08 Giugno 2020

Non sopporto la pagliacciata delle “videochiamate”: ho buttato via lo smartphone, leggo, mi fa compagnia Marina Cvetaeva. Torniamo a scriverci lettere!

È dovuta palesarsi la cosiddetta pandemia affinché io acquisissi consapevolezza. O meglio, affinché trovassi il sentiero che mi porta ad essa. Non ho mai seguito il flusso nauseante della marea circostante, credo, ma, spesso, troppo spesso, mi son lasciato trascinare, tracimare e soffocare. Le mie letture, scrivere delle mie letture, il vergar parola e parole m’han tenuto a galla, come si suol dire, ma dovevo ritornare a riva. Quindi risalire, da quella riva, fino ad arrivare, a quel sentiero. La pandemia (limitarsi a definirlo virus, toglie quel tocco di insulsa retorica che tanto piace), il clima di delirio, allucinazione e terrore collettivo: quale miglior ambito, quale più angosciante ambito! L’angosciante ambito dei sentimenti “delegati” ai social, agli smartphone, alla fissità degli schemi (recite) e schermi: i messaggi, le chiamate, ora palesatesi nell’accezione più ridicola: le videochiamate.  Zii, nonni, da sempre accantonati e abbandonati, diventati all’improvviso cavie di un’insulsa farsa. La farsa di chi non sa più cosa comunicare, non sa più cosa dire, la farsa di chi ha rimosso le parole, quelle più sacre e più fatali, soppiantandole con migliaia di specchi nei quali riflettere il nulla. Perché solo il nulla è il meglio che tre mesi soli con se stessi ha abortito l’umanità. Ho ripreso tra le mani, come un richiamo divino e celeste, Deserti luoghi, il secondo dei due tomi dedicati alle lettere di Marina Cvetaeva (Il paese dell’anima è il primo, sempre a cura della suprema Serena Vitale, editi entrambi da Adelphi). Ed è proprio Marina Cvetaeva, l’essenza stessa, più profonda, toccante, urticante e fatale, appunto, della parola. Delle parole. Della parola, delle parole scritte anche a chi è morto. Morto per i comuni mortali, morto per i non vivi, ma non per lei. Rainer Maria Rilke è morto, morto da due giorni a Montreaux, dilaniato dalla leucemia: Marina Cvetaeva continua a rivolgersi a lui come se il tempo non fosse passato, ma “sospeso”, eterno. E gli scrive una lettera:

L’anno finisce con la tua morte? Fine? Inizio! Sei tu a te stesso l’anno più nuovo. (Caro, lo so, tu mi stai leggendo prima ancora che io scriva). Rainer, ecco sto piangendo, sei tu che mi sgorghi dagli occhi.

Non voglio rileggere le tue lettere, altrimenti mi verrà voglia di raggiungerti, di venire là – e non oso volerlo: tu sai che ogni cosa è legato a questo “volere”, Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra. Hai mai pensato a me – Sì! Sì!Sì! – Come sono infelice. Ma non devo affliggermi! Stanotte, a mezzanotte, brinderò con Te. (Tu sai come sfiorerò il tuo bicchiere – piano piano!).

Caro, fai in modo che io ti sogni spesso – anzi, no, non è giusto: vivi nel mio sogno.

Adesso hai il diritto di desiderare e di agire.

Tu e io non abbiamo mai creduto nel nostro incontro in questa vita – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? Tu mi hai preceduto (ed è stato meglio!) e, per farmi una buona accoglienza, mi hai prenotato non una stanza, non una casa – un intero paesaggio. Ti bacio sulle labbra? Sulle tempie? Sulla fronte? Naturalmente – sulle labbra, veramente – come un vivo.

Caro, amami più forte e diversamente da tutto. Non arrabbiarti – ti devi abituare a me, a come sono. Cosa, ancora?

Non è vero: non sei ancora in alto e lontano, sei proprio qui vicino, la fronte sulla mia spalla. Non sarai mai lontano: l’irraggiungibile non è mai alto.

Se il mio caro ragazzo adulto. Rainer, scrivimi! (È abbastanza stupida la mia richiesta, vero?) Ti auguro buon anno e uno splendido paesaggio celeste. Marina”.

*

Quanta purezza, quanta bellezza, quanta grazia, quanto candore in quest’animo affranto. Quanta altezza, irraggiungibile altezza, in queste parole. Parole che scavano le montagne, svuotano i mari, incendiano i boschi, illuminano e oscurano i cieli. E il richiamo, quello di Marina Cvetaeva e le sue parole, ha fatto da eco ad un altro richiamo. Dissotterrando dai cassetti e dall’animo delle vecchie mie lettere, lettere di vent’anni or sono di un amore perduto. Lettere che avevo abbandonato, nascosto e dimenticato. Lettere ritrovate al momento giusto. E anche qui, son rimaste le parole, le sue parole. Paola, il suo nome: “scrivi, i tuoi sogni, le paure, i pensieri, le cose che non riesci a dirmi, le cose che vuoi ricordare, quelle che vorresti dimenticare. Esprimere e ricordare le proprie emozioni. Se scrivi quello che provi puoi parlare anche con te stesso, con il te stesso del presente e quello del futuro, e avrai sempre qualcuno con cui aprirti, in ogni momento in cui desidererai farlo. I messaggi e le telefonate fanno male, perché restringono la nostra possibilità di esprimerci. Scrivere è una forma d’arte, arte vuol dire essere te stessi, arte vuol dire vita, perché la vita è inutile come l’arte e l’arte è utile come la vita”. Non credo di averle mai ascoltate per davvero, allora. Non credo di averle mai lette per davvero, allora. Ma a differenza del vuoto che muore all’istante attorno a me, le parole vivono: e quelle di Marina Cvetaeva e Paola, mi hanno ancor più reso consapevole, che è ora di seguirlo, il sentiero. Già da due settimane m’ero liberato dello smartphone, perdendo “amici” che   mi crederanno, la cosa mi conforta, deceduto. E ora, se proprio devo palesarmi, questi spazi letterari sono quelli, gli unici, che mi meritano. E che mi merito.

Cosimo Mongelli

Gruppo MAGOG