Metto piede nell’economia come ce l’ho messo in montagna: con il rischio consapevole di poter precipitare in un orrido come nel ridicolo; ma le cose sono andate così: mesi fa passo dall’appartamento studentesco di mia nipote a Milano e sbircio gli scaffali degli ambienti comuni: ci trovo Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty (stampa Bompiani) e da bibliopate quale sono le chiedo d’istinto: “Questo me lo presti?”. E lei: “Con piacere, è della mia conquilina ma lei non leggerà mai.” Lo porto via. Di recente mia nipote mi chiede “Allora quel libro com’è, lo stai leggendo?”, e io, che avevo già pronti tra le mani i due volumi Einaudi de I racconti di Kolyma, come controcanto a quelli raccolti in L’ospite d’onore della bravissima Joy Williams, li metto giù e le dico: “Stavo per cominciarlo proprio ora!”. Ovvero: leggo il saggio d’economia sul capitale (“Il libro più importante dell’anno o forse del decennio” secondo Paul Krugman Premio-Nobel-per-l’Economia nel 2008, o così dice la quarta di copertina) per giustificare, almeno agli occhi di mia nipote e ai miei, praticamente il mio furto chiamato con un altro nome. L’auspicio è ottimo.
Accingendomi a leggerlo mi sono incitato dicendomi: “Piketty forse può rispondere a una domanda che mi pongo da parecchi anni: perché a un certo punto gli scrittori hanno smesso di parlare di soldi, o almeno di farlo come nei romanzi dell’Ottocento, nei quali era immancabile qualche pagina di contabilità domestica e dunque nazionale?”; e Piketty è entrato in argomento quasi subito, appellandosi spesso e volentieri ai romanzi di Balzac e della Austen, un po’ meno a quelli di Henry James: “Fino alla prima guerra mondiale, il denaro ha un significato preciso, e gli scrittori non mancavano di farvi riferimento, di esplorarlo, di ricavarne materia per i loro romanzi”. Io mi ricordo anche dei calcoli febbrili dei personaggi dostoevskiani, il loro dannarsi tra rubli e copechi. Poi cos’è successo?
Che sia scomparso il capitale ovvero quel patrimonio accumulato, tante volte ereditato e basta, che fornisce una rendita che esime dal lavoro e ti consente di poter vivere decorosamente, cioè non mancando di nulla, come un personaggio letterario alle prese con le sue relazioni casomai sentimentali o che comunque si può concentrare senza troppe distrazioni sui conflitti sociali e familiari all’interno della sua classe tutto sommata privilegiata? Insomma: anche i personaggi letterari sono dovuti andare a lavorare tutti?
Una precisazione: se lo spartiacque è segnato dalla prima guerra mondiale, ovvero attorno al 1914, è perché dalla rovina sociale dovuta a una divergenza oligarchica conseguente al capitalismo sregolato (per relativamente meno un secolo e passa prima c’era scappata la Rivoluzione Francese) c’ha scampato la rovina economica dovuta allo scoppio della prima e poi della seconda guerra mondiale, che hanno prodotto oltre che un’ecatombe la piazza pulita delle concentrazioni di capitale patrimoniale, come per l’effetto di una carta Imprevisti del Monopoli, il gioco di società che fa più al caso.
Secondo le statistiche calcolate siamo tornati a concentrazioni di capitale vicine a quella della cosidetta belle époque (“La differenza fondamentale (…) è che oggi esiste una classe media patrimoniale che possiede circa un terzo del patrimono nazionale”), pertanto la mia speranza è che la prossima rovina che ci salverà non sarà un altro conflitto mondiale. Parole di Piketty: “Un’altra forma, di per sé più pacifica, di redistribuzione e di regolazione della diseguaglianza mondiale del capitale è evidentemente l’immigrazione”. Ogni secolo paga la sua quota di morti necessari per tenere in piedi il modello economico a cui s’è votato il mondo ricco. “Il mondo ricco è ricco: sono i suoi Stati a essere poveri. Il caso più estremo è quello dell’Europa, che è insieme il continente in cui i patrimoni privati sono i più alti del mondo e il continente che incontra più difficoltà a risolvere la crisi del debito pubblico. Strano paradosso.”
Ad ogni modo Piketty nel saggio parte da una domanda pressoché simile alla mia: ha ancora ragione di essere il discorsetto che Vautrin fece a Rastignac in Papà Goriot, quello che – aggiungo io – a suo modo citò umoristicamente Silvio Berlusconi nel 2008 (il Papà Goriot è del 1834) quando, durante una trasmissione televisiva, indicò a una precaria il miglior modo per cavarsi dagli impacci: “Con quel sorriso sposi un milionario”?
Il sunto del discorsetto di Vautrin a Rastignac è: se hai sul serio l’intenzione di diventare ricco e di diventarlo prima di essere troppo vecchio, cioè quando ormai che differenza vuoi più che faccia esserlo o no, non cadere nell’errore di credere basti impegnarsi in un lavoro onesto e redditizio, sapessi le umiliazioni e i compromessi che costa… Sposati una ereditiera, e se è brutta stai sicuro che avrai qualche possibilità in più di riuscirci.
E allora: ricchi lo si nasce ancora o ormai lo si diventa perché il bel capitale che risolveva tanti antefatti nel romanzo di una volta, che se ne stava placido in un posto a fruttare quattrini per le spese ordinarie e straordinarie, non esiste più? Pur tenendo conto del fatto che oggi tendenzialmente si nasce meno in generale, e che, ammesso che si nasca, poi si cresce poco.
Piketty ha una risposta sia più semplice sia più credibile rispetto a quella fatta circolare del capitale-che-non- conta-più: il capitale patrimoniale, il capitalismo tutto, ha cambiato aspetto: da statico e per lo più agricolo e immobiliare che era è diventato dinamicissimo, mobile e imperscrutabile nel suo andare sotto il nome di attivi finanziari: tanto quali e quanti siano e a quanto ammontino non lo ha capito ancora nessuno. Al di là delle apparenze dovute alla legittimizzazione delle diseguaglianze e al di là del fenomeno dell’estremismo meritocratico (“L’estremismo meritocratico può insomma portare a una gara a inseguimento tra i superdirigenti e i rentiers a discapito di tutti coloro che non sono né l’una né l’altra cosa”), oggi il romanzo ottocentesco di un ricco di famiglia che può fare serenamente a meno di trovarsi un lavoro lo si potrebbe scrivere benissimo, a patto di saper mettere nero su bianco il nero dei capitali finanziari investiti, diversificati, depositati nelle apposite isolette paradisiache e city felici famose per l’opacità dei conti delle loro banche.
Contro l’oscenità della ricchezza, il suo essere stata messa fuori dal cono di visibilità del dicibile, occorre la spudoratezza di una scrittura che renda trasparente quel che è volutamente stato reso incomprensibile, esoterico, specialistico: “Per questa metà della popolazione [il 50% che forma la classe-popolare], la nozione
stessa di patrimonio e di capitale rimane una nozione in gran parte astratta.” Lo scrittore più indecente, un Balzac per intenderci, non si accontenta di guardarti nelle mutande: vuole guardarti nel portafoglio, ancor di più accedere ai tuoi account criptati per sapere cosa ti scrivi, con l’intermediario del tuo cuore.
Il saggio di Piketty si rivela essere meno ostico di una rocciata: la scrittura resta la maggiore meraviglia del mondo in assoluto, molto più meravigliosa del pur stupefacente Skyway per il Monte Bianco: quello ancora impiega qualche minuto per farti coprire il dislivello tra i 1300 metri di Courmayeur e i 3466 della Punta Helbronner, ma per la scrittura basta una frase e sei indietro di tre secoli, all’inizio delle serie statistiche utilizzate da Piketty nei suoi grafici; basta un’altra frase e puoi guardare dall’alto l’intera popolazione mondiale suddivisa concettualmente per le sue classi di reddito. Ogni scrittura contiene la sua parte di rivelazione, fin da quella contabile.
Ulteriore merito di Piketty sta nel suo aver fatto i conti da subito con i lavori precedenti e ingombranti di Karl Marx: “Marx non utilizza modelli matematici, e la sua prosa non è sempre limpida, per cui è difficile sapere con certezza che cosa abbia in testa”. Così si può star sicuri che datate sudditanze ideologiche non ce ne siano affatto. Il grande pregio del saggio è di essere è chiaro, sintetico e utile e discorsivo e pacato, cosa chiedere di più per farsi una idea ragionata e aggiornata sulla ricchezza mondiale, su chi ce l’ha e su come viene distribuita e se bene o male?
Un saggio di economia non è un giallo quindi un piccolo spoiler è consentito: la ricchezza mondiale viene distribuita male, come a dire: al solito l’assassino è il maggiordomo; ma potrebbe andare peggio e infatti sta andando peggio; perciò il merito del libro è duplice: informa sul reale stato dei fatti, fornendo una base dati leggibile e credibile e facilmente consultabile, e avvisa su come l’economia non sia una scienza pura che vive di immutabili leggi interne ma il risultato di (ir)reponsabilità sociali e politiche, cioè: esistono provvedimenti che possono produrre una inversione di rotta per ottenere una più equa distribuzione dei redditi e capitali e il mito del ‘mercato che si autoregola’ è la tipica balla da mercanti che ti vogliono rifilare una biglia di vetro al costo di una perla degli oceani.
Ora che l’ho finito devo restituire il libro a mia nipote, perché lo riconsegni alla coinquilina con i miei ringraziamenti e perché abbiano entrambe la possibilità di leggerlo: la redistribuzione delle conoscenze segna il primo passo fondamentale se non per la scalata al successo economico, quanto meno per non cederlo a chi alla lunga, che è sempre più breve, crede di poter comprare anche la terra che hai sotto i piedi, per portartela via e spargerla nel suo giardino dove neppure ci va mai, spesso perché è il primo a non sapere dove si trovi e comunque ci si perderebbe, se ci mettesse piede per davvero.
Antonio Coda