30 Settembre 2019

“The Irishman” è un capolavoro (ovviamente). Ma a me interessa altro. Robert De Niro trova il coraggio di pubblicare i diari del padre, artista, che confessa i suoi demoni, l’omosessualità, l’amore severo e totale per il figlio

Sembrava quasi inevitabile. A volte è così. La vita è uno spartito vergato a lame sulla schiena di un angelo.

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The Irishman, voglio dire. È chiaro che la storia del mafioso Usa Frank ‘The Irishman’ Sheeran, accusato di aver fatto fuori, nel 1975, il sindacalista doppiogiochista Jimmy Hoffa, aureolata dai tamburi del tramonto, sarebbe stata il testamento di Martin Scorsese, il canto definitivo, l’epopea angelica, il sigillo su quell’era micidiale che va dai Goodfellas (1990) a Casinò (1995), compreso il tentativo di fare ciò che non ha mai fatto, qualcosa che sta tra Il padrino e C’era una volta in America. Beh, il film è andato in onda al New York Film Festival venerdì scorso – sarà alla Festa del Cinema di Roma il 21 ottobre – ha commosso e convinto tutti, si sente odore di Oscar.

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Il “New York Times” ha parlato di “elegia monumentale”; il “Guardian” di un film “realizzato con amorevole precisione e cura ossessiva per il dettaglio”. Martin Scorsese, che centellina i film (l’ultimo, Silence, è del 2016; The Wolf of Wall Street è del 2013), crea soltanto grandi progetti di cinema-romanzo, poi si piazza sulla soglia come i giaguari. The Irishman lo ipotizza dal 2007, attendeva i soldi, li ha munti da Netflix: 159 milioni di dollari per un feuilleton da 209 minuti. Scenografia risolta da un esperto come Steven Zaillian – Oscar per Schindler’s List, ha scritto Risvegli e The Interpreter, per Scorsese ha elaborato Gangs of New York – in scena l’attore-feticcio di Scorsese, Robert De Niro, finalmente grande dopo troppi film non all’altezza, e Al Pacino (anche lui perso in una filmografia liminale, sostanzialmente inutile). Il primo è ‘The Irishman’, l’altro Hoffa. “Il vero asso, però, è il quieto, elettrificante Joe Pesci, che torna al cinema da cui è assente dal 2010 con un personaggio drammatico, razionale, perfetto”, scrive Benjamin Lee. Su tutto, soprattutto, il morbo del rammarico, “la patetica vacuità del crimine, di uomini che confondono le priorità della vita per accorgersene troppo tardi… la violenza non è glamour, qui, ma tragica, esemplificata da antieroi che si caricano sulle spalle i propri relitti”.

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Di questa storia già scritta, però, mi occupa altro. I suoi rivoli, le retrovie. Contestualmente all’uscita del film, Robert De Niro, che ha fatto da poco 76 anni, si confronta con il padre, a cui nel 2014, per la HBO, aveva dedicato un documentario, Remembering The Artist Robert De Niro Sr. Già. De Niro – per metà italiano, da Ferrazzano, Molise, per metà irlandese – è figlio di una coppia di artisti. In particolare, il padre, Robert H. De Niro, nato a Syracuse nel 1922, studi artistici sotto Josef Albers e Hans Hofmann, si mise nella scia di Cézanne e Matisse, iniziò illustrando i libri di Henry Miller e Tennessee Williams, fu nel giro di Peggy Guggenheim, insieme a Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Motherwall. Ebbe una certa fortuna, non quella che si aspettava, morì nel 1993. L’evento capitale, tuttavia, accade con la nascita di Robert Jr., il futuro, grandissimo attore. Nel 1942 l’artista sposa Virginia Admiral, pittrice, più giovane di sette anni, che per un tot è l’illustratrice di fiducia di Anaïs Nin. Con la nascita del figlio, l’anno dopo il matrimonio, Robert De Niro Sr. denuncia la propria omosessualità, lascia la moglie – che tuttavia gli sarà sempre vicina – e divorzia nel 1945.

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“Ha fatto la vita dell’artista come possiamo immaginarcela, il suo studio era un disastro, ha avuto tante difficoltà”, ha detto il figlio, dopo aver deciso di mandare in stampa i taccuini del padre, un lungo diario del dolore scritto dal 1963. Il tomo, Robert De Niro Sr., Paintings, Drawings and Writings: 1942-1993, sarà pubblico da Rizzoli New York dal prossimo 8 ottobre. “È stato uno degli artisti più rilevanti della scena newyorchese degli anni Quaranta e Cinquanta: il suo nome attende il giusto riconoscimento”, ha scritto, nell’intro, lo storico Charles Stuckey. “Per molti anni ho preferito non leggere quei diari, sono il ritratto di un uomo afflitto dai suoi demoni… mi spiace”, ha detto l’immenso ‘Bob’.

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Nei diari, l’artista, il padre di De Niro, si confronta con la scoperta dell’omosessualità. “Se Dio non vuole che sia omossessuale – e di questo sento un forte senso di colpa – troverò una donna che amerò e che mi amerà. Ma non voglio assolutamente curare la mia omosessualità”. Diario come confessionale – “c’è così tanto lamentarsi, così tanta autocommiserazione che tengo fuori da queste pagine” – che preme sull’incomprensione: “Vorrei avere successo… ma gli artisti, si sa, sono riconosciuti soltanto parecchi anni dopo essersene andati”.

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De Niro non sapeva dell’omosessualità del padre, “l’ho scoperta da giovane adulto”. In una fotografia del 1985 i due sono pressoché identici. “Appena ho avuto successo con il cinema, ho cercato di aiutarlo”, dice ‘Bob’. “Non è che mi abbia mai detto, ‘mi piace questo film’, ma era orgoglioso di me, lo so”. In un passaggio particolarmente commovente, De Niro, l’artista, scrive del figlio, “la mia piccola bambola è cresciuta… riceve ogni sorta di offerte per fare film”. Il padre ammira l’ascesa del figlio, gli anni immensi de Il padrino, di Taxi Driver, Il cacciatore, Toro scatenato… “Oggi l’ho visto. Era abbronzato – usa una lampada solare, è per una nuova parte. Sta bene. Volevo passargli le dita tra i capelli, e baciarlo, ma non so se sarebbe stato contento”. Ora, a 76 anni, De Niro sarebbe felice di un gesto di tenerezza da parte del padre. I padri sono sempre eroi, anche nel disastro, sono sempre immortali. (d.b.)

*In copertina: Robert De Niro Jr. e Robert De Niro Sr. a New York, nel 1985

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