David Gascoyne muore nel 2001, il 25 novembre, onorato e dimenticato da tempo, Chevalier dans l’Ordre des Arts et Lettres. I giornali, su entrambi i lati della Manica, furono affascinati dalla sua vita, che passò dal bagliore all’oscurità, che fu pari a una resurrezione. Fu lui, Gascoyne, a scriversi l’epigrafe, in effetti: “un poeta che scrisse quando era giovane, poi diventò matto”. Tutti giurano che era “un ragazzo magnifico”; tra tutti egli fu sempre un ragazzo, il poeta baciato da una precocità impura, di cui si chiederà conto. Scelse come maestro Dylan Thomas, esordì a 16 anni, nel 1932, con Roman Balcony, “e fu immediatamente paragonato ad Arthur Rimbaud, e, di Rimbaud, rappresentò la promessa mancata” (così il “Daily Telegraph”).
Scelse di vivere una vita rovinosa, di scoscendere in una poetica: a vent’anni s’iscrive al Communist Party e parte per la Spagna; quando vede come agiscono i comunisti stalinisti, ai danni di anarchici e POUM (“i comunisti laggiù disprezzavano apertamente gli anarchici, il POUM, etc.”), capisce, come Orwell in quegli stessi anni, che la sinistra adotta metodi fascisti, allora molla l’impegno politico e si dà alla mania, alla mistica lirica. L’indole è chiara dalle fotografie: lo sguardo languido, aperto, spiritato; le labbra inclinate nell’onda della balbuzie. Dal 1935 trova casa in Francia, ha fede nel Surrealismo, è amico di André Breton, Benjamin Peret, Salvador Dalí, René Magritte. A Short Survey of Surrealism, il suo saggio sull’epopea surrealista, è accolto come “uno studio raffinato, il primo nel mondo inglese che sia riuscito a trasmettere il fascino di quella avanguardia” (Stephen Spender). David Gascoyne, tuttavia, divora tutto, se stesso, soprattutto: la sua ricerca va oltre i poeti cristallini, impegnati, alla moda, come W.H. Auden e quelli della sua cerchia (Cecil Day-Lewis, Spender, MacNiece); egli è un apocalittico, un poeta orfico, erede di William Blake e di Gerard Manley Hopkins; di Thomas S. Eliot, per dire, ama le ritrosie, la mistificazione, la moglie folle.
Attratto dall’abisso, Gascoyne scrive un libro su Friedrich Hölderlin (Hölderlin’s Madness, 1938), frequenta Benjamin Fondane, il pensatore-poeta, che sconvolge le sue convinzioni e di cui scrive, molti anni dopo, in un libro dal delicato deliquio, incauto, sovversivo, Rencontres avec Benjamin Fondane (1984; previsto in uscita, a settembre, per l’editore Aragno). La poesia di Gascoyne, contorta nel fuoco profetico, senza casa né patria – “David Gascoyne non è un poeta inglese; è un poeta francese che scrive in inglese”, dirà di lui Philippe Soupault – si riassume in libri, Poems 1937-1942 (1943), Night Thoughts (1956), che diventano di culto quando il poeta s’incunea nel delirio. Negli anni Cinquanta è in Canada, da parenti; fa a tempo a incrociare, un’ultima volta, Dylan Thomas, preda del devastante tour negli Stati Uniti. Si ritira nell’Isola di Wight, in un ospedale psichiatrico. A quegli anni allude Emil Cioran quando, scrivendo di Fondane, accenna alla “sorte tragica” del “poeta inglese David Gascoyne”. Eppure, proprio nell’ospedale psichiatrico accade il prodigio. Siamo nel 1973. Una donna, di tanto in tanto, legge poesie ai malati. La donna si chiama Judy Lewis e quel giorno legge una poesia che s’intitola September Sun. Dice che è la sua preferita. Attacca:
Concedici di consumare nel fuoco, digiuni,
e possa l’oro vivere in me e coniare
la mia vita, trasmutando in un fine migliore
questa usura ottusa e autarchica…
Con un sole rabbioso possa Egli che per primo
ha piantato un seme d’oro nel campo cieco
del Caos, ridurre in cenere il nostro orrore.
Silenzio. Dal fondo dell’aula David Gascoyne alza la mano. L’ho scritta io. Judy lo lascia dire, Certo, va bene. No, non va bene, ma l’ho scritta io quella poesia, fa ancora lui. Quando Judy capisce che il matto si chiama David Gascoyne, e dice il vero, se lo sposa, due anni dopo.
Il ritorno alla vita del poeta dall’allucinata precocità passa anche per l’Italia: nel 1982, per cura di Francesca Romana Paci, con la presentazione di Attilio Bertolucci, San Marco dei Giustiniani pubblica La mano del poeta, e a Genova Gascoyne riceve il “Premio Poesia Europa”. Non è l’inizio, purtroppo, di un doveroso lavoro editoriale nell’opera di Gascoyne, per lo più ignorata nel nostro paese (qualcosa nel 1990 ha tradotto Marco Fazzini). Finì per riandare ai turbini della giovinezza, a cercare il grumo della pazzia, la serratura che racchiude tutti gli enigmi. Capì che tutto è una scia sull’acqua, un colpo di remo, cosa che ferisce e si sutura, limpida.
***
Neve sull’Europa
In esilio dal sonno gli Europei filano
sogni densi: quiete, miracolo, il lampo
di una nuova era dell’oro; ma nulla frena
il bianco verticale precipitato ieri notte
e il continente ora è vuoto.
Zitti, dice l’esattezza della neve
gli Urali e Jura si congiungono
in una desolazione artica. Tutto è uno;
pura monotonia: pianure, montagne; città, paesi:
i limiti sconfinano, invisibili.
Le bandiere sbandano incolori
lo zero gelido della mezzanotte impone
una fatua tregua tra segni e stagioni – sfata
proiettili e grida. Ma quando verrà il disgelo
sarà rossa la neve e potente il tamburo!
Natale, 1938
*
Orfeo agli inferi
Cortine di roccia
e pianto pietrificato
foglie bagnate tra i crepacci del cielo
da ogni lato drappi
strappati da mani ferme.
Giunse con la lira in frantumi
indossando le vesti azzurre dei re
guardava con occhi simili a buchi su un foglio
si sentiva il sussurro del mare, lontano
e il vento, all’improvviso
come una canzone interrotta.
Dal suo sonno, di tanto in tanto,
dalle labbra appena schiuse
fuggono parole confuse, che cercano di dire
quella notte abbagliante
il giorno ombreggiato di ali
il volo rapace del pensiero al sole
sopra isole e oceani
e quei deserti, e i pascoli, e le pianure
della terra straniera, distratta.
Ma lui dorme con la lira frantumata tra le mani,
e intorno al suo sonno retrocedono
drappeggi rigidi, lacrime e foglie bagnate
le fredde cortine di pietra che nascondono il cielo, cieco.
*
Primavera 1940
London Bridge sta crollando, Roma brucia, Babilonia
la Grande è polverizzata; eppure Primavera torna
lungo l’arco continuo del Tempo sulla terra.
Benché ogni luogo sia un campo nero
sommerso dai morti, impregnato del sangue dei moribondi,
una dea puntuale deve svegliarsi e percorrere
le scale di pietra, nell’aria gelida della terra,
verificare la sua missione tra queste schiere di carogne
facendosi largo in un labirinto di mattoni sbriciolati
per accelerare con i suoi passi la crescita impetuosa dell’erba
mentre i loro futili imperi di fuoco divampano e ardono
attraverso il fumo gli uomini fissano con occhi ascesi nel sangue
l’apparizione traslucida, vestita di quel verde che trema, che nasce
che appena riescono a riconoscere, che appena comprendono.
*
Il perpetuo, sconosciuto inverno
Quando la luce crolla nelle sere d’inverno
e il fiume non canta al suo passaggio
dietro la casa, ma è silenzioso e scorre
freddo, le canne più rigide del vetro,
come possiamo anticipare l’alba, l’improvviso
bagliore del sole che scardina il cielo più crudo?