23 Aprile 2018

“Conta solo la vita, la sua bellezza”: dialogo infinito con Arnaldo Colasanti

Con una quota di pazienza e una di tenerezza, ha smentito la teoria di Leopardi. Il Parini ovvero della gloria tra le Operette morali è la meno letto; peccato perché è un acutissimo e cinico trattato sulla letteratura contemporanea e sul vero senso della ‘storia della letteratura’ (pari al niente istoriato sul nulla). Leopardi parte da un dato di fatto abissale – “l’affaticarsi di scrivere perfettamente, è quasi inutile alla fama” dacché “oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri perfetti, che dei mediocri” – traendo la livida sintesi: “se oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco all’Iliade”, non se lo cagherebbe nessuno. Come mai? Semplice. Le grandi opere – di ieri come di oggi – chiedono lettura accurata e lettori volenterosi. Oggi manca l’una e gli altri. A disintegrare – evviva – la funesta polemica leopardiana (il papale capolavoro “non sarebbe letto con quell’accuratezza e sottilità che si usa negli scritti celebri da gran tempo”) si erge Arnaldo Colasanti, critico letterario tra i più autorevoli (a casaccio ricordiamo: A giorno chiaro. Ritratti di poesia italiana, Novanta. Il conformismo della cultura italiana, Febbrili transiti), romanziere (l’anno scorso ha pubblicato con Fazi La magnifica, ricordiamo anche Gatti e scimmie e La prima notte solo con te), militanza nelle riviste che contano (Nuovi Argomenti, Poesia), l’oro di una certa fama ‘pubblica’ addosso (per la Rai ha condotto, una manciata di mesi, Uno mattina). Con il ciclo di libri ‘Cantieri del Nord’ Colasanti penetra, con speleologica arguzia, nel corpo lirico della “poesia contemporanea”. Il libro dedicato ad alcune poesie di Claudio Damiani, con cui Colasanti ha condiviso la stagione di Braci, segue quelli su Valerio Magrelli, Giancarlo Pontiggia, Dario Bellezza, s’intitola La vita comune e sarà pubblicato da Melville il mese prossimo (pp.190, euro 16,90). Il libro è francamente ‘commovente’. Nel senso che qui c’è un uomo armato di vita e di letture (Colasanti) che decide di abitare nelle parole di un poeta (Damiani), cartografandole, con eleganza avventuriera. I commenti, infatti, sommano la perizia geografica, circumnavigano la ‘forma’ del testo (esempio: “l’endecasillabo non è più petrarchesco, come spesso in Damiani, ma ora esprime un che di barbaro preumanesimo”), all’impeto etico (esempio: “Amare è precedere il mondo: vale infatti amare con il «cuore» dell’amore, cioè con l’essenza che ci riporta al prima di ogni cosa”), consapevoli che – lo scrive Colasanti nella placca introduttiva – “la poesia è utile alla vita”, “conta solo la vita, il suo significato, la sua bellezza”. Attraversando le poesie di Damiani, Colasanti raccoglie pensieri sul male e sulla fede, parla dell’unica cosa importante, della vita e della morte, dell’andare dell’anima. Questo atto così semplice – un uomo che ascolta il poeta, gli dà fiducia, appunta, con tutto ciò che è e che sa – appare straordinario. Dare orecchio alla poesia, è come ascoltare cosa accade di là del muro e trarre da quelle voci la vita. Di solito i libri di ‘critica’ letteraria sono centoni di articoli e una fioriera di saggi per bicipiti accademici (cioè: una noia quadrupla). In questo libro accadono abbagli e fuochi. Soprattutto, si chiama in causa il ruolo del lettore. Che cos’è la gratuità, la necessità umanissima della lettura? Perché le parole risuonano e ustionano e dove? Insomma, si parla a noi.

Mi colpisce la prima cosa, superficiale. Nell’era in cui la critica, si dice, è morta, un rapporto a tu-per-tu, intimo e totale, con un poeta contemporaneo, Claudio Damiani, letto, annusato, commentato come fosse Petrarca o Montale. Ci vuole coraggio, penso. Il coraggio della dedizione. Come è possibile, oggi, ‘scegliersi’ un contemporaneo, aderire con tanta violenta tenerezza a una scrittura?

Ma siamo davvero sicuri che la critica sia morta? E da quando? Se durante la mia giovinezza la critica era un volume pazzesco di pensieri e di libri, era perché la cultura veniva intesa come un modo per capire la realtà. Questo sarebbe finito? In realtà no: per superare la centrale pertinenza critica della cultura avremmo avuto bisogno di un pensiero capace davvero di mettere in crisi quella stessa necessità. E questo non è accaduto. Quello che è successo è che alla critica si opposta la denigrazione, la retorica del dileggio. È stato più o meno detto: noi non abbiamo bisogno della critica perché non abbiamo della letteratura, cioè di una cultura su cui fondare la nostra conoscenza della realtà. Ci siamo liberati, ci basta dirlo, sebbene non sappiamo bene cosa significhi. Con un corollario: oggi gli scrittori hanno finalmente tanto da scrivere ma nulla da dire. È un semplice problema di mercato. Voglio dire che la critica non è morta: semplicemente è sottoposta all’abbaio fobico della denigrazione. Così come avviene in politica: ma le pare normale che, da molti anni, tutto ciò che è il cuore della democrazia, dico il dialogo, la mediazione, il compromesso degli interessi per un interesse pubblico, sia tradotto con la parola “inciucio”? Una parola così è troppo ironica e infantile: urla, straparla, ma non ha la forza di svuotare nulla. Arrivo dunque alla risposta: la critica c’è sempre stata, io l’ho sempre nutrita nella mia mente. Leggo un contemporaneo come fosse un classico per il semplice motivo che, nella storia, è accaduto sempre così: è questa la natura del pensiero.

libro colasantiCito un pezzo suo, che esula dalla critica comune. “Ho riletto un milione di volte questa poesia come un rosario, strofinandola tra le dita come una foglia di menta, lasciando cadere i semi sulla terra, centellinando i suoni e gli echi”. Viene da dire. La poesia non è una ‘macchina’ formale, ma, appunto, rosario, atto che ustiona, magia in atto. Ecco. Cos’è la poesia? Come legge, lei, la poesia? Da esperto, da espropriato, da innocente?

Decontestualizzato, il passaggio ha che di acidulo e di enfatico. Tant’è: è il gioco normale della citazione. Ma che la poesia sia un “atto che ustiona” mi trova perfettamente d’accordo. La domanda è un’altra: perché questa, chiamiamola magia, non dovrebbe essere l’esplorazione razionale di una macchina formale? Del resto, la linguistica slava cambiò il mondo per il fatto che Jacobson partisse dai suoi poeti amici e non dalla Neogrammatica. Ergo: chi legge è chiaramente un esperto, mai un innocente. Con una sottolineatura: invece di perdere tempo a sentenziare su quale sia il migliore metodo critico, perché non accettare che la poesia sia un pensiero multidimensionale (ah, la mia inguaribile fonte formalista!), e dunque una lingua che ha bisogno di tutta l’esperienza possibile della vita (ah, l’umanesimo)?

In Damiani, mi pare (idea mia), il detto del ‘canzoniere’ – da Petrarca a Saba, ma lei cita Montale e l’antimontalismo di Damiani – s’infittisce in una strana, ‘romana’, lettura dei lirici nomadi cinesi, di Li Po, dei poeti T’ang. Mi aiuti a capire lei. E mi dica: quali sono i poeti che l’hanno ‘formata’, chi sono i poeti, oggi, tolto Damiani, che la convincono alla ri-lettura?

Quello che lei dice su Damiani è corretto. Ma le linee sono parallele immaginarie e non opposizioni binarie. Proprio la cosiddetta linea Petrarca-Saba ci fa capire cosa significhi davvero la cosiddetta altra linea montaliana. Gli altri poeti? Il progetto Cantieri del Nord è, appunto, una serie di libri. La sequenza include le differenze: Beppe Salvia, Giancarlo Pontiggia, Valerio Magrelli, Milo de Angelis, Paolo Del Colle, Antonella Anedda etc.

Allora, mi chiedo: come mai ‘Cantieri del Nord’ il ciclo sui poeti contemporanei? E poi, come s’incaglia nei contemporanei: per via di una lettura estatica, di studio solitario, di incontri, di affetti?

Sul titolo del progetto temo che ciò che ho da dirle venga preso come una boutade. Tant’è. Primo motivo. Cantieri del Nord è un riferimento all’immaginario della rivoluzione russa che accadde sul Baltico, a San Pietroburgo prima che a Mosca. Secondo motivo. Quando ero giovane amavo un bellissimo negozio di abbigliamento, nel centro della città. Un negozio (oggi scomparso) che aveva persino le sue leggende metropolitane: per esempio, molte ragazze che erano entrate non ne erano più uscite; si parlava di una ‘tratta delle bianche’ a Roma! Il problema vero per me era comunque ben altro: quelle splendide giacche nere costavano troppo. Non ho mai avuto i soldi per comprarne almeno una. Ora da vecchio ho pensato: non ho potuto comprare niente? bene, da vecchio mi compro tutto il negozio, appunto Cantieri del Nord. Scelgo i poeti contemporanei per una scelta di critica e di studio. Cerco solo coloro che mi insegnano e mi aiutano a vivere. Non conosco alcuna strategia di politica culturale.

La lettura del poeta (Damiani) sfonda e sfigura temi etici fondamentali. Il male, per dire (“Il Male, come l’esodo, non è, non è stato un caso. In esso opera Dio – il suo più profondo essere, offerto dalla sua invisibile e pura presenza”). A cosa ‘serve’ la poesia, allora? A farci capire la natura delle cose, a spiegarci il mistero del vivere e l’assurdo del male, a parlare con i morti, a placare i vivi?

Non sono pigrizia queste poche parole, ma la certezza che quello che lei mi domanda sia l’unica risposta. È vero, la poesia è quel sottile e segreto farci capire.

Come bisogna leggere questo suo libro anomalo: testo critico, lettera affettuosa, romanzo della critica e dell’inabissamento della critica? Che senso ha, oggi, la critica letteraria, esercizio di retroguardia, da sentinelle a devastazione avvenuta?

È un classico libro di critica letteraria. Un onesto poderoso lavoro artistico. Escludo qualsiasi metafora militare. È il libro di un architetto, di un costruttore del senso.

In questo libro che va nell’aldilà della poesia lei chiude, con un gesto di sapienza, “Alla fine di tutto, conta solo il segreto più grande: l’anima che torna e che ci rende nascenti, non più mortali. Per sempre”. Cosa significa? Dunque la parola in poesia è quella più sensibile all’ignoto, più ‘spugnosa’, capace di sorbire i misteri?

No, è la parola del nostro corpo che ci fa capire l’origine solo come un atto di nascita. E la parola in poesia, in letteratura, nel dialogo con il linguaggio, è l’unica sensibilità che abbiamo rispetto alla nostra ignoranza.

Penso a “La magnifica”, il suo romanzo pubblicato recentemente da Fazi. Che rapporto c’è – o che inossidabile divario – tra la tua scrittura ‘saggistica’ e quella pienamente letteraria? 

La Magnifica è dichiaratamente un romanzo politico sull’Italia: unico nel suo genere e nella sua necessità. Cantieri del Nord è un progetto politico edificato sulla forma espressiva più feconda, in Italia, dagli anni Ottanta: la poesia. Nego lo studio solitario: soprattutto la poesia, persino la mistica sono uno ‘spazio pubblico’.

Due domande secche. In che stato vive la letteratura italiana, oggi (romanzo, lirica)? Qual è il libro fondamentale che consiglia a un ragazzo, oggi?

Sto leggendo Pierre Bayle, Commentario filosofico alla tolleranza. Bello. Ma dei consigli dei critici diffido: sono spesso automatismi o innocenti bugie. Ad un ragazzo non direi mai quale libro leggere, darei solo una regola: leggi il libro che vuoi, basta che abbia un amico o un’amica con cui parlarne. Si cresce insieme. Si impara dagli altri. Soprattutto quando gli altri non vogliono insegnarci nulla.

 

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