
“Baciando l’Ape Regina, la Vita!”. Piccolo discorso su Edgar Lee Masters
Poesia
Massimo Triolo
Delmore Schwartz compirebbe quest’anno 110 anni. Per noi, al di là della leggenda oscura e degli omaggi di Lou Reed, suo discepolo, è un poeta importante. Fa parte di quello stretto ‘resto’ di poeti – insieme ad Allen Tate, che ne magnificava il talento, e a Robinson Jeffers, ad esempio – che racconta l’altro lato dell’America, la sua natura profonda, la grandezza nell’incubo. È un poeta colto, complesso, enigmatico, dolente, Delmore Schwartz. Per questo resta negletto in Italia. A risvegliare l’interesse verso la sua opera, traduciamo qui un saggio di Delmore Schwartz sul “poeta moderno” e l’introduzione che il poeta John Ashbery ha scritto a “Once and for All. The Best of Delmore Schwartz” (New Directions, 2016). Inoltre, Angelo Guida, tra i rari studiosi di Schwartz in Italia, ci ha concesso un suo testo e alcune traduzioni dalle poesie di Delmore. Buona lettura.
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L’isolamento del poeta moderno
La peculiarità più discussa della poesia moderna è la sua difficoltà, la sua declamata oscurità.
Alcuni dicono che il poeta moderno è complesso perché la vita moderna è complessa. Questa, tra gli altri, è l’opinione di Thomas S. Eliot. “Pare che i poeti della nostra epoca debbano essere difficili. La nostra civiltà è così varia, comprende tali gradi di complessità che, facendo leva su una sensibilità raffinata, non può che produrre risultati vari, disparati, complessi”. L’opinione di Eliot mi pare più superficiale che sbagliata. Non ho bisogno di ricordare quanto Eliot sia raramente superficiale: in questo caso, però, credo che identifichi la superficialità della nostra epoca con la superficie della poesia. Intendo dire che la complessità della vita moderna, il disordine del traffico in una strada del centro, la vastità dei riferimenti del quotidiano non sono la stessa cosa della difficoltà della sintassi, del tono, della dizione, della metafora e delle allusioni che si presentano a un lettore di poesia moderna. Se l’una è il prodotto dell’altra, ciò vuol dire che dobbiamo supporre una semplice relazione causale tra il disordine della vita moderna e quello della poesia moderna. Mi pare una semplificazione eccessiva. Per non dire che l’oscurità è soltanto uno degli aspetti peculiari alla poesia moderna.
Ad esempio, dovremmo riflettere sul fatto che la poesia moderna è essenzialmente lirica. Quasi senza eccezioni riscontriamo un fallimento – per non dire un’assenza – della scrittura narrativa o drammatica in versi. Al contrario, la maggior parte della poesia fino alla seconda metà dell’Ottocento è narrativa e drammatica, oltre che lirica nei suoi momenti più importanti – ed è altrettanto evidente che non è oscura nell’accezione che gli diamo oggi.
Nella poesia moderna oscurità e lirica convivono. Queste caratteristiche sono strettamente legate tra loro a motivo della condizione essenziale del poeta. Il modo in cui questa condizione agisce sul poeta dipende da diversi fattori, ma su un punto occorre essere schietti e crudi. Il poeta moderno vive in modo separato dal resto della società. Questa separazione assume diversi gradi, ma è destinata ad aumentare. Poeti diversi sono colpiti da questa separazione e hanno adottato diversi metodi per lenirne gli effetti.
L’inizio del processo di tale separazione affonda nella graduale distruzione dell’immagine del mondo che, nonostante diversi mutamenti, era data per certa dal poeta. Pur tra diversi traumi, la Bibbia ha fornito una visione dell’universo che ha circoscritto per secoli l’area nella quale il poeta si azzardava a pensare. Sarebbe un errore suppore che questa visione del mondo non sia stata turbata ben prima del sorgere del poeta moderna. È dubbio, tuttavia, che prima di William Blake si sia avvertita in modo così conflittuale la distanza tra la visione offerta dalla Bibbia e quella mostrata dalle scienze fisiche. Nella rabbia rovinosa di Blake contro Newton e Voltaire e nel suo interesse lirico verso la dottrina di Swedenborg, per non dire nel suo tentativo di costruire una propria visione dell’universo, scorgiamo il primo singolare esempio della difficoltà e della rivolta del poeta.
Lo sviluppo della cultura moderna, da Darwin a Huxley, da Freud a Marx all’autore de Il ramo d’oro, non ha fatto che estendere ed accelerare il processo di rimozione dell’immagine del mondo fino ad allora data per scontata dal poeta. Basta guardare l’evoluzione poetica di William B. Yeats. Per anni si è occupato di teosofia, magia e forme poco rispettabili di indagine psichica, certo di poter conquistare una visione dell’universo e dell’uomo che riconsegnassero dignità all’universo e all’uomo. Quando Yeats – come molti altri poeti – ha sentito parlare di milioni di anni luce, di regioni sconosciute dell’universo, ha percepito una fatale incongruenza tra la dignità dell’uomo e la sua infinitesima pochezza nell’universo. Il filoso e il teologo sanno che la dimensione di una cosa dimostra poco o nulla; il poeta invece deve vedere, e ciò che ha visto è la piccolezza di se stesso in relazione alle scoperte della fisica del XX secolo.
Ora, questo è soltanto un aspetto dell’isolamento del poeta; l’aspetto per cui la sensibilità del poeta è separata dalla conoscenza teorica del proprio tempo. L’isolamento del poeta moderno, tuttavia, ha assunto una forma ancora più dura: quella per cui è la poesia stessa a essere separata dal resto della società. Ciò non significa, banalmente, che il poeta è privo di un pubblico: questo è un effetto piuttosto che la causa della poesia moderna. E non si tratta, d’altra parte, del semplice fatto che il poeta sia un isolato rispetto ai costumi e agli abituali divertimenti del proprio tempo; se questo fosse il problema, potremmo accusare il poeta di restare reclino nella sua torre d’avorio, rimproverandogli che dovrebbe fare “esperienza”, vedere il mondo, apparentarsi a un partito politico, partecipare alle consuetudini della società.
L’isolamento del poeta moderno non riguarda il suo modo di vivere ma l’intero modo di vivere della società moderna. Nella crescente industrializzazione non c’è spazio per un mostro come l’uomo colto; il gusto di un uomo di lettere non ha, nella migliore delle ipotesi, nulla a che fare con le attività di una società industriale. La cultura non ha posto nella vita moderna: nutrendosi di se stessa, si allontana sempre più dall’essenza organica della vita sociale.
Poiché l’unica via del poeta come uomo di cultura è coltivare la propria sensibilità, l’unico argomento lirico a sua disposizione è se stesso. Una cosa analoga è accaduta anche al romanzo: lo sviluppo del romanzo autobiografico è il risultato dell’incapacità del romanziere di scrivere di altro se non di se stesso. Da questo isolamento dell’ispirazione poetica nasce l’oscurità della poesia moderna.
Il poeta si impegna a decrittare i più piccoli movimenti e toni e distinzioni del proprio essere poetico. La vita privata della sua sensibilità pretende il ricorso a nuovi linguaggi. Tanto più il poeta coltiva la propria sensibilità, tanto più unico e speciale è il proprio soggetto, dunque il proprio metodo. Il linguaggio comune della vita quotidiana, la sua sintassi e le sue abituali sequenze sono esattamente l’opposto di ciò di cui ha bisogno per fare poesia. A volte – come nel Tonio Kröger di Thomas Mann – il conflitto tra sensibilità dell’artista e vita moderna è il tema della letteratura di oggi.
Quattro anni fa, uno dei massimi poeti di oggi ha tenuto una conferenza ad Harvard, leggendo alcune poesie. Da normale cittadino, quest’uomo è dirigente di una importante società di assicurazioni. Si può ragionevolmente desumere che i suoi testi vengano scritti durante momenti di vacanza dal lavoro. Al termine della lettura, il poeta e uomo d’affari ha detto a uno dei professori che lo aveva presentato, “Mi chiedo cosa direbbero i miei ragazzi in ufficio…”.
Pare dunque che questo isolamento del poeta sia una disgrazia. Certamente, è una disgrazia per la vita della comunità: ciò è evidente dai caratteri del gusto popolare, dal tipo di narrativa, di teatro e di film che riscuote successo, rispetto agli autori popolari del XIX secolo, spesso i migliori. D’altra parte, pare che l’epoca della poesia moderna, da Baudelaire in qua, sia quella che ha guadagnato un numero di poeti eccelsi, capaci nel maneggiare risorse tecniche di ogni tipo. L’isolamento forzato del poeta lo ha aperto a direzioni sorprendenti, preziose.
Delmore Schwartz
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Pietà per Delmore Schwartz
Benché la reputazione di Delmore Schwartz sia tristemente diminuita rispetto a quella che aveva alla fine degli anni Trenta, è stata mantenuta in vita grazie all’eccellente – e deprimente – biografia di James Atlas, edita nel 1977, undici anni dopo la prematura scomparsa del poeta. Purtroppo, la biografia fu un successo non perché i lettori fossero interessati alla poesia di Schwartz ma per la natura, diciamo così, violenta e ammonitrice della sua vita. I lettori a cui poco importa della poesia moderna sono ancora crudelmente eccitati dal leggere la canonica saga di un poeta brillante, annunciato come un genio, il più grande poeta giovane dei suoi tempi, rapidamente dissipatosi a causa di malattia mentale, dipendenza da alcol e droghe, fino alla morte, dimenticato o quasi, all’età di cinquantadue anni in una squallida stanza d’albergo nel quartiere di Times Square, New York. In un certo senso, la biografia di Atlas è l’analogo contemporaneo del saggio che Samuel Johnson dedicò al quasi ignoto poeta del XVIII secolo Richard Savage: uno studio ormai classico sull’artista paranoico, afflitto da manie di autodistruzione.
Sfortunatamente, la storia di Delmore Schwartz non ha suscitato, come degna conseguenza, un risveglio d’interesse verso la sua poesia. Tuttavia, nei decenni, sono state pubblicate le sue lettere e una cospicua selezione di quaderni inediti. Il paziente – o meglio, la sua reputazione – è ancora vivo, anche se non sta bene. […]
Per me – e per la maggior parte dei lettori – la fase più importante di Schwartz è quella delle prime prose liriche e del suo libro di racconti, The World Is a Wedding, così bello che ci si dispiace sia tanto corto. L’opera pubblica più ambiziosa di Schwartz è il poema epico incompiuto Genesis, uscito nel 1943. La tentazione di scrivere il grande poema epico americano era particolarmente forte negli anni Trenta. Oltre agli ovvi esempi dei Cantos di Pound e della Waste Land di Eliot, insieme a The Comedian as the Letter C di Stevens, ci sono altri esempi di opere potenzialmente epiche: Tamar e Roan Stallion di Robinson Jeffers, il volume di mille sonetti, M, di Merrill Moore, Taal di Jeremy Ingalls; a breve sarebbero stati pubblicati The Sea and the Mirror di Auden e The Changing Light at Sandover di James Merrill (entrambi influenzati da Schwartz), Paterson di Williams e Maximus di Olson. Poemi: tutti prodotti dall’esigenza, intrinsecamente americana, di essere grandi e nuovi allo stesso tempo.
Genesis è un fallimento, ma un fallimento su vasta scala. Avrebbe dovuto essere il Prelude di Wordsworth ambientato nella Brooklyn del XX secolo; il suo più puro precedente, però, è The Dynasts di Thomas Hardy. In Genesis, gli antenati dell’eroe, Hershey Green, vivono orribili peripezie in Europa e riescono a emigrare in America, inaugurando l’iniziazione di una vita al dolore. Come in The Dynasts, un coro di spiriti commenta ironicamente lo svolgimento della saga; passaggi lirici, alcuni di formidabile bellezza, si alternano a passi piuttosto didascalici, in prosa “biblica”, prosaici. Avvolti in questa imbottitura di prosa, i momenti lirici splendono in modo sorprendente, come gioielli.
Dell’ambiente colto di Harvard, in cui era cresciuto, malsopportandolo, preferì i poeti emergenti, più giovani di lui, Robert Lowell e John Berryman, con cui condivideva l’estro e il caotico temperamento. Berryman ricorda Schwartz in una dozzina delle sue Dream Songs, una delle quali recita: “Guardava il mondo con i vezzi di una vecchia troia/ Delmore, Delmore./ Lui è andato a pezzi e loro sono crollati a terra”. Nel frattempo, la carriera di Delmore cominciò nel più sorprendente dei modi, con la pubblicazione, nel 1938, di In Dreams Begin Responsabilities. Secondo James Atlas, “Fu Eliot il modello di Delmore: d’altronde, era il poeta modernista per eccellenza, sigillava le intenzioni di chi tentava un linguaggio nuovo. Autoritario, dignitoso, remoto, Eliot aveva raggiunto una statura che faceva infuriare Delmore: si impedì di imitarlo, trovando modelli più congeniali in figure liriche della rivolta come Rimbaud e Baudelaire”. […]
Il dolore che trasuda dalla poesia di Delmore è solo il pallido riflesso dalla vita dolorosa da cui quell’opera è sorta. Riassumerò in modo sintetico la deriva dei suoi ultimi anni: due matrimoni falliti, lavoro irregolare come professore e critico di libri e di cinema, crescente povertà, alcol e dipendenza da sostanze varie. Quando la seconda moglie, Elizabeth Pollet, lo lascia, nell’estate del 1957, la vita di Delmore, pur trascinandosi per altri nove anni, finisce, precipitando nello squilibrio. Pensava che la moglie fosse l’amante di Nelson Rockefeller, che il Presidente Kennedy e il Papa cospirassero contro di lui. Gli amici, compreso Saul Bellow, sottoscrissero una petizione per pagargli le cure psichiatriche, ma lui restava poco, pochissimo nei ricoveri, preferendo tornare al Greenwich Village, in alloggi sempre più putridi. Lowell scrisse una poesia sugli ultimi anni di Schwartz dalla precisione agghiacciante:
“Il tuo sogno era un rogo ironico, poi il genio si è arreso
sei diventato indifeso e mutilo, i versi audaci
svoltarono in ottusi, Delmore – il tuo nome, Schwartz
tenue vocale tormentata da sette consonanti…
abito di gabardine dalla tinta di zolfo
mentre scruti la stanza senza finestre della saggezza
i tuoi appunti su Joyce e le riviste porno –
i semafori che lampeggiano un codice noto soltanto a te
li scruti dalle sbarre con gli occhi di un cavaliere mongolo”.
Eppure, continuò a scrivere. Nel 1959 pubblica Summer Knowledge. L’ultima poesia è priva delle compressioni elettriche che animano i primi scritti, è più assertiva, cruenta. Atlas scrive che quelle poesie “eufoniche, casuali, per lo più incomprensibili… imitano Hopkins, Yeats, Shelley”. Può darsi. Eppure, nella rovina del grande poeta c’è qualcosa di più, una primizia. I critici hanno sbagliato condannando prematuramente gli ultimi lavori di Picasso e di Stravinsky. Forse accadrà così anche per Delmore.
John Ashbery
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Il poeta dell’Atlantico
Il componimento da cui è tratto il titolo della prima antologia italiana, da me curata (con un’ottima introduzione di Alessandra Calanchi), delle poesie di Delmore Schwartz – anche se scritto poco più di un decennio prima (1954) della sua morte – è quasi un manifesto della poetica dell’autore.
La critica ha rilevato la discendenza di “America! America!” da Walt Whitman, di cui ricalca lo stile. Anzi, si può dire che Delmore abbia qui dato vita a un vero e proprio d’après: c’è lo stesso tono assertivo dell’artefice di Leaves of Grass; i versi, liberi, sono lunghi, prosastici; ci sono anafore («I am») ed epifore («in the city»), assonanze, consonanze, allitterazioni e iterazioni varie. Ma al di là dello stile, la poesia in questione richiama il precursore di Schwartz anche nei contenuti, ribaltandoli.
In un verso di “Song of Myself”, uno dei poemetti e/o sezioni di cui si compone Leaves of Grass, Whitman definisce se stesso: «Walt Whitman, a kosmos, of Manhattan the son». Ovviamente, qui Manhattan è una sineddoche dell’America. Perciò lui è “il” figlio dell’America e probabilmente qualcosa di più. Infatti, fra le righe, Whitman sembra voler suggerire al lettore che è “il” cantore per eccellenza della sua terra. E, d’altronde, chi più di lui può vantare il titolo di bardo americano?
In “America! America!” Delmore Schwartz devia, rispetto alla traiettoria tracciata dal suo precursore, asserendo di essere «un poeta del fiume Hudson» (anche questa una sineddoche), ovvero semplicemente “uno” dei tanti poeti americani. Ma, subito dopo, si definisce «l’autoproclamato poeta laureato dell’Atlantico» e adopera l’articolo determinativo perché vuole imporsi come il poeta per eccellenza dell’ambito culturale simboleggiato dall’oceano che separa il continente europeo da quello americano. Ed è questa la differenza sostanziale fra i due: Whitman si sente americano perché è nato in America, Schwartz è americano in quanto discendente di immigrati. E cos’altro è l’America se non una terra di esuli, profughi e immigrati? Lo sguardo di Delmore non è dunque rivolto unicamente alla sua nazione e al suo popolo, si volge di continuo verso l’Europa.
In primo luogo, verso le sue radici ashkenazite: Delmore Schwartz è un ebreo di origine rumena, fa parte dei cosiddetti immigrati di seconda o terza generazione, e ce lo ricorda non solo nei racconti ma anche nelle poesie, come ad es. “La Ballata dei Figli dello Zar”, e nello sfortunato e incompiuto poema Genesis. Pur consapevole delle sue origini ebraiche, Delmore, a differenza dei fratelli Singer e di Jonathan Safran Foer (Ogni cosa è illuminata), non menziona mai lo shtetl. È un ebreo “moderno” come Philip Roth e il proprio allievo Saul Bellow. Non è però indifferente alla religione, componente identitaria essenziale del popolo ebraico. La seconda moglie, Elisabeth Pollet, nell’introduzione al volume (Portrait of Delmore) in cui ricostruisce il diario del marito, asserisce: «He always said he believed in God». La prima volta si sposa in una sinagoga. Dedica una serie di poesie a patriarchi e personaggi biblici (Abramo, Sara, Giacobbe) e perfino evangelici (Gesù e gli apostoli in “Starlight Like Intuition Pierced the Twelve”: cosa inconsueta per un ebreo, ma non troppo se si pensa che quando era studente alla New York University aveva meditato di convertirsi al cattolicesimo).
Una sua poesia, “At a Solemn Musick”, è stata inclusa da Harold Bloom nell’antologia American Religious Poems. Difende con orgoglio il suo essere “ebreo”: litiga con Ezra Pound quando scopre che è antisemita e dà le “dimissioni” da suo ammiratore; nel racconto “Una farsa amara”, al suo alter ego Shenandoah Fish – che insegna agli studenti della Marina militare americana (anche Delmore aveva insegnato in una scuola simile per evitare il servizio di leva) – fa dire, in risposta a uno di loro che ha manifestato pregiudizi antisemiti: «I miei antenati […] erano eruditi, poeti, profeti e studiosi di Dio quando la maggior parte dell’Europa adorava pietre e bastoni» (trad. di Attilio Veraldi). E poco prima, sempre nello stesso racconto, il protagonista (alias Delmore Schwartz) ha tirato fuori il suo orgoglio di “discendente di immigrati”:
«Per quel giorno era stato assegnato un saggio di Louis Adamic sugli immigrati in America, appropriatamente intitolato Plymouth Rock e Ellis Island, e il cui succo, […], era che il potere e la gloria dell’America erano stati resi possibili dal lavoro degli immigrati, dall’accettazione delle differenze fra gli esseri umani e dalla diversità di molti ceppi razziali. Se il mondo riponeva le sue speranze nell’America, diceva Adamic, era proprio in ragione di questa diversità di popoli; il che rendeva possibile una cultura universale, una cultura pan-umana, come non era mai esistita sulla terra. Ecco cos’erano il Sogno americano e la Tradizione americana» (trad. cit.).
Ma ad attrarlo verso l’Europa non sono solo le radici familiari ed ebraiche: sono soprattutto i suoi idoli letterari, i “poeti precursori” (come li chiama Harold Bloom), i poeti che lo hanno influenzato: Shakespeare, Yeats, Swift, Sterne, Joyce (anche gli ultimi tre a loro modo, e comunque in senso lato, sono dei poeti!). Non a caso, l’ultimo capitolo dell’antologia pubblicata da Ventura Edizioni si intitola “La cosa più bella del Nord America”. Leggendo l’incipit dell’omonima poesia, si constata che «È l’Europa la cosa più bella del Nordamerica». E non l’Europa dell’hic et nunc, bensì l’Europa intesa come “estasi” spazio-temporale poiché la “torsione” dell’autore verso il nostro continente è duplice: in senso storico-geografico e in senso storico-letterario. Difatti tutti i suoi maestri appartengono al passato (Elisabeth Pollett, nella citata introduzione, dice di lui: «was obsessed with his past, both in a personal and in a more universal sense»), prossimo o remoto che sia. E in testa a tutti mette Shakespeare: la poesia a lui dedicata è la prima nella sezione di Summer Knowledge intitolata “The Kingdom of Poetry”. In questo Schwartz si pone, a sua volta, anche in veste di critico letterario, come un “precursore” di Harold Bloom il quale fa del bardo inglese uno dei cardini del suo Canone occidentale. In aggiunta, Delmore, nei suoi versi, sembra considerare Shakespeare alla stregua di un semidio («Lui sapeva già tutto di noi prima che nascessimo»), lo definisce «re e sovrano / Della realtà, del lògos e della speranza». E qui, nella mia traduzione, con l’adozione del termine «lògos»,quale corrispettivo di «speech», ho intenzionalmente calcato la mano per accentuare l’ipotizzata prossimità di Shakespeare a Dio. Ma tant’è che la venerazione del nostro autore per il bardo inglese e per gli altri suoi “eroi” letterari fa di lui una “vittima” della bloomiana “angoscia dell’influenza” di cui, nel corso della sua carriera, non si è mai liberato. Ed è forse questa la ragione principale che gli ha impedito di diventare il poeta “canonico” che avrebbe voluto essere.
Angelo Guida
*
AMERICA! AMERICA!
Sono un poeta del fiume Hudson e delle alture sovrastanti,
delle luci, delle stelle e dei ponti
Sono anche l’autoproclamato poeta laureato dell’Atlantico
— dei cuori delle genti che lo attraversano
per andare verso la nuova America.
Sono gravato dal peso dei traffici e dei miraggi, dalla speranza,
acquisita con il sudore della fronte nelle nauseanti ed emozionanti traversate
in terza classe, straniero ed estraniato
Da qui devo discernere e descrivere il regno delle emozioni.
Giacché sono un poeta dell’asilo (urbano)
e del cimitero (metropolitano),
Dell’estasi e del ragtime e anche della città nascosta nel cuore e
nella mente
Questo è il canto del consueto ego urbano del XX secolo.
È vero ma solo in parte vero che la città è una “tirannia dei numeri”
(Questo è il canto dell’ego metafisico urbano e metropolitano
Successivo alle prime due Guerre Mondiali del XX secolo)
— Questo è l’ego metropolitano, che da una finestra scruta un’altra finestra
illuminata
Nel momento in cui i riquadri e i rettangoli delle flebili luci gialle
Risplendono nella notte, sulle lapidi e sugli enormi tabelloni pubblicitari appena
rischiarati,
Celando agli sguardi i propri inquilini. È la coscienza metropolitana
Che guarda e dice: di più: ancora di più: sempre di più.
(1954)
*
I CANI SONO SHAKESPEARIANI, I BAMBINI DEGLI SCONOSCIUTI
I cani sono shakespeariani, i bambini degli sconosciuti.
Che Wordsworth e Freud discutano pure del bambino,
Gli angeli e i seguaci di Platone si esprimeranno sul cane,
Il cane che corre, si ferma, dilata le narici,
Il cane che abbaia e guaisce; il ragazzo che tormenta la sorella,
La stessa bambina che ha cantato la canzone della Dodicesima Notte,
Come se avesse compreso a fondo il vento e la pioggia,
Il cane che ha mugolato, ascoltando i violini suonare.
—Oh è una vera afflizione avere a che fare con bambini o cani!
Perché sono degli sconosciuti, sono shakespeariani.
Diccelo tu, Freud, è possibile che gli incubi di tutti quegli
Adorabili bambini siano il semplice prodotto di funzioni naturali?
E pure tu, Wordsworth, I bambini sono davvero
Baciati dalla fortuna e assistiti dalle forze oscure della Natura?
Il cane che molto umilmente conduce una ricerca sul campo,
Il bambino che dà credito ai sogni e teme l’oscurità,
Ne sanno più o meno quanto voi: sanno molto bene
Che né l’infanzia né i sogni danno risposte adeguate alle domande:
Anche voi siete degli sconosciuti, e i bambini sono shakespeariani.
Osserva il bambino, osserva l’animale,
Benvenuti sconosciuti, analizzate i problemi quotidiani,
Ben sapendo che siamo assediati dal paradiso e dall’inferno,
Ma ciò che diciamo, quello che diciamo prima di pentircene,
Ciò che viviamo nelle nostre vite anonime,
Non è né il sogno, né l’infanzia, né
Il mito, né lo spettacolo, non è né definitivo, né irrevocabile,
Perché siamo imperfetti e non conosciamo il futuro,
E tiriamo fuori dalla nostra anima la gioia e la sofferenza
Mentre scandiamo sillabe davanti al sipario:
Siamo shakespeariani, siamo degli sconosciuti.
(1938)
Delmore Schwartz
*Angelo Guida ha curato la prima ragionata antologia delle poesie di Delmore Schwartz in “America! America!” (Ventura Edizioni, 2022). Si pubblica qui, per gentile concessione, parte di un servizio prossimamente edito dalla rivista “Poesia”