In punta di piedi, senza per questo dover imitare né Carla Fracci né tantomeno Roberto Bolle. In punta di piedi quindi significa essenzialmente un outfit poco riconoscibile, quasi umile, per non dare nell’occhio. Carta e penna, che fa sempre antico, e soprattutto collo libero da fastidiose cinghie che sorreggono macchine fotografiche pensanti come menhir. Se poi lo strumento per “creare” arte ha le dimensioni di un ditale da sarta e il cavalletto è stato creato incrociando tre spille da balia, probabilmente pensi che la creatività e la matericità della fotografia esista ancora, e ha ancora molto da raccontare.
Lui si chiama Francesco Capponi, faccia alla Vinicio Capossela, e “disegna con la luce”: ha portato un suo lavoro al portfolio in piazza, bellissimo e arcaico. Ha forato il ditale nella parte più stretta mentre il culo, quindi il buco dove si infila il dito, lo ha fatto diventare il “fondale”. Ha inserito la carta fotografica, un francobollo rotondo, e ha scattato. Quello che è uscito è un inno tecnico alla non-modernità e allo stesso tempo un manifesto alla poetica più avanzata: quella delle emozioni, della scarsa definizione delle immagini, della fotografia che scansa la perfezione per lasciare spazio al messaggio che vuole raccontare. Soggetti sfocati, in sospeso più tra un passato-presente (il risultato visivo è d’antan ma le immagini le ha fatte oggi al massimo ieri) che tra un presente-passato. Si proietta quindi nel futuro attraverso una tecnica antica, elementare e veritiera: le foto, ci spiega senza dirlo, vanno fatte con gli occhi e con il cuore. E non con lenti e macchine fotografiche da milioni di pixel.
Le presentazioni dei fotografi e delle opere che hanno portato al “SI Fest” di Savignano (e ancora visitabili nei weekend del 22-23 e del 29-30 settembre) racchiudono una enorme verità. Un “trattato di comunicazione contemporanea”: sono slegate alla realtà, ovvero dalle immagini in esposizione. Eppure sono utili per “entrare” nel cuore del progetto. Sono cartine tornasole fondamentali per farsi un’idea della distanza tra il pensiero e la sua attuazione concreta: parole poetiche, intenzioni sulla carta che non sempre si compiono, poi, nella fotografia prodotta.
“Chi siamo oggi” è interrogativo che si è posto la manifestazione romagnola, e la risposta è molteplice. Siamo fruitori di immagini non palpabili, innanzitutto, imprigionati nei pollici di uno smartphone. Oggi siamo figli di ieri. Siamo nati ieri, e oggi viviamo proprio perché proveniamo da un passato.
Lo hanno capito alla perfezione Richard Renaldi e Filippo Venturi (in copertina), il primo di stanza alla Galleria della Vecchia Pescheria, il secondo al Consorzio di Bonifica. Richard, con “I want your love”, arrivato ai 50 anni decide di rendere pubblica la sua vita: racconti per immagini, dai 10 al mezzo secolo, come una sorta di autoanalisi preziosa perché “visibile” e stampata. Le foto ingiallite di famiglia, il corpo che cambia, inizia cioè ad assumere le sembianze di un uomo. Pettorali definiti, come il suo viso. Poi i primi travestimenti, i baci omosessuali, gli scatti del suo pisello in autobus, l’attimo che segue l’happy end – lui, nudo, sul letto di casa, con la pancia imbrattata – e la dolcezza della luce del mattino, che lo ferma con un pappagallo sul braccio. Ma senza volgarità: è questa la chiave che ha dato l’artista di Chicago, erotismo, un lontano omaggio a Robert Mapplethorpe e ad Alberto Alix Garcia, ma con toni più smorzati.
Il “Korean dream” di Filippo Venturi è qualcosa più di un reportage: lì, in Korea, la censura è in prima linea, e controlla quello che fai. Filippo ha scattato, dando un taglio “pop” – lo si capisce dai colori saturi, quasi da cartone animato – a una gioventù che vive cercando l’imitazione, filtrata, dei canoni estetici e sociali degli altri Paesi.
Meriterebbe ben altra visibilità Marco Pesaresi, autentico cane da caccia dal pedigree cristallino che il 17 settembre avrebbe compiuto 54 anni. Firma di Contrasto, fotografo implacabile con uno sguardo micidiale, a cui Rimini, la sua città natale, non ha ancora dato uno spazio per una permanente. Il suo “Underground” (ma non solo) è un viaggio lacerante nel suburbano, raccontato senza (apparenti) parole e quindi capace di essere universale.
Alessandro Carli