27 Settembre 2019

Il pallonetto/ Discorso sull’assenza del Re. Ovvero, senza Cristiano Ronaldo la Juventus gioca meglio. È davvero così? Ricordatevi il Francis Macomber di Hemingway

Che valore ha un’assenza?

Non del nulla – di uno sbadiglio che inghiotte, di un battito di ciglia che annienta, di un’esplosione che distrugge –, non di questo parliamo. Del nulla carico di significato, piuttosto.

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Per dirne una, quanto pesa l’assenza, in questi giorni di Cristiano Ronaldo? Qual è il suo significato? Proviamo ad analizzare, senza presunzione, le coordinate siderali tracciate dal nulla che ha riempito l’ultimo non-weekend del campionato di serie A.

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Lo stadio Rigamonti è percosso da una vibrazione di fondo, magnetica; Dybala corre libero, pensa da uomo libero, leggero; il gioco si snoda per vie centrali; gli scambi tratteggiano linee rapide e strette ed emergono le qualità di Ramsey, Cuadrado e Higuain che finalmente sono fine a sé stesse e al gioco armonioso del Sarriball. Un’assenza di segno più, positiva, elettrostatica; un vacuum che, per le grandi leggi universali, viene riempito con effetto immediato da una concentrazione di energie equipollenti: l’autostima di Dybala, la rivalsa de il Nove, Higuain, le maglie del centrocampo che si uniscono tra di loro a creare una cotta impermeabile, dalla vita al bavero, senza ricorrere alla solita zip di Cris, al solito fulmineo lusofono, più veloce, più potente, più feroce, più di più di più. Assenza armonica.

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Un’assenza creatrice, contraria ad ogni impronta religiosa, un demiurgo ribaltato: il mondo nasce laddove l’eroe finisce, il regno che vive oltre al suo Re, l’acqua che, passando dalla sorgente, al fiume, al mare, diventa altro da sé ma rimane acqua.

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Assenza come tentazione, desiderio. CR7 come mela e la Joya nell’Eden. Sensucht – il desiderio del passato, di qualcosa che non è mai esistito: la nostalgia del nulla, la brama dell’infinito.

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L’infinito, ora, sarebbe di poter giocare con Dybala e Ronaldo assieme. La nostalgia del nulla – di qualcosa che non è mai esistito –, è dettame della cupidigia secondo cui quei due, quei due fenomeni là, avrebbero dovuto giocare insieme, creando l’entropia che annichilisce, la forza creatrice che fa collassare le colonne d’Ercole di questo mondo, iberiche ed ispanofone anch’esse.

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Invece, la cinica risposta, quella logica, asettica e scarnificata, ci racconta l’aneddoto di due innamorati che riescono a convivere solo a distanza, che si amano troppo per poter stare vicini, che si rovinano l’un l’altro quando corrono sullo stesso prato, non per invidia, non per rancori o gelosie, non perché scarsi (ovviamente). Ma per amore, per la sua potenza distruttrice ed esplosiva. Come amore impossibile. Come sofferenza per un paradiso immaginato e mai raggiunto, come un paradiso perduto.

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Sofferenza: una energia, che scava e scova, dell’anima. Un demone che s’impossessa, e vive, come un parassita nel corpo. E di energie si può viverre o perire: la differenza la fanno i Re o i sudditi.

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Quando il male arriva, la sofferenza colpisce, i Re siedono. Siedono sul divano di casa, con il viso concentrato, lo sguardo rivolto ad un libro. Sanno che il tempo è un amico con cui pazientare, una donna da aspettare; sanno che il dolore va mondato, che il suo frutto è dolce e intenso. Edificante.

La maniera con cui i Re l’affrontano – affrontano il dolore, la mancanza, l’assenza – ricorda un’immagine del re della savana, il leone di “La breve vita felice di Francis Macomber” di Hemingway: sta nascosto dietro l’erba alta, con gli artigli nella terra sabbiosa, e aspetta.

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Tutt’al più i Re postano: “tutto ciò che adesso è grande cominciò molto piccolo”; “dopo la notte viene sempre l’alba”. I Re sanno che anche le assenze hanno una loro grammatica, pesante, straziante, significativa. E sanno che va governata, che l’uomo non è superiore alle cose, ma che può governarle machiavellicamente. Così si diventa Re, fondatori di casate. Così si conquista l’oro di France Football.

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Ah, c’è un’assenza che crea davvero imbarazzo e al quale neppure un analitico cronico e quasi-patologico come Hegel riuscirebbe a dare significato: il Milan. Un’assenza neppure comica. Solo tragicamente ridicola.

Jonathan Grassi

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