
L’inferno non gode più di pessima pubblicità. Pensieri intorno al “Diario del caos” di Moresco
Politica culturale
Antonio Coda
Il culto della statistica è proprio di una civiltà misurata, contabile, che ha perso il rapporto con lo smisurato, con l’incommensurabile. Durante la finale dei Campionati mondiali di calcio, i cronisti hanno recitato i record superati da Lionel Messi come una giaculatoria sacra – ma il record, il primato, lungi dal significare il sacro sancisce, con imperiale potenza, la nostra misera umanità. Il numero serve a ordinare il cosmo in cifre, certifica la nostra vita ordinaria.
Sia chiaro – per restare nel tema, abusato – Messi è un talento assoluto: anche il più semplice fraseggio cela l’inatteso, apre squarci inauditi. Con Sylvia Iparraguirre – austera dama della letteratura argentina – ci siamo lanciati in lunari paragoni tra i racconti di Borges e il gioco di Messi. Vanità. Eppure. Secondo il demone della statistica, Lionel Messi è superiore in tutto a Diego Armando Maradona, non c’è confronto. Nella nazionale argentina, per dire, Messi detiene il record di presenze e di reti (rispettivamente: 172 e 98), minimizzando Diego (91 presenze e 34 gol). Messi ha vinto tutto, ha segnato tantissimo; al suo cospetto Maradona è un giocatore di second’ordine: ha vinto il giusto e segnato il necessario. Tuttavia, Messi è il più grande giocatore di calcio del pianeta, mentre Maradona resta una sorta di semidio, il cui carisma supera i dettami dell’arena sportiva. Chi è costretto a rincorrere il record, a primeggiare nei codici statistici non può essere semplicemente se stesso, è schiavo del confronto. Allo stesso tempo, c’è chi preferisce Enzo Francescoli, chi ritiene Johan Cruijff il più completo giocatore di sempre, chi evoca la sapienza sorniona e letale di Zinédine Zidane. Secondo Carmelo Bene, Paulo Roberto Falcão e Marco Van Basten sono stati i calciatori supremi: forse ha ragione.
I cronisti sono andati in estro per la finale dei Campionati di calcio, “la più bella della storia” (ma cosa vuol dire?). In effetti, sembrava un cartone animato, un film, un numero da circo: ha segnato chi doveva segnare – compreso Kylian Mbappé, altro precoce recordman – ha vinto chi doveva vincere. Secondo copione.
Chiunque ha a cuore il gesto atletico, voglio dire, sa che la statistica è nulla, è il tempio dei burocrati, la chiesa dei cronisti clericali, locali: ciò che conta è l’istante, ciò che sfugge alla descrizione, l’insuperabile, l’attimo in cui il tempo dilaga in leggenda. Il gesto che non ha possibilità di replica, che non ha misura. Ogni record, invece, sigillo della nostra transitorietà, esiste per essere superato: è il codice Isbn dello sport, è necessario ad alimentare le vendite. La statistica è la liturgia dell’ateo, di chi non ha fede nella divinità atletica, che con insondabile capriccio sceglie come suo rappresentante, a volte, l’insolito, il campione per un giorno, il gagà che diventa papa.
Che l’uomo corrisponda al proprio record – una colpa –, è concetto tutto americano – cioè: di spazi sterminati piallati con erpice e pistola –, utile al sistema pubblicitario. Così, ogni partita è sempre quella “del secolo”, anzi, no, “del millennio”; ogni singolo episodio sportivo è ridotto alla modesta epica del numero (farà il millesimo punto?, riuscirà a ottenere il record degli assist?). Paradosso stellato: non più sé, l’atleta è ingabbiato nella statistica, a cui deve prestare obbedienza. Il carisma è inscatolato in cifre. Così, LeBron James sarà pure il miglior marcatore Nba di tutti i tempi, ma rimane una caricatura di Michael Jordan, l’insuperato; se è per questo io prediligo l’elusiva esuberanza di “Reggie” Miller.
La statistica è principio di vendita: la vicenda di uno sportivo, determinata dal numero, si inscatola in bilanci aziendali. Così, il successo di un uomo si misura dal “seguito”, poiché sequela è parola che ha misura d’abuso: il Nazareno assicura che è “dove sono due o tre riuniti” nel suo nome, non due o tre milioni o miliardi o biliardi. Rispetto all’etica americana, restiamo “olimpici”: in Grecia l’evento sportivo era rituale, sacrificale, perciò, pur ripetuto, irripetibile. Chi vince nello stadio è favorito dagli dei: il lignaggio poetico di allora è sostituito dall’ingaggio commerciale di ora. A Pito, la città del pitone, cioè Delfi, Aristomene di Egina vince nella lotta: ammirandone i gesti, Pindaro scopre una verità d’acqua:
“Genia di un giorno: chi siamo? Chi non siamo?
Sogno d’un ombra l’uomo.
Ma quando la luce del dio folgora
la vita degli uomini sa essere radiosa”.
A Lionel Messi non resta che indossare il bisht, onorando l’obliqua, ubiqua divinità degli emiri.
La prodigalità delle cifre non riuscirà mai a cingere i lombi del prodigio.
Trasferita al contesto culturale, diciamo così, la pratica è ancora più grottesca. A fine anno non c’è rivista che non rediga la lista dei best book of 2022. La disciplina, come sempre anglofona, è indecente: con quale criterio si misura l’incommensurabile di un libro? Certo, non sono nato ieri – semmai, qualche millennio fa –: la lista, altrimenti iniqua, serve a corroborare le vendite, soprattutto sotto le feste. Ma la muscolarità endemica, l’ansia da prestazione, il record – delle copie stampate, vendute, tradotte, ridotte in film, in musical, in fiction – dimostrano la nostra lontananza dall’assoluto, la latitanza dal verbo. Un libro – ogni libro – se è tale, è fuori classifica: non si piega al culto delle cifre, è materia troppo delicata e sottile per accettare l’etica pacchiana della lista, proscrizione dell’intelletto. Un libro è una mappa del cosmo o un pozzo, è creazione unica, che non accetta il confinamento nel confronto, il conforto del premio. Un libro è insondabile, insindacabile, refrattario agli istituti di statistica. Altrimenti, non è un libro ma una libagione del niente. Per mio gusto, andrei a setacciare tutti i libri che non stanno nei canoni dei “libri più belli del 2022”, dei “libri dell’anno”, per il semplice fatto che un libro sconvolge le categorie estetiche, è destinato a durare oltre gli asfittici limiti cronologici della stampa.
Ma questa è l’era dei “casi”, della casistica, del casino organizzato, del campione scoperto ogni giorno, in ogni rione, del genio nel borsello. Beati i vili. L’altro giorno un poeta che fa l’infermiere a Riccione ha atteso la fine della Messa per darmi il suo libro. Uno sfrontato pudore gli illividiva il viso. Non ha chiesto nulla, si scherniva, mi ha augurato buone feste. Si chiama Enzo, e se ne va, tra doline di nebbia. Una sua poesia – scrive in dialetto – definisce La poesia: “Era una mano che spogliava il mondo/ e lui, dalla vergogna, si è nascosto/ tra le righe”. Il libro dell’anno, eccolo – va nel giorno con la cura di chi intaglia il legno e colora di blu gli occhi della fiera.