La poesia di Conrad Aiken che ho tra le mani è un crescendo, un’ispirazione continua, l’epifania di un successo; una catarsi ebbra di verso in verso: insomma, corroborante sorpresa. Stupisce scoprirla nella lettura, che si fa potente di attimo in attimo. Tutto sembra esplodere e acquisire appunto potenza maggiore ad ogni capoverso; dopo ciascuna virgola tutto è così diverso, e per ciò stesso nuovo.
Non ti fa riprendere fiato. Il verbo sembra esigere una lettura continua, ininterrotta. Nonostante la stanchezza, occorre continuare a palesare la poesia fino all’ultima riga.
Non sono un re, né ho devastato regni,
Né ho preso prìncipi prigionieri, né sono stato alla testa di trionfi
Di donne in lacrime fra lunghe mura di trombe; piuttosto,
Dite che io non sono nessuno, che sono solo un atomo;
Dite piuttosto che due grandi dèi, in una volta
Luminosa di stelle, giocano pensierosi a scacchi, e alla fine
Della partita una delle pedine, urtata, cade a terra
E rotola nell’angolo più oscuro; e sono io quella
Pedina lì dimenticata, immobile… E dite
Che non ho nome, né qualità né potere, e che sono soltanto
Uno in mezzo a milioni, per lo più in silenzio; uno che venne
Con gli occhi e con le mani e con un cuore,
Che guardò la bellezza, l’amò e l’abbandonò. E dite
Che i destini del tempo e dello spazio m’oscurarono
E mi condussero al dolore per mille vie diverse, mi inebetirono,
Mi avvoltolarono nella bruttezza; e come grandi ragni fecero
Di me quello che vollero… Bene, e allora?
Forse che non udrò, mentre sarò soltanto polvere,
Le trombe della gloria squillare sulla mia tomba?
La poesia di Conrad Aiken ‒ poeta fino a ieri a me misconosciuto ‒ è un credo continuo, irriducibile, verso quel Cristo da spezzare nel pane: tanto da dirlo pure in un suono che vibra quanto il silenzio.
Non ero proprio a conoscenza di qualcuno che potesse scrivere così bene, testimoniando inavvertitamente e nell’incognito, il mistero. Non sapevo di qualcuno bravo nel descrivere la tragedia delle tragedie; quel morire per il mondo intero, attraverso un canto straziante e fin troppo umano:
Io, l’irrequieto; colui che scorre nei cicli;
Io pastore di greggi che prendo al laccio le stelle e non seppi
Catturare il segreto di me stesso; che fui tiranno dei deboli
E battei bambini; distruttore di donne; corruttore
Di sognanti innocenti, che irrisi alla bellezza; io,
Troppo facilmente mosso alle lacrime e alla levità della musica,
Ingannato e spezzato dall’amore, spettatore inerme
Della guerra che avviene nel mio cuore, guerra di desiderio contro desiderio, lotta
Dell’odio contro l’amore, del terrore contro la fame; io
Che risi senza conoscere la causa del mio riso, che crebbi
Senza alcun desiderio di crescere, servo del mio corpo;
Che amai senza ragione la carne e il riso di una donna,
In continui tormenti per trovarla! Io che alla fine divento
Sempre più debole, e più debolmente lotto, rilassando
La mia volontà, e mi scelgo a trionfo uno scopo più facile,
E guardo indietro alle prime conquiste; o, preso nella rete, grido
In una vuota e improvvisa disperazione, «Tetélestai!»
Purtuttavia, la morte di ognuno di noi è un evento. Questo sembra dirci in ultima analisi Aiken. Anzi, l’unico evento possibile, in un mondo oggi più che mai ignobile e esageratamente futile, banale.
È forse nella morte, la nostra gloria…
Ho conosciuto un tempo una poetessa che pretendeva, al suo funerale, canti, squilli di trombe, balli di festa. È difficile accettarlo. Ciò nonostante, è grande e misterioso affermarlo.
Ascolta come mormora! ‒ Soffia la polvere dalla tua mano,
Con le sue voci e con le sue visioni, calpestala, dimenticala,
Volgi verso la casa, con il cervello pieno di sogni.
È questo dunque l’umile, il senza nome ‒ l’amante, il marito, il padre,
Colui che lottava con le ombre, che sprofondò sotto strepiti di caos,
Che debole gridò «Abbandonato» come Cristo sulla vetta del colle
Mentre scendeva il crepuscolo!… È questo dunque colui che implora,
Mentre svanisce nel silenzio, una fanfara di gloria…
E chi di noi oserà negargliela?