi ascetici adeguati: “non avranno alcuna opera”, ma verrà in loro soccorso “la tentazione”. E la “tentazione”, per noi oggi, sono anche questi detti dei padri, da raccogliere in un prezioso libretto inutile, se non si fa carne e urlo, se non viene azzannato e rivomitato nell’erba, se non diventa viscere di misericordia, pianto e gioia su se stessi e sugli altri.
Del resto, come viene detto in questo apoftegma, è proprio il “non sapere” a porsi come guida e conoscenza, è il non sapere che spoglia e rende tragicamente semplici e puri come i gigli del campo, in pieno deserto:
Un giorno, alcuni anziani fecero visita al padre Antonio; c’era con loro il padre Giuseppe. Ora, l’anziano, per metterli alla prova, propose loro una parola della Scrittura e cominciò dai più giovani a chiederne il significato. Ciascuno si espresse secondo la propria capacità. Ma a ciascuno l’anziano diceva: “Non hai ancora trovato”. Da ultimo, chiede al padre Giuseppe: “E tu, che dici di questa parola?”. Risponde: “Non so”. Il padre Antonio allora dice: “Il padre Giuseppe sì, che ha trovato la strada, perché ha detto: – non so”.
Tuttavia, occorre sottolineare con decisione il fatto che, anche queste parole tragicamente critiche, sono comunque sempre riportate da “altri”: da quelli che sono stati gli ascoltatori, e che diverranno i figli, generati davvero dalla trasmissione vivente di ciò che è, ad un tempo, detto e praticato o, ancora meglio, prima praticato per poi essere detto; e questo significa che, nonostante tutto, una linea di tradizione e di paternità spirituale è presente o lo è stata.
Viene alla mente il versetto del salmista: “fa abitare la sterile nella sua casa / quale madre gioiosa di figli”. Una discendenza dal seme carsico ma potente, povero ma insopprimibile, giunge fino a noi, così poco propensi a lasciarci davvero fecondare: un seme grumoso e aspro, acido come il latte cagliato – che vorremmo diluire e trasformare in dolce unguento farmaceutico, magari rigorosamente “naturale”, da erboristeria monastica. Ma è impossibile e, al contempo, è troppo facile ritrovarselo disponibile in questi termini: liofilizzato e ben confezionato, come è spesso la spiritualità da bancone e da mercato.
Cosa saranno, allora, veramente, le parole e i detti che abbiamo raccolti in queste pagine? Presunzione? Gioco letterario? Presa di coscienza del proprio essere in fuga come cani rabbiosi per non ferire altri uomini? Scintilla del tutto immeritata di grazia nell’ascolto? Forse tutto questo insieme, ma non certo, mai, una fuga dal mondo e dalla creazione. La domanda, in ogni caso e come è giusto, per ora rimane umilmente e, insieme, arrogantemente, aperta.
Andrea Ponso
*In copertina: Joos van Craesbeeck, La tentazione di Sant’Antonio, 1650