24 Aprile 2022

“E non c’era ancora la guerra. E nel cielo di Kiev affiorava una Croce”

Sai, noi siamo pellegrini già stanchi, fuori dal resto, il nostro tormento è la cavezza di Sant’Agostino, un qualche legame con faccende destinate a finire. Puoi chiamarla cupidigia.

Vorrei annunciarti la grande Croce nel Cielo. È il cielo della Siberia, mentre giù, ignare, si assecondano case aduste, mute, l’una accanto all’altra. Non c’è ancora la guerra. È gennaio. La Siberia è uno di quei misteri agonizzanti che si aprono altrove, quasi a ribadirne l’essenziale inutilità, eccetto nelle pagine di un testimone internato, uno dei nostri amati russi, quando ancora potevamo dirlo “amati russi”; l’altrove sofferente, spartano di ogni indizio, nemmeno una consolazione letteraria, irto di isbe dove non sai quale bolso mestiere immaginarvi, una vita, una preghiera. Allora noterai, sopra le case, allampanate, su strade fangose, mortificate dai fari sbilenchi di vecchie utilitarie di marca sovietica, il braccio infilarsi ora da una parte ad allargare al mondo lo scandalo della gratuità e ora dall’altra a ragguagliarne ancora, empi come fiori vizzi, da irrorare e infilare in ceste piene di grazie, simili a petali, come scriveva don Tonino Bello, i petali, gli empi, i fiori vizzi o semplicemente un capo chino e addolorato. Di quel dolore glabro puoi farne qualcosa. Il cielo crolla sopra le cime dei larici, diventa d’un tratto buio, sterminati sussurri interrompono le luci tremolanti dei lampioni radi e smilzi.

È il villaggio di Sosnovka. Una bambina piange sul ciglio gelato. È appena nata. Lo sai che la vita si replica malgrado la nostra cavezza, le catene, le cupidigie e noi pellegrini già stanchi? Lo sai che piange perché è viva?

Le cronache sembrano raggiungerci da suggestioni terribili, arcane, e dalle irrevocabili apocalissi. Non c’era ancora la guerra e forse in quel mentre, esattamente allora, ancora una Croce si alzava sulle cime severe dei larici, prossime a imbrunire, appena più in là, nel cielo di Kiev, sfiorare le cupole dorate e turgide della chiesa di San Michele. E dicono che una volta una creatura volante, bianca, una notte, planasse verso un campo, tra Sebastopoli e Danesk, e fosse bianca come un angelo, una creatura, una Croce. Sembrava una Croce.

E intanto lei, non ha un nome, lei intanto sul ciglio gelato di una strada senza una fine, di quelle distese disperanti in grado di coscrivere presagi, assoldare corvi neri, disfatte, suoni sinistri di uccelli notturni; eppure era lì, avvolta da uno straccetto. Ed erano venti gradi sotto lo zero. Piangeva che poteva morire, piangeva. E tutte le Croci in cielo e non c’era ancora la guerra. Allora sopraggiunse la salvezza, matura nelle guance violacee di un ragazzotto, si chiama Renat. Ha un nome. Renat Litvinov. Raccoglie la bambina da terra, avvolta da una povera fascia.

L’hanno chiamata Luna. Era un natale ortodosso, non di mille anni fa. Un natale che non c’era ancora la guerra e noi potevamo ancora dire Siberia e i nostri “amati russi”.

Tu puoi essere Renat, se vuoi. Ricordi quel bambino di nove anni? Ripiega la letterina e la depone dentro un cassetto, sono gigli, nella cesta delle grazie. Tutto è salvo e perdonato.

Depone la letterina. Tutto è salvo, il lutto non è un tradimento, ha attraversato la prima soglia di innocenza, le mani di un bambino.

Renat nel frattempo invece depone Luna, nella culla acconciata per la circostanza improvvisa. Un sincretismo evangelico. Una strenna. Biblica, direi, provvidenziale, scagiona tutti, sai?

Gli adulti di casa Litvinov osservano l’aureola morbida e sonnecchiante, un’aureola nell’insieme, una corolla, un girasole, infilata sotto spesse copertine di lana della Mongolia.

E non c’era ancora la guerra. E nel cielo di Kiev affiorava una Croce come sprofondasse da sette cieli di cristallo e dovesse ancora annunciare.

Annunciare nella giaculatoria dei segni a venire.

E non c’era la guerra. E non ci sono che ragazzi come Renat. Non ragazzi bardati, che esplodono in aria, le viscere tra le mani; bambini come soldati, soldati come Renat, le viscere nelle mani: eccola la morte è arrivata, un grande sole rosso. Non è troppo presto?

Non lo è?

Mentre la guerra è la guerra.

Ricordi i crocifissi di Dorogò? I crocifissi di Curzio Malaparte. Le immagini sparigliano melmose, come ispirate da un sogno; verso l’orizzonte che pareva schiudersi chiaro, il guscio di un uovo. Oltre il viale alberato, sopra le fronde, il silenzio era viscido, non era silenzio, tanto che curvo sul cavallo, il condottiero, temeva le strane presenze del tutto simili a grossi corvi neri. E invece erano uomini, di ramo in ramo, di cima in cima, si udivano le lingue del mondo stridere, supplicare. Malaparte ne “La pelle” urlava: Wer da? Chi siete voi?

Implorava: Chi siete voi? Io sono cristiano.

Le voci che parlavano mille lingue, russo tedesco ungherese, si sovrapponevano nel tempo dell’agonia. Finché alla fine del sentiero, prossimo all’alba, emergeva il suono rauco, ed erano gli uomini crocifissi. Così scrive: “Erano uomini inchiodati ai tronchi degli alberi, le braccia aperte in croce, i piedi congiunti, fissati al tronco da lunghi chiodi. Alcuni avevano la testa abbandonata sulla spalla, altri sul petto, altri alzavano il viso a mirar la luna nascente. Molti erano vestiti del nero kaftano ebraico”. Altri erano nudi, la bocca schiusa in una specie di smorfia, le barbe lunghe, barbe ebraiche, le occhiaie, la carne che splendeva “castamente nel tepore freddo della luna”. Poi gli uomini crocifissi tacevano, il condottiero curvo sul collo del suo cavallo sentiva gravare il loro sguardo pesante, trapassargli il petto. Gli occhi degli uomini crocifissi bruciavano come fuoco, le bocche erano nere e cavernose, i loro nasi adunchi, un tormento confuso dal quale interrogare la morte, il suo ritardo.

Capisci?

È la guerra.

Vuoi che ti scriva del sacro e dell’umile. Ma non conosco il santo zelo, scriveva Sant’Agostino, le suppliche salgono al Cielo, lo spirito edificato, non saprei.

Leggeremo il Libro delle Ore.

Quando veniamo al mondo, il nostro vagito è l’autentica sulla vita. Non so quale dolore possa tradurre, non credo sia lo stesso che traduca il pianto di Dmitri Karamazov o quel che egli interroga del pianto.

O lo è? Che forse il dolore lo sia? Il nostro balbettio mediocre al cospetto dell’Eterno.

Ce n’è abbastanza, direi, per festeggiare il primo compleanno di Luna.

Veronica Giuliani

Gruppo MAGOG