Tra i reperti della Radiotelevisione Svizzera c’è un documento straordinario, pubblicato nel 1977. Si tratta di un colloquio tra Cristina Campo e Olga Amman, “etnologa, viaggiatrice e documentarista” (vedi qui), realizzato a Nervi, alcuni mesi prima della sua morte, accaduta il 10 gennaio 1977, a Roma. La Campo non era solita rilasciare interviste: con la Amman fece una eccezione, “accettò forse perché anch’io come lei ero convinta che le cose del mondo visibile sono meno numerose di quelle del mondo invisibile”. Il dialogo si può ascoltare integralmente qui; ne ho estrapolato, per punti, alcune parti, in lettura, lo spartito di un’anima rara. “Io traverso uno strano periodo, un poco sonnambolico, interrotto da momenti di acutissima veglia. Le chiavi continuano ad aprire porte inattese… Io non sono così innocente da penetrare in quei territori come Alice nello specchio – mi rendo conto che si può scoprire all’improvviso di trovarsi in foreste di orsi e di serpenti”, scrive la Campo, il 21 gennaio 1975, a ‘Mita’. Vigile nella solitudine, la Campo abita un doppio romitorio: fisico – ha rari contatti con il mondo – e metafisico – s’è scavata un monastero nel cuore, dove il volto è scatto di fiamma. La sua voce, allo stesso modo, è distante, da un regno blu, scandito da un tempo misurabile in candele, e viva, piena, pronta, qui, in salotto – la Campo è allo stesso modo monda e mondana, ha l’attenzione di chi è nudo e morde. Appena dopo la morte, nel numero di gennaio-marzo 1977 di “Conoscenza religiosa”, sono pubbliche le sue traduzioni da Efrem Siro, il grande poeta e sapiente della Chiesa vissuto nel IV secolo. È poema che brucia, trapunto di luce, un inno alla luce – “Se si congiunge a una fonte di luce/ l’occhio diviene luce/ sfavilla di quella luce/ si fa glorioso di quello splendore” – che infine acceca, fino a rendere visibile solo ciò che non si vede.
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Chi è Cristina Campo? “Ma scusi, ma a chi importa?… c’è pure quel matto che strisciava per terra un grosso zoccolo dicendo, ‘lo consumerò questo pazzo mondo’… sono un po’ perplessa di questa generosità, del loro tempo, eccetera, mi affido a lei, non so cosa dire… Spero bene di non saper mai parlare di me…”.
Lo pseudonimo. “Il mio è uno pseudonimo… mi ricorda una persona saggia e antica che diceva: non dir mai il tuo vero nome, non dir mai la tua data di nascita e non regalare mai una tua fotografia… Da bambini si giocava a darsi dei nomi, avevo 15 anni e giocavo con una mia dolcissima amica che morì sotto la prima bomba che cadde su Firenze. Da allora questo nome dato per gioco mi diventò più caro del mio, e questo è tutto”.
Il gioco delle maschere. “Considero Cristina Campo talmente poco importante che non mi pesa affatto… Cristina Campo è un personaggio a cui non penso mai, che bellezza, lei resta fuori…”.
“Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto meno”. “La parola per me è una cosa terribile, è un filo scoperto, elettrico… con il verbo non si scherza… Possiamo fare un male terribile, dire immense sciocchezze di cui ci pentiremo dieci anni dopo. Possiamo educare, formare anime ancora tenere con una sicurezza bersagliera che dopo alcuni anni rimpiangeremo. Ho sempre avuto una gran paura della parola: ho scritto molte cose che non ho pubblicato e non me ne importa nulla. Domani, se stessi per morire, ne butterei nel fuoco molte. ‘Di ogni parola inutile sarà chiesto conto’, dice la Scrittura”.
Cosa le importa? “La poesia mi importa molto. Qualcosa che mi importa più della poesia è la fonte della poesia. La poesia non ha senso se non nasce da una fonte metafisica, invisibile, come nelle fiabe. Queste sono le due cose che contano”.
Credere nell’invisibile. “Credo pochissimo al visibile, credo molto all’invisibile ed è forse la cosa che mi interessa di più”.
Fare cose proibite. “Sto facendo cose proibite, che ora sono diventate pericolose… Mi sono messa a studiare un po’ per noia del pluralismo nostrano, le liturgie non nostre, rimaste se stesse, ed è un mondo inimmaginabilmente bello e importante: mi sono accorta che non solo tutta l’arte ma anche le fiabe vengono da lì… Le due liturgie che più mi hanno impressionato sono l’etiopica e la bizantino-slava, e poi altre, una bellissima, caldaica, dove sentiamo le parole di Cristo come le ha dette”.
Il Padre Nostro è una poesia. “Il Padre nostro è una poesia. La prima parte, che si svolge tra uomo e Dio, sui desideri a lode di Dio, è rimata; la seconda parte, quando si scende a chiedere il pane quotidiano, è una prosa ritmica, cala, richiama con risonanze la prima parte, è un capolavoro straordinario… Gli strumenti poi sono bellissimi: gli armeni hanno cembali e gong, gli etiopici hanno i tamburi e i sistri, sono meravigliosi. Ciò che avevamo una volta e che abbiamo gettato via, per ragioni certamente sublimi ma che io non afferro, sono conservati lì per aprire i cinque sensi, che diventano cinque porte per far entrare l’invisibile. I profumi di una chiesa armena non possiamo immaginarceli: il profumo del miron, il crisma dove hanno bollito per tre giorni e tre notti cinquantasette aromi diversi alla lettura continua del Vangelo in un fuoco scaturito da icone e alimentato dal vescovo è qualcosa di indicibile”.
Sulle domande capitali: Chi sei? Che senso ha il mondo? “Non esco mai dalla minore età, spero sempre vanamente, perciò queste domande non le so immaginare, non posso pormi nel cervello dell’Essere, come faccio? Non mi sono mai posta il problema perché si vive? Per me un miracolo… Avere visto una lucertola che prendeva la buccia di una pera, stando sopra il mio piede, e la portava alla femmina, come un dono, mentre il sole tramontava. Ecco, che bello essere creati… o che cosa spaventosa in altri momenti. La domanda urgentissima, piuttosto, è: perché sei qui e cosa devi fare? A quella domanda quasi sempre rispondo ‘per scrivere’, con enorme presunzione. Testimoniare la bellezza, ecco, mi sembra una risposta. E poi amare alcune persone, potendo moltissime, tutto e tutti, ma è difficile”.
La civiltà occidentale. “Questa non mi sembra più una civiltà, non ha più niente dei caratteri di una civiltà. La civiltà si trasmette con amore, questa è una cosa che si distrugge con furore”.
Lavorare su se stessi, il “collettivo” non esiste. “Non credo in niente di collettivo, ognuno deve lavorare su se stesso. Ognuno irradia, collettivamente non si può far niente. Esistono uomini ‘realizzati’: questi uomini entrano e tutto va a posto. Io non ho fiducia in niente, ma ho incontrato persone mature, diciamo così, che hanno capito tutto, basta, chiuso, un 5 o 6 uomini e 7 o 8 donne, che è un numero stragrande per chi vive sola, come me, che non frequento un mondo. Vuol dire che ce n’è di questi uomini. Ho viaggiato poco, li ho conosciuti questi uomini e so che se si potesse permettere a questa gente di avere in mano la ferula, potrebbero scaturire dei miracoli”.
Ricordati che hai un’anima. “Vorrei che si dicesse costantemente alla gente, con brutalità o con dolcezza parimenti violenta, come faceva Cristo, ‘ricordati che hai un’anima e che un’anima può tutto’”.