05 Aprile 2018

Dalla Francia con fragore, l’ultimo libro di Daniel Pennac. Il suo capolavoro (e lo dice uno che non lo sopporta)

Non sono un fan. Anzi. Daniel Pennac – che di cognome farebbe ‘Pennacchioni’ – è tra gli scrittori francesi più riconosciuti al mondo. Ma a me i riconoscimenti fanno l’effetto di un frigorifero sulla cima del K2. Ignifugo all’ironia, ho sempre pensato a Pennac come a qualcosa tra Gianni Rodari e il primo Calvino: del cosiddetto ‘Ciclo di Malussène’ m’importa nulla, e il suo saggio – armato di fama – Come un romanzo m’è parso di fragrante banalità. Però. I francesi quando ricordano d’essere degni nipoti di Pascal e di Rousseau e di Montaigne e di De Sade – cioè: letteratura psicolatrica, che entra negli anfratti del quotidiano facendo esplodere pirotecniche ambiguità – stupiscono. Di Pennac, ad esempio, mi stupì Storia di un corpo (2012), specie di diario di carnale stupefazione. Ora Gallimard manda in libreria l’ultimo libro di Pennac. E a me pare, superficialmente, un buon libro. Forse è il miglior libro di Pennac. PennacIl libro s’intitola Mon frère, ha l’ampiezza di un pamphlet (144 pagine, 15 euro, per chi sa leggere in francese) e racconta, vent’anni dopo la morte, il fratello di Daniel, Bernard. Pennac ha parlato con discreta costanza del fratello come di “una presenza angelica”. In una intervista su Le Monde, l’anno scorso, ad esempio: “Aveva cinque anni più di me. Abbiamo vissuto nella stessa stanza fino a quando ho avuto 11 anni. Bernard era il grado zero del possesso. Insieme, eravamo soli, in due, una solitudine blindata, una città silenziosa, una profonda amicizia… poco prima della sua morte ci siamo resi conto che non abbiamo mai litigato. In più di 60 anni, non abbiamo mai litigato una volta!”. Di simili cucchiai di mieli può importarci poco. L’esito estetico però è interessante. Il libro comincia fin da subito sigillando la figura di Bernard Pennacchioni con quella del Bartleby di Melville. “Bernard aveva davvero uno stile alla Bartleby, lo stile di chi dice ‘preferisco di no’. Era assolutamente inadatto alla futilità del mondo dei consumi. Carrierismo, mondanità, ambizione… niente di tutto questo lo interessava”. Questo è l’incipit di ‘Mio fratello’: “Il desiderio di mettere in scena il Bartleby di Melville mi è venuto un giorno, pensando a mio fratello Bernard. Guidavo tra Nizza e Avignone, autostrada Sud. Un bolide mi apparve sull’altra carreggiata, uno di quei proiettili di luce che si vedono, a volte, su certe autostrade. Ferrari, penso, rossa, sgargiante. Un uomo di una certa età, che vuole provare la sua nuova macchina. ‘Inutile aggiungere qualcosa all’entropia’. Era uno dei principi di mio fratello, morto”. Nell’intervista ‘promozionale’, Pennac dice che questo è un libro “sul lutto – quando perdi un compagno, il fratello maggiore che ti ha accompagnato tutta la vita, è un tradimento del destino”, ma anche “un libro d’amore – Bernard è la persona che ho amato con più luminosità e senza risentimento nella mia vita”. La cosa più interessante, però, è il concetto su cui Pennac si gioca il rischio del libro. “Non so nulla di mio fratello morto se non che l’ho amato. Mi manca come persona, ma non so chi ho perduto. Ho perso la felicità della compagnia, la gratuità del suo affetto, la serenità dei suoi giudizi, la complicità del suo umorismo, la pace. Ho perso ciò che mi era dolce al mondo. Ma chi ho perso?”. Beh, a me questo introdursi con intransigenza nei sotterfugi degli affetti mi piace. Pregiudizialmente: ecco a voi il miglior libro di Pennac.

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