Sono anni potenti. Nel 1981 Mitterand concede la nazionalità francese a Julio Cortázar, che in Francia è atterrato trent’anni prima, nel 1951. La malinconica, definitiva, picaresca cesura biografica ed esistenziale di Julio Cortázar, “da questa parte” (Buenos Aires) e “dall’altra parte” (Parigi), è il cuore del romanzo più grande, “Rayuela”. Nel 1981 – cito dalla “Cronologia” che cerchia “I racconti” (Einaudi-Gallimard, 1994, a cura di Ernesto Franco) – “gli viene diagnosticata la leucemia”; l’anno dopo muore Carol Dunlop, scrittrice americana, a 36 anni, la sua compagna, “anch’essa malata di leucemia”. Il 1983 è dunque un anno importante e dolente per Julio Cortázar: pubblica “Gli autonauti della cosmostrada”, scritto con la Dunlop, va a Cuba, poi in Nicaragua, dove è premiato dal poeta Ernesto Cardenal, ministro della cultura. Ritorna nel suo paese, in Argentina. L’ultima volta ci era stato nel 1973, per promuovere “Libro de Manuel”: “verrà dichiarato ‘indesiderabile’ e da quel momento il suo esilio diventerà anche politico”. Dalla scrittrice Sylvia Iparraguirre, che ha incontrato Cortázar insieme ad Abelardo Castillo, quell’anno, abbiamo raccolto una testimonianza nitida: “Cortázar era una persona incantevole, estremamente gentile, che parlava con voce sommessa, in una curiosa relazione inversa con la sua statura di quasi due metri. Era avvolto da una certa aura da indifeso, cosa che, al di là dell’ammirazione che suscitava, faceva sì che uno gli volesse bene immediatamente. A mia memoria, dagli anni Settanta in Argentina nessun altro scrittore è passato dalla gloria all’ingiuria più velocemente di Cortázar: da parte della destra, per il suo coinvolgimento etico ed emotivo con Cuba e Nicaragua; da parte della sinistra, per la sua lontananza dall’Argentina e la frivolezza di Libro de Manuel. Dovette anche barcamenarsi in un fraintendimento: quello di certa avanguardia superficiale degli anni Sessanta che, sedotta dai suoi giochi di parole e sfrontatezze tipografiche, li ripeteva ad nauseam e che furono per lui una sorta di semente del diavolo”. Il 3 dicembre del 1983 il quotidiano argentino “Clarín” pubblica una lunga conversazione di Juan Bedoian con Cortázar. L’intervista viene ripubblicata quest’anno per onorare i 35 anni dalla morte del grande scrittore. Già. Nel corso della conversazione, Cortázar ammette di voler prendersi del tempo per sé, alieno dagli impegni intellettuali e politici, per scrivere un altro romanzo. Morirà poco dopo aver rilasciato l’intervista, l’ultima intervista nel suo paese, il 12 febbraio 1984. Qui, di quella intervista, traduciamo una ampia porzione.
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Le sue visite ormai stanno diventando pietre miliari della storia argentina: 1973… Ovviamente, questo non è casuale.
Cominciamo col dire che non ho scelto io quelle date ma che, al riguardo, le circostanze – sostanzialmente negative – sono state determinanti. La mia venuta di dieci anni fa è stata intenzionale: mi trovavo in Cile all’epoca del trionfo dell’Unità Popolare e, dopo qualche tempo, sono riuscito ad arrivare qui in Argentina nel momento dell’elezione di Cámpora, un momento particolarmente propizio perché avevo l’impressione che il trionfo di Cámpora potesse accendere una speranza analoga a quella che abbiamo oggi riguardo ad Alfonsín.
E lei voleva partecipare a quel processo.
Naturalmente, sentivo che era mio dovere essere lì, con quei ragazzi molto più giovani di me, seguirne l’esempio e trasmettere loro la piccola esperienza che potevo avere di altre cose. Promisi che sarei tornato a settembre o ottobre di quell’anno per fermarmi a lungo e fare un lavoro culturale, che è l’unica cosa che so fare. Beh, è successo che sono ripartito per l’Europa con l’intento di preparare quel viaggio e Perón è tornato da Madrid: così è saltato il progetto di un anno di presidenza di Cámpora, che ci avrebbe dato il tempo di strutturare qualcosa di solido, e siamo entrati nella fase che sappiamo.
Ricordo che lei ha rivelato di essere stato minacciato di morte.
Quello stesso anno ho ricevuto le prime minacce di morte, a Parigi, il che ha significato per me stare un po’ all’erta per vedere cosa succedeva. Sfortunatamente, la situazione si è aggravata sempre più, per poi culminare nel golpe di Videla. Da quel momento sono diventato ciò che non avevo mai accettato di essere: un esiliato. E l’ho fatto perché sapevo perfettamente che se fossi tornato qui non ne sarei uscito vivo. Avevo scritto troppi articoli contro la Giunta Militare perché non me la facessero pagare.
In quest’ottica, come valuta il trionfo di Raúl Ricardo Alfonsín e la sconfitta del peronismo? L’esilio cui allude l’ha aiutata a comprendere meglio il processo vissuto dal nostro Paese in questi anni o ha reso più difficile tale valutazione?
Forse è per ignoranza personale, forse per il mio allontanamento dal Paese, ma di ciò che accade in Argentina non mi risulta chiaro niente. E leggendo i giornali – ora qui, allora là, in Francia –, mi rendo conto che voi, in qualche modo, condividete tale giudizio. Non si ha una sensazione di chiarezza. Credo che siamo entrati in una fase di chiarimento. In questo momento, per dirla con il titolo di un film, “le acque scorrono torbide”. Non posso dimenticare che, quando cammino per strada, qui – e lei sa quanto mi piace Buenos Aires, che è sempre la stessa, sempre bellissima, con i suoi odori e i marciapiedi sconnessi, i medesimi suoni e voci –, entro in un caffè, guardo i volti dei compatrioti e mi domando: e di questi, quanti saranno torturatori, ancora in giro, liberi? E quanti saranno membri dei gruppi paramilitari che hanno contribuito alla scomparsa o alla morte di trentamila argentini? Ebbene, questa è la parte torbida, la parte che il tempo, la storia e la Giustizia dovranno pian piano chiarire… Per il momento, le cose non sembrano giustificare un entusiasmo di tipo isterico.
Che immagine aveva, in Europa, del neo-eletto Presidente argentino?
Ne ho sempre avuta un’immagine positiva. Perché di Alfonsín mi è piaciuto il comportamento negli anni bui: mi è piaciuto il suo modo di affrontare le cose, sempre con grande dignità, e mi è piaciuto molto il fatto che, durante la guerra delle Falkland, che ha scatenato da molte parti una caterva di sentimenti torbidi, non abbia ceduto a quegli atteggiamenti…
Mi sembra di capire che lei appoggiasse da Parigi il recupero delle isole Falkland…
Dunque, facciamo chiarezza su questo punto. Certo, l’ho appoggiato, ma ciò che ho respinto in pieno, contrariamente all’opinione di molti compatrioti, è stato che questo comportasse il sostegno della Giunta quale esecutrice dell’occupazione delle Falkland. Io, nel modo più assoluto, non ho riconosciuto ai suoi membri l’autorità morale per farlo. Come ha detto giustamente Jorge Luis Borges, l’Esercito Argentino “ è molto efficace nell’uccidere i compatrioti ma assai inefficace nell’uccidere gli stranieri”.
Lei si considera antiperonista?
No. Sono profondamente critico riguardo a molti aspetti del peronismo. Il primo è la tremenda forza della sua ala destra, nelle cui file sappiamo che compaiono molti personaggi dei quali il minimo che si possa dire è che sono torbidi… Piuttosto, l’ala progressista del peronismo, quando ha la possibilità di entrare in gioco, lo fa in un modo che a me sembra positivo, come è stato nel momento dell’elezione di Cámpora. Quindi, non si tratta, nel mio caso, di antiperonismo. Inoltre, io non dimenticherò mai, nonostante le mie riserve su Perón come politico, non posso assolutamente dimenticare che il peronismo è stato il primo grande movimento popolare argentino. È stata la prima volta in cui il popolo si è sollevato nella sua totalità contro una oligarchia, la quale – e questo va detto – nella misura in cui continua a esistere nel Paese, ora, ad esempio, farà tutto quello che può per cercare di intervenire nel prossimo governo.
Lei vanta una lunga militanza negli ultimi anni riguardo alla questione dei diritti umani. Le sembra un tema prioritario tra le rivendicazioni che agitano il popolo argentino, un tema di grande importanza per l’equilibrio democratico dei prossimi anni?
Lo ritengo di grande importanza e prioritario. Non che ignori i problemi economici che affliggono le masse operaie argentine, tutti problemi quotidiani anch’essi prioritari, ma credo che la questione dei diritti umani sia fondamentale perché va al cuore dei problemi, è una questione di etica, una questione morale. E se ciò che noi desideriamo è un ritorno alla democrazia, beh, una democrazia che non poggi su un’etica – condivisa da tutto il popolo, non certo l’etica propugnata dai dirigenti di partito – è condannata alla mediocrità, al fallimento. Parlo da intellettuale, ma da intellettuale allo stesso tempo consapevole dei problemi del popolo. Guadagnarsi il “pane” senza una chiara coscienza politica è semplicemente sopravvivere, vegetare.
Lei si è dichiarato in diverse occasioni “cittadino dell’America Latina” e considera negativi i nazionalismi. Quali sono, a suo avviso, le contraddizioni più importanti con cui si confrontano i Paesi latinoamericani?
La realtà dei Paesi sudamericani non è uniforme. In ogni Paese latinoamericano ci sono così tante sfumature che persino i paragoni uniformi sono un fallimento. Come è un fallimento il tentativo di esportare un movimento rivoluzionario o di applicare il modello A al Paese B. In Argentina, il neocolonialismo economico da parte degli Stati Uniti è un problema preoccupante che condiziona l’ordine interno. La complicità delle classi dirigenti locali con gli Stati Uniti è lampante.
A un certo punto lei ha fatto una distinzione tra il suo esilio personale e il suo esilio culturale dal Paese. Come ha influito su di lei questa condizione?
Del doppio esilio che ho vissuto a partire dal 1973, il più grave è stato quello culturale. Perché l’esilio personale mi riguardava individualmente, ma ciò che sin da subito mi è sembrato terribile per il Paese è stato quello che io ho chiamato esilio culturale: tutto il lavoro che potevano fare gli scienziati, gli artisti e i creativi nei Paesi in cui vivevano da esiliati era un lavoro perso in quel momento per il popolo argentino. Se questa situazione si protrae nel tempo può rivelarsi fatale per il destino di un Paese.
Pensa di dover chiarire qualcos’altro sulla polemica scatenatasi quando lei ha affermato che in Argentina si era verificato “un genocidio culturale”?
Si è innescato un conflitto un po’ artificioso. La mia espressione era, ovviamente, esagerata perché penso che il concetto di “genocidio” comporti la distruzione di un intero popolo. Non si trattava di quello. Ho rilasciato quella dichiarazione in un periodo in cui, in un brevissimo lasso di tempo, erano scomparse tragicamente tre figure fondamentali della nostra letteratura: Rodolfo Walsh, Paco Urondo e Haroldo Conti. Peraltro, tre carissimi amici. Comprenderà lo stato d’animo con cui in quel momento potevo esprimere un giudizio sull’operato della Giunta Militare. A ciò si aggiungevano le notizie terrificanti sulla censura nei mezzi di comunicazione e in tutti gli ordini di categoria. Ho usato quella parola e molte persone si sono offese perché, certo, non tutti sono stati vittime. Ma non bisogna dimenticare che questi ultimi dieci anni sono stati anni di autocensura per qualsiasi intellettuale argentino sia restato qui. Ritiro il termine “genocidio”, ma sul concetto in generale rimango fermo. Quasi nessuno qui ha avuto la possibilità di leggere i venti articoli scritti da me negli ultimi anni sulla situazione del Paese. Mi dica lei se questo, come esilio culturale, non è spaventoso. E cito solo il mio caso, sono un esempio tra tanti altri. Pensi anche alla schiera di scienziati costretti ad andare a lavorare all’estero.
Quale ruolo crede debbano giocare oggi gli intellettuali in America Latina?
Si ritorni all’etica. Il problema di tutti gli intellettuali è un problema di responsabilità. Nei confronti dei lettori, vale a dire del loro popolo. E questo problema di responsabilità, se non è etico, cos’è? È una questione di scelte: c’è chi resta nella sua “torre d’avorio” e continua a scrivere sonetti – ne ha tutto il diritto –, ma non è un uomo che si assume una responsabilità di tipo storico.
Torniamo all’annosa questione: in che misura le urgenze storiche devono condizionare la creazione, ad esempio letteraria?
Sussistono pericoli enormi e io li ho avvertiti. Il problema è quello di creare una convergenza equilibrata tra la vocazione alla scrittura, il produrre una letteratura che sia quanto più bella ed esigente possibile, e il senso di responsabilità che induce a trasmettere anche un messaggio di tipo politico o ideologico. È molto difficile perché sono elementi eterogenei che, in generale, interferiscono gli uni con gli altri. Chi dà massima priorità al messaggio politico di solito scrive opere mediocri. Il realismo socialista in Unione Sovietica ne è un esempio emblematico. All’opposto, chi si preoccupa solo di trasmettere un messaggio letterario, beh, sta solo sfiorando problemi di fronte ai quali ha una responsabilità, dato che, in qualche modo, gode della fiducia dei suoi lettori.
La sua militanza politica ha influenzato senz’altro il suo lavoro creativo…
Lei sa bene che il cosiddetto tema politico con il passare del tempo si è infiltrato e insinuato in una parte di ciò che ho scritto. Questa preoccupazione per i problemi dell’America Latina ha occupato uno spazio sempre maggiore nel mio lavoro e continuerà a occuparlo.
La responsabilità cui accennava poc’anzi nei confronti del lettore significa che lei pensa a quest’ultimo quando scrive?
Io rispondo per me. Non ho mai scritto nemmeno una riga pensando al lettore che la leggerà. Sono consapevole che non scrivo per conservare i miei fogli in un cassetto, ma affinché vengano pubblicati e giungano a un lettore. Ma nell’operazione letteraria sono solo con me stesso e con quell’opera. No, non intendo fare una classificazione in funzione dei lettori: di massa, colti, eccetera.
Quest’anno ricorrono i vent’anni dall’uscita di Rayuela, un’opera rivelatrice e rivoluzionaria nel quadro della letteratura sudamericana…
Quando ho scritto Rayuela ero molto distante dalle preoccupazioni politiche. È un libro incentrato sulla metafisica e profondamente letterario. Credo che il libro contenga un certo fermento di tipo intellettuale, tale da destare l’interesse che ha suscitato soprattutto nei giovani. Interesse che, assicuro, è ancora vivo: le giovani generazioni si sentono molto attratte da questo libro, forse perché vi trovano una serie di domande, di interrogativi, che sono tipici e normali – per fortuna – nella gioventù.
Pensa di aver già scritto il libro che ogni narratore sogna?
No, no. Ho in mente un romanzo, ma in questo preciso momento la storia non me lo lascia scrivere, perché il tempo che trascorro tra aerei e alberghi, per gli impegni che mi impongono e che mi impongo – è incredibile quanto mi abbia dato da fare la Giunta Militare argentina! –, tutto questo mi lascia sempre meno tempo per la letteratura. Tanto che l’anno prossimo mi prenderò un “anno sabbatico”, cercherò di avere più tempo, rifiuterò molte cose – ma non quelle essenziali – e viaggerò meno.
Nella sua produzione letteraria, l’erotismo, l’elemento fantastico, l’assurdo o l’umorismo hanno giocato un ruolo importante. Che valore attribuisce a questi elementi e come riesce a conciliarli con quelle che si potrebbero definire “preoccupazioni sociali e politiche”?
Continuo a ritenerli fondamentali. Sono ancora tanti gli scrittori e i lettori, me compreso, che, senza rendersene conto, senza averne consapevolezza, continuano in qualche modo a essere condizionati da un’etica sulla quale non smettono di pesare una certa idea di religione e di morale puritana: questo crea ostacoli alla libertà e all’espressione di tutto ciò che la natura umana produce e che è di una diversità e di una ricchezza enormi. Ho sempre sostenuto che, se l’ideale ultimo di tutta la nostra lotta politica è quello di raggiungere un livello di democrazia che a sua volta permetta la rivoluzione – senza dare a questo un significato specifico –, se la personalità umana non acquisisce tutta la sua forza, tutta la sua potenza, all’interno delle quali l’elemento ludico e quello erotico rappresentano pulsioni fondamentali, nessuna rivoluzione raggiungerà il suo scopo. La rivoluzione non si fa con le api o le formiche, si fa con gli uomini. Se gli uomini continuano a difendere posizioni chiuse e faziose su ciò che è immorale o morale, su ciò che è bene o male, prima di tutto non sono rivoluzionari. Per me, sono controrivoluzionari. Ed è una battaglia che bisogna condurre sin dall’interno della lotta di liberazione. Ad esempio, il machismo è una delle piaghe dell’America Latina. Nessuno si rende conto di essere machista finché qualcuno non lo mette con le spalle al muro e lo smaschera.
Qualcuno ha messo in discussione la sua concezione dell’atto creativo e, perché no, della realtà?
Alcuni mi hanno detto: tu dai un’idea della rivoluzione come un gioco, un’idea ludica. Sì, è proprio così: se non trasmetto quel tipo di idea non ci sarà mai un processo di liberazione che valga la pena. La rivoluzione deve essere fatta sul serio perché i giochi si prendono sul serio. Nessuno è più serio di un bambino che gioca.
*traduzione italiana e cura di Marianna Marchi e Mercedes Ariza