24 Luglio 2020

“Saranno gettati nella tenebra, là fuori”. Viaggio infinito nei romanzi di Cormac McCarthy

Il titolo viene dalla Bibbia, Nuovo Testamento, Vangelo di Matteo, capitolo 8, versetto 11. L’episodio è quello del “servo del centurione”: il tema è la fede come milizia, l’umiltà, il potere della parola di Gesù. “I figli del regno saranno gettati nella tenebra, di fuori, e lì sarà pianto e denti che digrignano”. La differenza sembra essere quella tra i fedeli che ascenderanno al regno dei cieli e i quelli dell’altro regno, mondano, cacciati. Un travaso di potenze, un capovolgimento è in atto – tutto è regno e regicidio. Skótos è l’oscuro, la tenebra; exóteron significa “di fuori” (la parola dirige a essoterico, ciò che è a tutti visibile, l’esterno, ciò che è divulgato, rispetto a esoterico, il taciuto, l’interiore). Divulgare la tenebra.

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In inglese il gergo evangelico è tradotto come Outer Dark, in italiano fa Il buio fuori (brutto titolo), è il secondo romanzo di Cormac McCarthy, dopo Il guardiano del frutteto. Edito nel 1968, arriva in Italia nel 1997, per Einaudi, nella traduzione, possente, di Raul Montanari. Il libro è nitido, cattivo. Siamo in un’era imprecisa, in un luogo ignoto, lungo gli Appalachi. Un ragazzo, Culla, mette incinta la sorella, Rinthy. Lei si sgrava. Sono ai margini di una natura nuda e feroce. Lui prende il bambino e lo abbandona, nel niente. “Il bambino urlava la sua maledizione al mondo tenebroso e maleodorante in cui era nato, piangendo e piangendo, mentre l’uomo giaceva a terra farfugliando con le mascelle paralizzate, e con le mani respingeva la notte come un folle paracleto assediato dalle suppliche dell’intero limbo”. Appresa la sorte del figlio, Rinthy lo vuole riscattare dall’esilio, lo cerca. Culla si mette alla ricerca della sorella, ma il suo viaggio, una sequela, è un tunnel senza viatico, una coltelleria di visi: deve scontare il peccato. Alcuni uomini anonimi, retti dalla crudeltà bianca, fanno razzia, falciano gli umani, assolti, simili a gramigna.

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McCarthy ha esordito a 32 anni, pubblicato da Random House, con Il guardiano del frutteto: era il 1965 e il romanzo gli consente il premio intitolato a William Faulkner per l’opera prima (poco prima di lui era andato a V di Thomas Pynchon). Sono anni belli e tumultuosi: durante un viaggio in Irlanda, che si paga con i soldi del premio, McCarthy incontra Anna DeLisle, che diventa la sua seconda moglie. Grazie a una borsa della Rockefeller Foundation, lo scrittore può ritirarsi a Ibiza, dove scrive Il buio fuori. Il romanzo possiede la specifica grana linguistica di McCarthy, tratta dai profeti biblici, legioni di lingue messe a essiccare insieme a lucertole e selci. È una lingua che desertifica. Per McCarthy “le tenebre là fuori” sono il regno di questo mondo, questi sono gli inferi, qui è la tenebra che dobbiamo decrittare (concetto, gnostico, cruciale nel capolavoro, Meridiano di sangue) e scontare. Scaglie di innocenza sono barbaricamente sacrificate – il figlio, il bambino senza nome – o si barcamenano, come cuciture, come strappi di lebbra, tra umani indiavolati (la madre, Rinthy). Quasi nessuno capì questo libro: “McCarthy non ha scritto soltanto una storia gotica. Ombre e spicchi di oscurità creano l’atmosfera. In questo romanzo vive una società impenetrabile e disumana, che speravamo scomparsa da tempo. In questo romanzo vengono rappresentati gli antichi scemi di criminalità, punizione, sacrificio”, ha scritto, all’epoca, Thomas Lask, sul “New Yorker”. Me li immagino, poveretti, in pieno Sessantotto, fare i conti con uno scrittore che aveva le rocce del Sinai conficcate nelle pupille. Magari vi fosse il rito della punizione, del sacrificio, al posto di assolverci, tutti, tuffandoci in un apericena. L’autentico precedente di questo romanzo scabro, scabroso, è Palme selvagge di papà Faulkner: anche lì, ci sono due fuori dal mondo, ai bordi di un allucinato Mississippi che inonda i regni dell’uomo, il tentativo di un aborto, una scrittura vischiosa, rischiosa, ripida. Tutto, anche lì, è tenebra, e la scrittura è fuoco tra gli oscuri.

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È detto che i romanzi di Cormac McCarthy sono potentemente maschili, fitti di patriarchi, di tormentati Caino. Il romanzo che segue Outer Dark s’intitola Child of God – il vigore evangelico è storpiato in un mondo irredento –, è del 1974, scritto in predicata povertà (McCarthy sta a Louisville con la moglie, acquista un granaio semidistrutto, lo mette a posto, scrive, “per lavarci andavamo al lago, mangiavamo quasi sempre fagioli, arrivava uno a offrirgli del denaro per parlare di letteratura all’università e Cormac lo mandava via, quello che ho da dire lo scrivo, diceva”, ha detto la DeLisle: finirono per separarsi). In scena c’è un serial killer, Lester Ballard, tocco, che uccide vestito da donna. In questo romanzo, il cuore è Rinthy, madre estorta dal merito, storpiata in un tempo immeritato. “Non avrete pace, gemette lei. Mai, mai. Come ogni anima al mondo, ribatté lui”. L’incesto è la sola cosa che c’è, che resta, ai simili, al resto del creato.

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C’è un’altra donna, clamorosa, nei romanzi di McCarthy: Alejandra, il cuore mobile, il prisma mistico di Cavalli selvaggi. Siamo nel 1992, McCarthy va per i sessant’anni, con quel romanzo, il primo della “Trilogia della frontiera”, ottiene il National Book Award. La consacrazione. Alejandra è l’opposto di Rinhty: tutto le è possibile, la sua bellezza è avventata, è la figlia del ricco proprietario di un ranch, in Messico, dove lavora John Grady, il giovane protagonista. Il ragazzo s’innamora di lei, l’unione è impossibile (così in un dialogo tortuoso con la nonna di Alejandra, la voce ultima: “Fece un gesto astratto con la mano per significare che s’era improvvisamente ricordata di non aver chiarito una cosa. No, disse. No. Non è questione di giustizia astratta. Qui la questione è: a chi spetta decidere cos’è giusto?”). Sganciato dalla ragazza, John Grady è preda del delirio del mondo, precipita nella tenebra della prigionia, “ed ebbe paura che l’anima potesse non avere alcun limite”.

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I romanzi di McCarthy sono annodati da implacabili ricorrenze. Il buio fuori termina con un dialogo tra Culla, l’uomo, e un cieco. “Perché non pregate per riavere i vostri occhi?, gli fa; e lui: “Credo che sarebbe un peccato. Quei poveri occhi possono solo farvi vedere ciò che accadrebbe comunque. Se un cieco avesse bisogno degli occhi, avrebbe gli occhi”. Anche Città della pianura, pubblicato trent’anni più tardi, si chiude con un dialogo con un cieco. Molto più articolato, tortuoso. “Tu puoi chiamare a te il mondo che Dio ha creato, nient’altro che quel mondo. E questa tua vita alla quale dai tanta importanza non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle. La sua forma è stata imposta al vuoto fin dall’inizio del mondo, e tutto ciò che si può dire di come sarebbero potute andare altrimenti le cose è senza senso, perché non si dà nessun altrimenti… Il fatto che possiamo immaginare storie alternative non significa nulla”. Spigare la tenebra, spiegare la gola di serpe della storia, scollinare dal destino, di ogni viso intendere la fine, senza finalità che questa corsa, nella lebbra dell’alba. (d.b.)

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