Non si può comprendere realmente la parabola di Cristina Campo se non si coglie il nodo che condizionò l’intera sua vita. Tanto più che una contestualizzazione nel tempo in cui visse e scrisse non aiuta a inquadrarla. Se è vero che tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso al centro della scena sussisteva una diatriba ideologica tra realisti e sperimentalisti, tra tradizione e neo-avanguardia, la Campo appare come una monade, o forse sarebbe più giusto chiamarla un “monaco del deserto”. Vittoria Guerrini, questo il suo vero nome, era nata il 29 aprile del 1923 con un “difetto”, con uno scompenso cardiaco che la costrinse all’isolamento fin da ragazzina. È nello spazio dell’infanzia che legge tutte le favole che successivamente diventeranno una chiave d’accesso conoscitiva (Fiaba e mistero del 1962 e Il flauto e il tappeto del 1971, libri entrambi confluiti postumi sotto il titolo Gli imperdonabili, fanno già capire bene quale sia la direzione della ricerca). Ed è sempre nello stesso periodo che impara cosa sia davvero la solitudine e cosa sia davvero la rinuncia; quella stessa rinuncia che però la porta a conoscere il proprio destino, se non la propria predestinazione. «Forse nessuno è compiutamente se stesso finché non scopra il luogo che da sempre lo aspetta, lo rispecchia, in qualche modo lo integra», sono parole che aprono un saggio contenuto in Sotto falso nome, una delle due raccolte di scritti che, dopo la sua morte, avvenuta a seguito di una crisi cardiaca il 10 gennaio del 1977, ha messo insieme Adelphi, l’editore che ne ha pubblicato tutta l’opera.
Un monaco, un’asceta, un’eremita, ma non un’isolata, perché non pochi furono gli interlocutori con cui discusse per tutta la vita, da Elémire Zolla, suo secondo compagno di vita dopo Leone Traverso, a Mario Luzi, Roberto Calasso, Pietro Citati, e poi i numerosi confidenti con i quali scambiava un fitto dialogo epistolare, da Alessandro Spina a Gianfranco Draghi, da Margerita Pieracci (che chiamava Mita) al filosofo spagnolo Maria Zambrano. Una cerchia di iniziati, verrebbe da dire. Se non fosse che la scelta di Cristina Campo fu assolutamente soggettiva, a cominciare dalla rinuncia al proprio nome. Cristina Campo era l’alter ego che Vittoria aveva scelto di attribuire non esattamente a se stessa ma alla propria opera. Giorgio Anelli, che le ha appena dedicato una monografia che si allinea perfettamente alla visione della scrittrice più spirituale della letteratura italiana del Novecento, Cristina Campo. Catabasi del destino (prefazione di Gian Ruggero Manzoni, Landolfi, pagg. 58, euro 10), scrive giustamente che «Nulla di materiale può appartenerci fino alla radice, se non la spiritualità del nome, pregno del suo significato assoluto». Anelli, più che costruire il suo ragionamento intorno agli scritti di Cristina Campo, cerca di andare alla radice della sua scelta poetica, di sviscerarne la necessità. Si direbbe addirittura che quello di Anelli, anziché una monografia, sia a conti fatti un manifesto, se questo termine non includesse un’ideologia a cui sia l’autore che la Campo sono totalmente estranei. La questione però è che Anelli ha compreso che per parlare della Campo, anzi per comprenderne il mistero, è necessario mettersi in ascolto, calarsi in quello spazio vuoto in cui il corpo diventa la cassa di risonanza per accogliere una voce con la quale si sta dialogando. «L’attenzione» si legge in Fiaba e mistero «è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada verso il mistero».
Forse per Cristina Campo scrivere aveva la stessa funzione di una preghiera, lì dove a ogni parola si dà un valore ultimo, assoluto. Scrivendo, Campo cercava di imparare di nuovo a parlare. Ma anche la parola aveva bisogno dei suoi riti, della sua liturgia, e non è un caso che, negli ultimi anni della sua vita, dove più radicale appare il suo conservatorismo che può apparire in certi casi cieco, addirittura ottuso, avesse scritto numerosi saggi che riguardavano proprio i simboli di una ritualità cristiana a cui aveva aderito con tutta se stessa: La Campana, Dell’incenso, Note sopra la Liturgia, Il linguaggio dei simboli (solo per citare degli esempi presenti nella raccolta Sotto falso nome). Credeva che mantenendo in vita il rito e i suoi simboli – una conservazione che si stava via via sperperando in pratiche da automi – l’uomo potesse mantenere intatto il suo rapporto di fedeltà con l’Assoluto. Fedeltà che considerava la virtù attraverso cui lo spirito incarnava la pura verticalità di un corpo, il suo più profondo miracolo di sottrazione e restituzione di noi al mondo e a Dio. Campo volge la testa al cielo e, inginocchiandosi, recita come invocando un Salmo: perché la poesia, il suo fine definitivo, è recitare la lingua liturgica di una preghiera, di un rito che fa della miseria di noi stessi la metamorfosi di un corpo che apre il suo spazio all’interezza della vita.
C’è un’affermazione celebre di Cristina Campo nella quale ammetteva di aver scritto poco ma che le sarebbe piaciuto aver scritto ancora meno. Nessuna civetteria. Bisogna invece coglierla nel suo senso più vertiginoso. A me ha sempre fatto venire in mente quanto diceva Arsenio, un padre del deserto del III secolo, l’esistenza del quale è possibile leggere in quel fondamentale testo della tradizione cristiana, Vita e detti dei padri del deserto, che Cristina Campo aveva anche introdotto: «Di aver parlato mi sono pentito molte volte, mai di aver taciuto». Nulla di più lontano dall’omertà. Le parole che si pronunciano devono rispondere a un sentimento di necessità, e quindi siano solamente quelle che risuonano dal fondo di noi stessi, che si scrivono quasi sotto dettatura, rispondendo a un comando. È quello che fa l’eremita, un termine che richiama, nella sua radice, a “deserto”, a “disabitato”. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra, diceva che l’eremita è come un «pozzo profondo». E forse l’immagine restituisce bene il suo significato. Cos’è un uomo che ha smesso di abitare se stesso? «Un pozzo profondo», qualcuno dentro cui non riusciamo a vedere i contorni, la forma, la fine. Un pozzo è vuoto nella misura della nostra vista. Ma più a fondo del fondo nasconde una sorgente, una fonte di vita. L’eremita è colui che si è svuotato di tutto, che, letteralmente, ha compiuto una spoliazione, che ha smesso anche di abitare se stesso e il proprio nome. È un uomo che, svuotandosi, ha fatto di se stesso una cassa di risonanza, appunto. Si è, come dire, posto in ascolto. Simone Weil, il vero faro di Cristina Campo, che la tradusse in italiano e la studiò per tutta la vita, ne L’ombra e la grazia scriveva che colui che «sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza». È su questa soglia, dentro questa vertigine, che va letta l’opera di Cristina Campo.
Andrea Caterini
*in copertina La muta di Raffaello