16 Maggio 2018

“Dal Maelstrom del cattivo gusto ci può salvare soltanto un mimo: il grande Deburau”: l’editoriale di Filippo Tuena sulla grottesca situazione politica italiana

Dopo averlo scritto decine di volte, passiamo dall’orazione alla coltellata. Pangea apre lo spazio dell’Editoriale, una specie di altare da cui tirare pigne, su cui far giostrare la cerbottana, allo scrittore, al poeta. A chi ha occhi rosolati nel verbo, e può per questo sconfiggere la proverbiale ovvietà dell’opinionismo giornalistico. In particolare, abbiamo adottato una formula e uno scrittore. Lo scrittore, con cui abbiamo già chiacchierato su questo magazine, è Filippo Tuena. Romano, pluripremiato – Grinzane-Cavour, Bagutta, Viareggio – è tra i massimi autori italiani di oggi, è autore di libri memorabili come “Ultimo parallelo”, “Le variazioni Reinach”, “Memoriali sul caso Schumann”. L’ultimo romanzo, “Com’è trascorsa la notte” è una rilettura del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare ed è stato pubblicato l’anno scorso da il Saggiatore. Tra le altre cose, ha curato l’epistolario di Michelangelo e i diari antartici di Robert Falcon Scott. La formula è porre allo scrittore una domandina magica di fatata ‘attualità’. Lo scrittore converte i nostri sguardi in caleidoscopi.

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Governo ‘giallo’, governo ‘verde’, governo ‘gialloverde’: in Italia si parla di politica come di calcio. Solo che il calcio ha un re – la Juventus – piaccia o meno (ti piace?), mentre l’Italia ha un vuoto che pare un po’ uno sbadiglio un po’ un barrito. Domanda: non è forse vero che la situazione attuale – il vuoto pneumatico, la consuetudine all’urlo elettorale – è ‘consustanziale’ al Belpaese, agli italiani, in fondo autocrati, anarchici, viziati? Insomma: quale autore potrebbe scrivere la pièce tragicomica dell’Italia di oggi?

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Filippo Tuena brinda al nuovo libro, uscito per il Saggiatore nel 2017

Il problema per un autore sarebbe quello di utilizzare un vocabolario adeguato, pertinente all’epoca e ai personaggi. Guarda, questa cosiddetta ‘narrazione’, il tendere a semplificare, a esprimere concetti essenziali, facilmente assimilabili dall’elettorato è cosa che proprio non riesco più a digerire. Ci sono formule lessicali, perifrasi, metafore che aborro e che hanno preso piede dai tempi di Mani pulite. ‘Tirare per la giacchetta’ per esempio, mi ha sempre intristito. M’immaginavo un’inquadratura di Ladri di biciclette, in bianco e nero, per dire, col piccolo Staiola che si aggrappa a Maggiorani. Ma quella era arte. Venne poi ‘Mettere le mani nelle tasche degli Italiani’. Una cosa sgradevole, detta in modo sgradevole. Poi, le famiglie ‘bisognose’ di Berlusconi. O le cene ‘men che eleganti’. Raccapriccio. Ultimamente Renzi ha rispolverato sia ‘inciucio’ (orribile oltre ogni dire, provo ribrezzo a scriverlo qui) che ‘caminetti’. Per non essere da meno Di Maio e credo anche Salvini hanno risposto con ‘due forni’. Precipiteremo sempre di più e non so quale scrittore potrebbe rappresentare con efficacia questa orribile discesa nel Maelstrom del cattivo gusto. Dovrebbe essere di stomaco forte e, certamente, abile nel rappresentare il grottesco. Vedo più autori di siparietti da Avanspettacolo che non di narrativa. Non so chi scrivesse i dialoghi dei fratelli De Rege. Forse se li scrivevano da soli. Ma farei loro un torto a obbligarli a utilizzare questo vocabolario. Andrebbe bene un mimo: il grande Deburau, per esempio. Carné e Prevert lo presero a modello per il Pierrot di Les enfants du Paradis. Si scriveva le pantomime da solo. E, si sa, nelle pantomime le parole non si usano. Il silenzio sarebbe bello.

Filippo Tuena

 

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