Riassunto per non udenti. Pardon, per non leggenti. Infinite Jest, che ormai ha ventuno anni sul groppone, è assunto tra i ‘Grandi Romanzi Americani’ pubblicati negli ultimi decenni. Il ‘Grande Romanzo Americano’, per intenderci, è un genere a parte. Il genere che degenera, che rende degenerati tutti gli altri libri. Negli ultimi decenni ha accolto testi come L’arcobaleno delle gravità di Thomas Pynchon, Underworld di Don DeLillo, Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, Come un’onda che sale e che scende di William Vollmann, Albero di fumo di Denis Johnson e un po’ di romanzi di Philip Roth, il Woody Allen della letteratura americana. Il ‘Grande Romanzo Americano’, di solito, è un romanzo grosso così, difficile da leggere, impossibile da inquadrare in una norma. David Foster Wallace, l’autore di Infinite Jest e di altri libri più divertiti (ad esempio: Una cosa divertente che non farò mai più), è stato preso come il Copernico della letteratura made in Usa, un genio dalle possibilità infinite. Da quando l’ha fatta finita, poi – 12 settembre 2008, cappio alla gola – gli aggettivi si sono spalmati su DFW come la nutella sulla fetta della prima colazione. Per questo, forse, è così tanto ben tradotto in Italia – per farlo leggere a chi si spaventa dalla mole dei suoi libri, Einaudi si è inventata, quest’anno, l’antologia Portatile; Codice, invece, per dire, ha pubblicato Tutto, e di più. Storia compatta dell’infinito. Insomma, il suicidio ha tramutato DFW da scrittore di genio a scrittore di culto. Dalla morte di DFW, inoltre, è fiorita una letteratura intorno ai suoi libri e alla sua vita. Spesso inutile. Spesso agiografica. La cosa interessante, ora, è che nel mondo anglofono si va ribaltando il canone. DFW non è più ritenuto come la quintessenza della letteratura yankee. Anzi. Uno studioso dell’Università di Sydney, Lucas Thompson, s’è preso la briga di sconfessare “le omissioni ricorrenti della critica letteraria, prodotte da accademici tenacemente patriottici che sopprimono la dimensione ‘globale’ di alcuni narratori ritenuti decisivi per il loro Paese”. Il virus ha attaccato pure DFW, ritenuto, sostanzialmente, “figura essenziale della narrativa statunitense, che ha scritto della corruzione dei sogni americani tardocapitalisti”. Balle. O meglio. Troppo poco. In Global Wallace. David Foster Wallace and World Literature, stampato nella collana specifica di studi dedicati a DFW da Bloomsbury (pp.286, £88), Thompson allinea le fonti di Wallace. Uno che per scrivere del suo mondo ha guardato gli altri mondi. “DFW ha debiti formali sostanziali verso figure inattese come Jamaica Kincaid, Julio Cortazar, Jean Rhys, Octavio Paz, Zbigniew Herbert…”. Setacciando tra gli appunti di DFW e le sue diverse, pazzesche riserve di libri, Thompson ci spiega – nel capitolo Wallace and Russia – l’importanza di Dostoevskij letto da giovane, ma anche della Morte di Ivan Il’ic di Tolstoj; mentre in Wallace and World Literature vien fuori “il rapporto di Wallace con l’Asia estrema, l’interesse verso i romanzieri giapponesi contemporanei, tra cui Yukio Mishima, Yasunari Kawabata e Banana Yoshimoto, nonché per la filosofia orientale, in particolare il buddismo”. Sorprendente, piuttosto, il suo amore per la letteratura del Sud degli States (“tracce di idee sono vergate all’interno della raccolta di racconti di Flannery O’Connor, che custodiva gelosamente”), che lega allo studio dell’esistenzialismo francese (Sartre e Camus, “letti direttamente in francese”). Elsa Court, in calce all’articolessa stampata sul Times Literary Supplement (titolo: Worldwide Foster Wallace), può scrivere, in scioltezza, “nell’intro all’edizione del decimo anniversario di Infinite Jest, Dave Eggers sosteneva che ‘il tentativo di creare confronti con questo romanzo è disperato e vano’. Beh, i nuovi studi correggono tale visione”. Insomma, più che l’eroe del ‘Grande Romanzo Americano’, DFW pare il pioniere del ‘Grande Romanzo Globale’.
Girolamo Settanta