“Ci sono uomini nei quali geme dio”. Intorno a Hugo Mujica, il poeta estremo
Poesia
Francesca Serragnoli
Il 1920 è l’anno anulare per Marina Cvetaeva: muore la figlia Irina, “all’asilo, il 3 febbraio… e la colpa è mia. Ero così presa dalla malattia di Alja (malaria – accessi ricorrenti) – e avevo tanta paura di andare all’asilo… che mi affidavo al destino”. Alja, Ariadna, Arianna era nata nel 1912; Irina nel ’17, l’anno della Rivoluzione. “Le altre donne dimenticano i propri figli a causa dei balli – dell’amore – delle toilettes – della festa della vita. La festa della mia vita sono le poesie… E la cosa più tremenda è che io non l’avevo dimenticata”, continua Marina, ha 27 anni, nella lettera, terribile, a Vera K. Zvajaginceva e Aleksandr S. Erofeev. Tante parole ci toccano, nella petraia dello stomaco: malaria e destino; paura e festa; asilo, affido… Arianna non sa se la madre sia il labirinto o il Minotauro, forse. Due figlie gravemente malate, una, la piccola, affidata alle cure di altri. E persa. “Alja ha 40,4 di febbre… Lei non ha nessuno eccetto me, io non ho nessuno eccetto lei”, scrive, con nitidezza greca, abisso olimpico. Irina muore, Marina vive di stenti – “Nessuno mi vuole bene, nessuno, semplicemente, mi compatisce, avverto tutto quello che pensano di me, è penoso” – a la figlia, Arianna, Alja, sopravvive. Alja seguirà la madre in questa e nell’altra vita: dopo diverse peregrinazioni – Cecoslovacchia, Francia –, tornata in Russia, viene arrestata nel 1939, insieme al padre, e accusata di spionaggio. Il padre – nell’esercito dei bianchi – è ucciso nel 1941; l’anno in cui si impicca la madre. Dal confino, nel 1949, Alja scrive a Pasternak; sarà riabilitata nel 1955 passando gli ultimi vent’anni di vita che le restano a setacciare manoscritti della madre, a scrivere di lei, a rinfocolare la sua memoria. Ma restiamo in quel 1920, capitale. La Cvetaeva passa tra l’attrazione per uomini futili – Evgenij Lann, ad esempio, a cui scrive, “Amico mio, io ho una giustificazione: sono irripetibile. Non perché decida io di esserlo, ma perché c’è qualcosa dentro di me che non può ripetersi; altri occhi, altra voce, e quella barriera naturale che in me non cade mai” – e l’impegno, totale fino all’assurdo, per la poesia. Scrive lettere tanto vertiginose da sembrare un oltraggio, da cestinare – e poemi memorabili, immensi, ‘classici’ e impietosi, profezie di fiabe a venire. Nel 1920, appunto, un secolo fa, la Cvetaeva scrive Zar-fanciulla, opera centrale, memorabile e complessa pubblicata ora come La principessa guerriera da Sandro Teti (sia lode a lui), in cui “si consumano le vicende di quattro personaggi: lo Zar ubriacone, la Zarina di seconde nozze, lo Zarevič, e lei – la protagonista assoluta: Zar-fanciulla, la principessa guerriera, la gigantessa dal nome androgino, l’amazzone russa, insieme donna e re” (così Marilena Rea, curatrice del lavoro, impeccabile). Un’epica terminale, questa, dove “a chiudersi non è solo un poema, ma un’epoca intera”, il cui “nucleo drammatico… è l’incontro mai realizzato tra Zar-fanciulla e Zarevič, il Sole e la Luna, i due elementi complementari dell’unità androgina. «La tragedia del mancarsi» – il paradigma cvetaeviano per eccellenza dell’amore – travolge tutte le sue coppie” (Rea). Il poema va letto come una fiaba bianca, che narcotizza le notti, lasciandosi imbambolare: a volte, come predatori artici, ci assalgono versi, lancinanti:
E di nuovo: lo specchio torna acqua,
l’azzurrità – azzurrità…
Dove il cuore è caduto: rosso!
Fermate il figlio dello Zar!
Legge la lettera-memoria.
Non sono affare del regno le scienze,
il cervello non s’addice allo stemma.
Una crudele passione si scatena
appena legge – sillabando:
– In nessun-dove sono io.
In nessun-dove mi sono persa.
Nessuno mi raggiungerà.
Niente mi restituirà.
Durante la preparazione del testo, insieme a Monica Guerritore, audace interprete di donne letali – è stata, a teatro, la Bovary, Giovanna D’Arco, Teresa d’Avila, Oriana Fallaci, Judy Garland…, ha scritto un libro, per Longanesi, Quel che so di lei, che assembla e dà luce a “Donne prigioniere di amori straordinari” – abbiamo scritto questo testo, per affiancare il prodigio di quei versi. (d.b.)
***
Il fuoco replica la forma dell’albero di cui si nutre: ma quali sono le radici del fuoco? Marina Cvetaeva non è un fuoco – ne è la radice, è un fuoco di cristallo. Il fuoco attrae e ulcera, fiorisce e ferisce. Intorno al fuoco s’irradia la parola, si raccontano storie, si mente. Si fa teatro. Anche quando si uccide, Marina è teatro, crede nel miracolo, fino al fondo dell’abisso. Scrive al figlio – «Ti voglio un bene infinito» – scrive chiedendo che qualcuno accudisca suo figlio – «prendetevi cura del mio amato Mur». Marina muore, ma il fuoco continua ad ardere: l’opera è ipnotica più della fenice. Quando Marina muore, i suoi tanti amori sono già scomparsi. Il rapporto con Boris Pasternak lo aveva risolto quando, un giorno del 1940, un anno e mezzo prima di morire, «abbiamo camminato sotto la neve e sulla neve – fino all’una di notte – e mi è passato tutto – come un giorno mi passerà – tutta la vita». L’ultima infatuazione era stata per un uomo di trentatré anni, un poeta cresciuto nell’orbita di Anna Achmatova, si chiamava Arsenij. Il suo talento era limpido, e lei lo riconosce con la folgorante violenza che le è propria, mangiando. Arsenij è il padre di Andrej Tarkovskij, il grande regista. «Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta – un manoscritto», è la rivelazione che Marina offre al giovane poeta. Eppure, come scrive Michail Bulgakov, «i manoscritti non bruciano»: Cvetaeva scrive con lettere di fuoco. Soltanto Rainer Maria Rilke è stato fedele a Marina, donna per cui l’amore è una catabasi nell’impossibile. La morte di Rilke, dopo un rapporto epistolare d’incendio durato una manciata di mesi, è un sigillo: «Tu e io non abbiamo mai creduto nel nostro incontro in questa vita – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?», gli scrive Marina, l’ultimo giorno del 1926, ma il poeta è già morto, è in quella terra di mezzo tra i vivi e gli andati. Marina scrive una lettera d’amore a un morto. D’altronde, «l’irraggiungibile non è mai alto», e i morti pesano più dei vivi, ogni ricordo prende l’oro di una promessa, ogni parola è testamento: «Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra».
Per capire la natura della Cvetaeva servono poco le raffinate, liriche parole di Pasternak: «La Cvetaeva fu donna di spirito virile, alacre, risoluto, battagliero, indomabile, nella vita e nell’arte aspirò sempre impetuosamente, avidamente, quasi rapacemente alla finezza e alla perfezione, e nel perseguirle si spinse molto avanti, sorpassò tutti». Sono più precisi i tormenti di Sergej Efron, il marito, militante tra i Bianchi, che le ha dato tre figli, è rimasto con lei fino a quando non è stato arrestato e ucciso, una volta ritornato in Russia. «Marina va verso la morte. Già da tempo non ha più la terra sotto i piedi. È tornata da me. Ma tutti i suoi pensieri sono con l’altro. L’assenza di lui infuoca i suoi sentimenti. Lo so: è convinta di avermi sacrificato la sua felicità. Fino – naturalmente – al prossimo incontro. Ora vive dei versi dedicati all’altro. Impossibilità di accostarsi a me, molto spesso irritazione, quasi cattiveria. Io sono contemporaneamente il suo salvagente e la macina al suo collo… La mia vita è una continua tortura», scrive Sergej nel 1924.
Ogni artista, è vero, vive esaurendo la morte nell’amore assoluto, assurdo – opera sul bordo della morte. Marina è una principessa guerriera, ma la sua regalità supera ogni regno, la sua ferocia annienta ogni guerra in un candore inesauribile. Ha scritto di Fedra e di Arianna, Cvetaeva, figurandosi eroina dell’abbandono, però l’esclusiva solitudine di Marina non è quella di Arianna. Lei è il Minotauro donna che ha eretto il labirinto con la propria opera. Nessuno può scalfirne il mostruoso miracolo – Cvetaeva il fuoco lo inghiotte.
Monica Guerritore & Davide Brullo