22 Gennaio 2022

“In questo tempo di enigmi e di segni”. Cristina Campo e Maria Maddalena

Maddalena la perduta, la peccatrice, la posseduta; Maddalena la prescelta, la compagna, l’amata che rompe l’ampolla, e unge il capo di Gesù con olio di nardo; che gli asciuga i piedi con i suoi capelli, che abbraccia la croce sul Golgota. Maddalena che attende fuori dal sepolcro di pietra, che non abbandona, che non cede, che vede per prima Cristo risorto.

Cristina l’aristocratica, l’asceta, la studiosa, Cristina la smarrita, la sola, la spaventata; Cristina nel corpo di una donna intrisa di bellezza, gli occhi ardenti, gl’infelici amori; Cristina l’altissima, fragilissima, la regale; il suo cuore malato, la sua mente abitata dal genio; il suo dolore affilato in cristallo di purezza.

Due donne, al cospetto di Dio, nel modo più diverso che possa esser dato. Eppure.

Di Maddalena Gregorio Magno alla fine del V secolo volle fare un’unica figura, variegata tra il peccato, la devozione, l’elezione a prediletta, la grazia. Poi la Chiesa successiva ha voluto distinguere, puntualizzare, scindere tra Maria di Magdala, Maria di Betania e la peccatrice perdonata da Cristo; poi, a scopo purificatore ed espiatorio, ha voluto accorpare, interpolare intorno al IX secolo Maria Egiziaca, cortigiana d’Alessandria, che dopo diciassette anni di vita dissoluta si converte, e si ritira nel deserto di Transgiordania con tre pani, dei cui soli si nutrirà per sessant’anni.

Ma erano necessari altri esorcismi, per contenere la potenza eversiva di Maddalena, colpevole di essere donna intera e viva, vibrante di bellezza, accanto a Gesù: la Controriforma irrigidisce la sua figura in un io penitenziale, che si dibatte tra colpe confessate, richieste di perdono, tormenti di vergogna. E così il Concilio Vaticano II, che permetterà il culto solo dell’ultima Maddalena, quella cui Gesù risorto appare, elevandola a discepola, mentre le sue raffigurazioni precedenti di peccaminosa imperfezione sono espunte. Non accade questo nel cristianesimo ortodosso, tanto caro a Cristina nelle ricchezze e perfezioni risolute della sua liturgia, in cui Maddalena viene rappresentata in ogni suo aspetto: nelle vesti di Maria di Betania quando assiste alla risurrezione di Lazzaro, prostrata ai piedi di Gesù in silenziosa contemplazione; oppure prona ai piedi della croce, con veste purpurea; o nel giardino accanto al sepolcro aperto e vuoto, con i due angeli e altre donne, o sola, inginocchiata e protesa, ardente di amore verso il Risorto.

Artemisia Gentileschi, Maddalena in estasi

La Chiesa programma e dispone, con quei fervori, spesso innocenti benché miopi, con quei calcoli tutti umani dell’opportunità, dell’utilità, della sostenibilità dogmatica e dottrinale. Ma non hanno importanza le numerose revisioni, i ripensamenti, le scissioni in più personaggi storici che, fin dagli albori del cristianesimo, sono state fatte per distinguere tra Maddalena peccatrice, penitente, eversiva, devota: l’archetipo rimane complesso, multiforme, vigoroso; se la congiunzione tra opposti è il segreto di ogni epifania archetipica, quella riunita in Maddalena è una triade femminile antica, che non conosce cesure nella sua potenza luminosa.

Alla stessa maniera non è possibile porre separazioni tra la Cristina austera e sprezzante, che predicava auree elezioni e rigide esclusioni, l’aristocratica che condannava ogni sbavatura, una Guermantes cultrice del dettaglio, e colei che raccoglieva i gatti randagi, apriva la casa ai clochard, visitava i condannati; tra l’anima sofferta e assetata di tenerezza divina che leggeva la Filocalia e praticava l’Esicasmo, e l’agitatrice che promuoveva insurrezioni contro il Concilio Vaticano per mantenere la Liturgia delle origini; tra la donna splendida, mondana, presente al secolo in abiti eterei e preziose conversazioni, e l’anima consacrata, sfuggente, velata, in costante presenza liminare su soglie di spiritualità inaccessibili: anche lei fanciulla «mezza monaca mezza fata» come la piccola Portinari di van der Goes, posta a sua icona indelebile, in copertina agli Imperdonabili.

In entrambi i casi ci troviamo di fronte a prototipi femminili cultuali, venerabili e, nella loro distanza, convergenti fino a collimare.

Cristina bambina, tra gli alberi del parco bolognese del Rizzoli, splendida creatura malata, piccola sensitiva che legge le fiabe, e intuisce l’oltre, irrimediabilmente. E poi Cristina ragazza, che patisce i suoi demoni, immersa nel mondo visibile ma tormentata da nostalgie di un sopramondo che le sussurra all’orecchio; tra infanzia e mistero, le visioni struggenti di bellezza l’accompagnano, facendone uno spirito fremente e trafitto, col tremore e i chiaroscuri della fiamma nella notte.

Cristina costretta alla desolante quotidianità, a cercare tracce del sacro in un reale ottuso, chiassoso, mutilo e opaco, prono alla legge di necessità. Cristina che legge Hugo von Hofmannsthal, Simone Weil: che intuisce il diagramma, vede attraverso la grata, oltre il velo agli occhi, e cerca di uscire dalla dimensione immaginaria per entrare nella trasparenza dell’attenzione purissima, in cui ogni creatura viene percepita con precisione, nella giustizia equanime del mediatore di senso. Cristina che è chiamata dalla bellezza, dalla sventura, e prega con la poesia: nei versi di giada, nei castelli di seta, l’incanto a soprammercato di giustizia.

E ancora Cristina sui testi, che si struttura in erudizione, che studia febbrilmente gli apparati filosofici, il telaio teoretico di Simone Weil: la creazione, il bene frantumato nel male, la distanza della creatura da Dio, l’amore che trafigge il vuoto, la negazione di sé; nella comprensione intellettuale ed etica rigorosa, nel sacrificio della propria individualità per la giustizia sociale, le affini teorizzazioni e gli abbandoni mistici di Giovanni Della Croce, di Meister Eckhart; ma poi, tutto saputo e teorizzato, tutto sistematizzato, ecco il nulla che persiste, la sofferenza dell’isolamento, della separazione; il cadere in Dio per resa, per abbandono, per un patire cui la gnosi, alla fine della via, non risponde più. Il dolore che vince, che piega, che scavalca qualsiasi spiegazione; ma che poi libera ed elegge, nell’incanto sanguinario, nell’estasi che inchioda.

Georges De La Tour, Maddalena penitente

Lontanissima ma per mano, c’è Maddalena: l’umile silenziosa, che più di tutti capisce e ascolta, e rimane quietamente in attesa, nel riserbo. Maddalena liberata dai demoni, cava, accogliente, pronta al gesto liturgico, infinito. Maddalena che ama il figlio di Dio nel modo totale in cui una donna ama un uomo: quel trasporto che non si nutre di conoscenza, ma arde come una piaga d’incenso. Gli incontri tra Maddalena e Gesù sono scarni di parole, avvengono nell’intensità del contegno, nella dimensione profonda della sospensione d’intenti e dello scambio di significati: Maddalena è una continua eversione, ha atti che ignorano gli atteggiamenti consentiti, e affermano il nuovo, l’impensato, senza parole. Il vangelo di Maddalena è scandalo silenzioso, affinità assoluta.

«Or Gesù, essendo risuscitato la mattina del primo giorno della settimana, apparve prima a Maria Maddalena, dalla quale aveva scacciato sette demòni» (Mar 16:9).

Maria di Magdala è il femminile intero, che spaventa e rapisce, che annienta: da peccatrice a eletta di Gesù, ne diviene compagna fidata, e lo veglia in tutte le tappe del martirio, partecipando alla sua nera, grondante passione; attendendolo fuori dal sepolcro e vedendolo apparire, lei per prima, da risorto.

Nei testi gnostici, nel vangelo di Tommaso, Maddalena è colei che ricompone la dualità maschio-femmina, è la luminosa che tutto comprende, anche l’ineffabile; è colei che, tra i discepoli, ha il cuore più rivolto al regno dei cieli. Nella Pistis Sophia sono presenti Maria madre di Gesù, Salomè e Maria Maddalena, ma è quest’ultima che interviene, interagisce con Gesù che si svela, e partecipa ai passaggi speculativi e teologici più importanti, per ben sessantasette volte. Anche qui Maria Maddalena è sposa e sacerdotessa di Gesù, ma incarna la conoscenza; nei vangeli del Nuovo Testamento invece, Maddalena è qualcosa di più: è la donna concava e risonante, che accoglie e ridà alla luce, che non abdica di fronte al dolore tremendo, alla sventura, alla perdita. Crocifissa nell’anima per amore, sosta nella sofferenza immedicabile, la restituisce al mondo in schegge di luce.

Nel medioevo Maddalena è la santa capace dell’impossibile: a lei si rivolgono i malati senza speranza, che già hanno tentato ogni cura e devozione; spesso la guarigione avviene lungo la via del ritorno dai santuari di Provenza, quando il viaggio si fa scuro, marchiato di fatica e polvere, della disperazione del mancato: mano che dà quella salvezza asincrona che è elargita ai perduti, al di là della soglia, oltre la buia resa.

Maddalena stessa è, all’origine, perduta in molti modi: è invasa da presenze maligne, abitata da demoni che la possiedono e confondono, rendendola estranea a sé stessa; Maddalena è Maria di Magdala: nel nome solo la provenienza, da una città tra Tiberiade, Cafarnao e Tabga, luogo di passaggio e di commercio, presso la piana di Genezaret; lì si dissecca il pesce, lì si praticano adulterio e corruzione, le sue donne sono riccamente adornate, dissolute; Maddalena porta questo marchio, e non è né madre né moglie, non ha genealogia; risuona qui, speculare, il sarcasmo dell’iscrizione messa da Pilato, per dispregio, sulla croce di Cristo: Gesù Nazareno, Re dei Giudei. Nessun possedimento né titolo, nessuna provenienza, solo il cammino: Gesù di Nazareth e Maria di Magdala, figure speculari nella loro diversità, possiedono solo la polvere sui calzari, e una sorte che, dolorosa di grazia, li conduce.

François van Bossuit, Estasi di Maria Maddalena

Maddalena, sottratta ai demoni, rinasce a creatura unitaria, chiamata: Gesù si limita a farle cercare, tra i tanti che le brulicano nella mente, il suo vero nome: quello che la identifica, la delimita, la salva: «Mi inchiodava con il suo sguardo, con infinita pazienza ripeteva la sua domanda. Finalmente ho sentito salire alle labbra, in una schiuma di bile, il nome che aspettava. “Maria, io sono Maria”». Pierre-Marie Beaude, Marie la passante, Lonrai, Desclée de Brouwer 1999, trad. Giulia Valerio, cit. in EAD., La figura di Maddalena e l’archetipo della grazia, átopon, quaderno 2/2010).

Maddalena da brulicante di voci si fa cava, pacificata, sintonica. Ora è, per Gesù, anima in attesa, allieva e specchio, polo dialettico; grembo e tomba, sposa nella rivelazione che si accende, compagna di accudimento e devozione, nel donarsi reciproco che va oltre il computo. Maddalena è la Maria di Betania di Matteo e Giovanni, la peccatrice di Luca: rompe il vaso di alabastro, e, piangendo, gli riga di lacrime i piedi, li asciuga con i suoi capelli; lo bacia, lo unge con l’inestimabile olio di nardo. Mentre il fariseo dubita, insinua, e calcola, Maria con il suo dono scandaloso soverchia ogni parametro, ogni buona regola, ogni condizione: è testimone del bene che non teme, che va oltre.

Gli unguenti benedicono la pelle di chi va all’amore, di chi si prepara alla lotta. L’olio veste la carne di preziosità, lo sottrae alla miseria e lo sigilla in trasparenza; lo porge in dono all’altro, all’altrove: «Versando quest’olio sul mio corpo, lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico che in tutto il mondo, dovunque sarà predicato questo vangelo, anche ciò che ella ha fatto sarà raccontato in memoria di lei». (Matteo 26, 6-13). Cristo è incoronato re e designato redentore da una donna, la più umile: la sua accoglienza quieta e totale abita il sacro come vocazione piena, idoneità assoluta, oltre ogni inferenza logica.

Come nota Yannaràs, qui l’eros capovolge il logos, nel gesto «senza risparmio e misura»: il contesto giudicante, l’istituzione religiosa, non trovando opportunità logica, né misurabilità etica, rimane straniato; lo sconsiderato slancio d’amore, nel pieno rinnegamento di sé, senza calcolo di remunerazione, gli è incomprensibile. Maddalena è peccatrice alata, nell’affezione purissima e silenziosa abbatte la legge, rende «inservibile la logica». L’atto liturgico: rompere il vaso (Marco 14:3), che equivale, simbolicamente, a rompere la propria verginità morale, di donna che si concede a molti per non darsi a nessuno; ma ora, nella frantumazione, nel superamento, nella gratuità dell’offerta, immemore di sé, dà accesso intimo all’altro, all’Amato.

Maddalena, diversamente dagli apostoli, non viene educata negli insegnamenti, né tantomeno disquisisce o parla; non la dottrina, ma un’intimità edenica, aurorale la unisce a Gesù, cui starà vicino, come una creatura angelica, fino alla fine: davanti al tradimento, all’ingiusta condanna, al dileggio, al martirio della croce, è la donna-presenza che avvolge in vicinanza limpida, scavalcando la furia cieca del male.

Ai piedi della croce è silente, trafitta nella pena della cura, dell’attesa che non recrimina, che, nel puro strazio, attende. Spesso l’arte l’ha colta distesa, come basamento o radice, dove il dolore dell’incarnazione si pianta e penetra, per elevarsi a perpendicolo, verso il cielo.

Jan de Bray, Maddalena penitente

In  Matteo e Giovanni (Mt 27:57-60; Gv 19:38-42), dopo la deposizione, Giuseppe di Arimatea fa avvolgere Gesù in un telo di lino e lo pone nel suo sepolcro di pietra, senza che Maddalena possa preparare, ora sì, alla sepoltura il corpo dell’amato; ma la donna attende davanti all’adito, ha nel palmo balsami e unguenti, e nella mente la condotta rituale che vorrebbe percorrere a ritroso lo scempio: estrarre i chiodi, detergere i coaguli ematici, comporre le piaghe, togliere le spine dal capo: il supremo femminile, che, accanto alla morte, continua a celebrare la vita, servendo un ordine inverso.

E ancora, di fronte al masso divelto, al sepolcro abbandonato, fa esperienza estrema del vuoto, dell’abbandono: in quieto custodire attende, lasciandosi abitare, e, in tensione luminosa d’amore, si fa dimora del sacro: solo qui l’immenso e l’invisibile possono posare.

La dimensione femminile e profondamente erotica di Maddalena passa attraverso il cordoglio dell’assenza che persevera nei territori d’amore, annientando qualsiasi affermazione di sé. Così è in Simone Weil, ma anche in Giovanni della Croce e in Meister Eckhart, mistici che perseguono lo svuotamento della pulsione interiore e la ricongiunzione al principio primo, al divino che vibra in ogni individuo.

Ma in questo esserci per l’altro di Maddalena, che tanto somiglia a quello di Cristina, respira un femminile archetipale, di cui si ha nostalgia: la tenerezza fatta presenza, la grazia silenziosa che riluce, docile a un disegno d’amore superiore che è luogo intimo di accoglienza, vocazione a farsi condurre; in attesa, in astensione e accumulo, come accade per Amore, Destino, e Poesia.

Maddalena e Cristina ebbero entrambe tale estraneità tanto assoluta quanto radicale al proprio tempo: l’inesausta ricchezza del riserbo, la trama preziosa del cenno silente, potente e arcano, la percezione altissima e attenta.

È qui, leggiadramente inscritta in questo archetipo, l’ardente, integra, nobilissima Cristina: che deplora le bassezze e le viltà dell’umano, che invoca la benedizione di una coperta ascesi, nella regalità della sprezzatura: poiché sa che «con un cuore legato non si entra nell’impossibile», di nulla tiene conto, tutto lascia e perde per tutto ritrovare; Cristina che si fa cava, rispondente, che fa di ogni mancanza un invaso di carità: «La necessità di accettare, l’uno dell’altro, la parte sconosciuta, fanciullesca, ferita […] richiede viaggi agli Inferi, salite al Carmelo, per mostrarci il suo volto. Come riuscire a fare al prossimo la domanda di Anfortas: “Fratello, qual è il tuo tormento?”».

Cristina parla di altrui romanzi, di musiche di scena nel teatro di Shakespeare; dell’architettura delle ville fiorentine, dei trappisti delle Tre Fontane; dell’incenso rituale, della preghiera giaculatoria, del suono delle campane; dello studio di Guidobaldo, dei dipinti di Masaccio; ed è sempre quel «tentativo di dissidenza dal gioco delle forze, “una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”» che allude «con lo stesso gesto a un solo centro, un solo ospite assente o presente»: è la sua attenzione che diviene, in ogni cosa, annuncio del sacro, e si fa poesia geroglifica, rituale: «Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi».

Jean-Baptiste-Camille Corot, Maria Maddalena che medita

Eppure Cristina non è solo perfezione: è ricerca sofferente, a strapiombo sul nulla, come Maddalena; ma non cede mai al senso del vano e dell’assurdo, grazie a quegli «attimi di visione» che sempre ha in dono, a quegli scorci dell’«altro lato» del tappeto, allo svelato «inconcepibile disegno» che è «frammento di figura, parte del tutto»; prescelta su vie di frammentata rivelazione, conosce lo spavento: «Ciò che è più doloroso, in questo tempo di enigmi e di segni, di illuminazioni e di ottenebramenti, è l’impossibilità quasi totale di afferrarne saldamente la bellezza, i.e. di farne poesia. Un grande timore, un timor sacro mi paralizza»; ma, come Maddalena, trova consolazione: «Il dio toglie il senno a chi vuol perdere, dicono. Ma con quale accortezza lo toglie a chi vuol salvare».

Anche per lei una grotta vuota, un lenzuolo di lino ripiegato, l’ordine pulito, il decoro buono. Ma sua è la desolazione dei giorni, degli affetti, la solitudine più sconfortata. Fin quando il vuoto all’esterno, che è desiderio e sete, non viene accolto e dilatato all’interno, portando a quella concavità di chi nulla più chiede o desidera, ma soltanto si lascia abitare: «Come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto […]. La parola che dovrà prender corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. […] Un vuoto ricolmato di silenzio nel quale il destino precipiterà come l’energia nel vuoto pneumatico, è ciò che ci descrive san Giovanni della Croce».

Un cammino a ritroso, nel silenzio e nella preghiera, verso la memoria del più vero sé, verso quella matrice che origina nell’infanzia, e segna il nostro avvenire, lastricando la via: «E la mia valle rosata dagli uliveti / e la città intricata dei miei amori / siano richiuse come breve palmo, / il mio palmo segnato da tutte le mie morti».

Cristina rigida, intransigente, severissima con sé stessa, si dichiarava lontana da ogni rivelazione: «Ma io non ho, davvero, che la poesia come preghiera – ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera (non dico pura, ma è differente?) da poterla deporre a quell’altare – di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini – come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo? […] E io non parto dall’amore di Dio – sto nel buio; ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce».

Pronta alle sorti estreme, è nell’assoluto dono che non chiede, grata persino nello strazio: «Nobilissimi ierei, / grazie per il silenzio, / l’astensione, la santa / gnosi della distanza, / il digiuno degli occhi, il veto dei veli, / la nera cordicella che annoda ai cieli / con centocinquanta volte sette nodi di seta / ogni tremito del polso, / l’augusto canone dell’amore incommosso, / la danza divina del riserbo».

Cristina seppe fare del lavoro letterario un mandato sacro, esercitato in generosità sofferta, in ascesi: ogni via la portava al vuoto dell’accogliere, dell’attendere, in una dimensione fortemente amorosa ma incredibilmente pura: «In realtà ciò che fa del destino una cosa sacra è lo stesso che distingue la poesia: la sua reclusione, segregazione, l’estatico vuoto in cui si compie. […] La scena del destino è concava tacita e risuonante come la cassa di un prezioso strumento»; in una costante vocazione liturgica, rituale: «L’incenso è inesprimibilmente misterioso. Esso è insieme preghiera e qualcosa di più fine, più acuto della preghiera. Compone l’aroma dell’eros con quello della rinuncia, è resa di grazia ed è, come il nardo, alcunché di soavemente ferale».

Proprio lei nota il gesto di Maddalena, a casa di Simone: «La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole» perché l’assenza di calcolo è, di per sé stessa, offerta erotica e contrae privatissime nozze con chi riceve, ancor di più se è cuore divino, hieròs gámos. Qui il simbolo più seduttivo e caro di ogni femminile.

Cristina in ogni quotidiano si fa eucaristia, persegue il darsi significante e doloroso della croce: di fronte alla insussistenza del reale e alla propria inettitudine a reperire un senso, attraverso la notte buia di negazione del sé, perseverante d’amore, cade nelle braccia di quel Dio che tanto aveva cercato: «Tu, Assente che bisogna amare… / termine che ci sfuggi e che c’insegui / come ombra d’uccello sul sentiero: / io non ti voglio più cercare. // Vibrerò senza quasi mirare la mia freccia, / se la corda del cuore non sia tesa».

Il simbolo di ogni dilacerazione umana è Gesù sulla croce, mediatore tra essere assoluto, teso in verticale, e creatura incarnata. E alla base della croce c’è Maddalena, che radica nella terra la redenzione, con il suo dolore muto, risoluto nel dono, in purezza. Devota attesa, passione condivisa, ardore che ha in dispregio il pericolo. Attesa irrazionale, attraversamento del vuoto; e ritrovamento, nel rispetto del mistero: noli me tangere.

Dal vuoto di Dio, che brulica di realtà terrene miserevoli – i demoni di Maddalena, l’immaginazione di Cristina, che è visione deformata dall’io – si giunge alla sventura, la malheur di Simone Weil, in cui l’uomo è ridotto a pietra. Ma se la bellezza, retaggio tremendo, suggerisce un principio esterno al visibile, così la sventura, con la propria tenebra assoluta, può essere il varco, dolorosissimo, per annullarsi e, in equilibrio ardente, ritrovarsi accolti nel cuore dell’eterno: «La privazione è subito nutrimento, la volontà consenso, il dolore sentimento compiuto della presenza e l’umiltà una corona di grazia continuamente ricevuta e restituita».

Jules Lefebvre, Maria Maddalena in una grotta

Così Paul Celan: «Vicini siamo, Signore, / vicini e afferrabili. // Già afferrati, Signore, / intrecciati uno nell’altro, come se / il corpo di ciascuno fosse / il tuo corpo, Signore. // Prega, Signore, / prega noi, / siamo vicini. // Piegati dal vento andammo, / andammo per inchinarci / su conche e cavità. // All’abbeveratoio andammo, Signore. / Era sangue, era ciò / che avevi versato tu, Signore. // Brillava. // E gettava la tua immagine negli occhi nostri, Signore. / Gli occhi e la bocca sono così vuoti, Signore. // Abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine che era nel sangue, Signore. // Prega, Signore. // Siamo vicini» (Tenebrae, da: Sprachgitter, 1959, Trad. Stefanie Golisch).

Ed è questa la tenebra di Maddalena, di Cristina, qui cantata dal poeta: la spaventosa distanza tra uomo e Dio, colmata solo quando, nell’affanno, si mantiene il timone al bene, se pur trafitti di spine: «Non resta che protendere la mano / tutta quanta la notte; e divezzare / l’attesa dalla sua consolazione, / seno antico che non ha più latte. // Vivere finalmente quelle vie / – dedalo di falò, spezie, sospiri / da manti di smeraldo ventilato – col mendicante livido, acquattato // tra gli orli di una ferita».

Diverrà di moda Cristina, la chiameranno in causa per sostenere o confutare tesi e antitesi, in modo funzionale, proficuo, programmato. La porteranno sul foglio suo malgrado, con semplificazioni aforismatiche, deformanti. Banalizzandola, la renderanno fruibile senza sforzo, come lei non voleva: «L’operaio ride di Antigone ed Elettra […] se gli sono spiegate facilmente […] mentre lo tratterrà il rispetto se ode un linguaggio sacerdotale, un linguaggio che la potenza numinosa impone d’autorità […] la cultura, il pensiero, la Poesia sono un Carmelo da salire».

Quel che più commuove, è che lei sapeva, fin da allora, di questo rischio: «La croce di guerra di Saint-Loup lasciò la sua testimonianza sul più sordido degli impiantiti e la meravigliosa silhouette di uccello d’oro ne perdette i superbi, solitari contorni».

Per chi ha imparato a fare i conti con il suo sofferto silenzio, il nobile riserbo, gli scavati afflati mistici, le generosità segrete, lo splendore in carità, il cuore di Cristina rimarrà un diamante intatto, ineffabile, in comunione col mistero. A chi scrive vengono alle labbra queste sue parole: «E tutto ciò, tutte queste cose irrimediabilmente condannate […] noi le viviamo con l’intensità inesprimibile di chi si è innamorato di una creatura segnata. E forse anche questo, essendo una passione, è parte della Grazia».

Guido Cagnacci, La conversione della Maddalena

Le stanze di Cristina sono stanze di madre, intrise di luce. La sua è stata una via impervia, rivolta a un destino regale: il dolore che scava, ed eleva in quota. La parola distillata nella cura, il patire di un corpo imperfetto; il genio che batteva alle tempie, l’anima che inondava gli occhi. Affilata in tenebrose afflizioni, squarciata da lamine d’estasi, ha tracciato una rotta ustoria, dal varco sottilissimo. Lei sì, aspide che piega al flauto, ha guardato negli occhi la bellezza tremenda; oltre la gnosi e la sventura dell’esserci, si è ridata alla luce, cadendo tra le braccia di Dio.

Cristina ha scritto poco, ha scritto di altro e per gli altri; ma, tra le righe, ha detto tutto. Con portamento sovrano, scalza come un anacoreta, ha lasciato segni magici, indelebili, che indicano chiaramente la via, per quel sopramondo che, per tutta la vita, la elesse a sofferto mediatore.

«Il mondo, blocco ottuso e cieco, racchiude in ogni tempo una filigrana di esseri che vivono secondo regole che non sono di questo mondo. E sono gli esseri che mutano il cuore del mondo». Avvicinarsi così, a questo scrigno pieno d’anima: con umiltà, e con il coraggio di perdersi a sé: oltre l’immaginazione, in tragica bellezza, lasciarsi cadere nel vuoto, quel vuoto che sa farsi incavo del sacro, e che di ogni cosa lascia risuonare il senso.

Isabella Bignozzi

*Questo testo ha profondi debiti di gratitudine versi i seguenti volumi e saggi: Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, 1987; Cristina Campo, La Tigre Assenza, Adelphi, 1991; Cristina Campo, Sotto falso nome, Adelphi, 1998; Cristina Campo, Lettere a Mita, Adelphi, 1999; Cristina Campo, Il mio pensiero non vi lascia, Adelphi, 2012; Margherita Pieracci Harwell, Cristina Campo e i suoi amici, Edizioni Studium, 2005; Cristina De Stefano, Belinda e il mostro, Adelphi, 2002; Simone Weil, Attesa di Dio, Adelphi, 2008; Simone Weil, L’ombra e la grazia, Trad. Franco Fortini, Bompiani, 2002; Christos Yannaràs, Variazioni sul Cantico dei Cantici, trad. A. Ranzolin, V. Kalogerakis, Qiqajon, 2012; Giulia Valerio, La figura di Maddalena e l’archetipo della grazia, átopon, quaderno 2/2010); Testi gnostici, a cura di Luigi Moraldi, UTET (De Agostini Libri, 2013).

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